Ho partecipato, per la verità solo parzialmente, ad un convegno organizzato dal Circolo culturale “Il borgo”, dal tema piuttosto improbo, “Quale Europa”, dalla location accademicamente austera, l’aula magna dell’Università di Parma, dal relatore di livello, Romano Prodi, imbeccato da fior di docenti universitari tra i quali spiccava il neo-rettore magnifico dell’ateneo parmense. Pubblico folto e attento, massiccia partecipazione studentesca, con tanto di ovvia presenza mediatica.
Le premesse c’erano tutte, gli ingredienti pure, se non che il cuoco ha lasciato alquanto a desiderare. Romano Prodi ci ha ormai abituati a queste scorribande, affrontate con un taglio polivalente: troppo generico e superficiale per essere in stile scientifico, troppo dimesso e improvvisato per essere di tipo accademico, troppo immediato per avere uno spessore storico, troppo confuso per avere una valenza politica.
Se uno fosse entrato timidamente nella grande sala che mette soggezione (più adatta alla contemplazione che all’ascolto) con lo scopo di trovare qualche spunto di prospettica riflessione, ne sarebbe uscito stordito da un bagno di pragmatismo europeistico da far paura: una quasi cinica descrizione dello stallo europeistico ed internazionale, una scontata analisi delle lacune italiane, una lettura “anagrafica” del fenomeno migratorio, una stucchevole fotografia dei rapporti fra gli stati europei, una precipitosa ed incauta apertura di credito verso la Cina, un discutibile sdoganamento della Russia, una sottovalutazione del ruolo americano, una paralizzante visione istituzionale e progettuale dell’Unione Europea.
Basti dire che gli unici spiragli timidamente emergenti erano costituiti dalla prospettiva di un esercito comune, dal “macronismo” ancora tutto da scoprire e dal rassicurante ruolo della Bce guidata da Mario Draghi. Per il resto buio fitto: ragionata rassegnazione e conseguente pessimismo sparso a piene mani.
Gli autorevoli interlocutori si sono opportunamente sforzati di individuare alcune piste innovative per il futuro della Ue (si capiva che avrebbero avuto più argomenti e più frecce al loro arco di quante non ne avesse Prodi): un approccio più solidale al discorso migratorio, un rilancio di alcune novità istituzionale, l’adozioni di nuovi strumenti di carattere economico-finanziario. Su queste sollecitazioni sono scese autentiche docce gelate, mitigate soltanto da qualche minuscolo e colorito aneddoto relativo ai protagonisti del processo di integrazione europea.
Se questa è la corroborante iniezione di fiducia proveniente da un personaggio di primissimo piano nella recente storia europea e di rilievo nello spazio politico della sinistra, non c’è da stare allegri: nessuna capacità di “sognare”, di buttare il cuore oltre l’ostacolo, di credere in un futuro fatto di ideali oltre che di bilanci economici, di scambi commerciali e di equilibrismi politici.
In questi giorni si fa un gran parlare della necessità per la sinistra italiana di ritrovare un approccio largo e coinvolgente verso il suo popolo. Le difficoltà in tal senso vengono fatte risalire alle divisioni, ai personalismi, ai contrasti di vertice a cui farebbe riscontro lo smarrimento di una base a cui vengono a mancare i riferimenti ideali e le soluzioni concrete. Non credo che lo scarto ideale possa essere frettolosamente e tatticamente sanato da un rassemblement tra Renzi, Bersani e D’Alema sotto l’alto patrocino del presidente del Senato e con la regia di Giuliano Pisapia. Non penso che le carenze programmatiche possano essere colmate da un ritorno all’ortodossia di una sinistra di lotta e di piazza.
Ascoltando Romano Prodi mi è venuto spontaneo far risalire la crisi della sinistra italiana più al passato che al presente: le tante, troppe, occasioni sprecate a livello governativo ed a livello europeo, di cui Prodi non è l’unico, ma certamente nemmeno l’ultimo dei protagonisti. Un passato da cui peraltro è molto difficile prendere la rincorsa: le scialbe dissertazioni prodiane stanno a dimostrarlo. Se i padri nobili della sinistra sono come lui e i traghettatori odierni sono come Pietro Grasso, ho la netta impressione che il fantomatico popolo della sinistra diventerà sempre più fantomatico e sempre meno consistente. Che non valga la pena, come si suol dire, stare nei primi danni renziani.