Se populismo vuol dire filo diretto con le pulsioni della gente senza alcuna mediazione politica, per battere il populismo non si devono ignorare aprioristicamente tali pulsioni per arroccarsi a difesa oltranzistica del sistema politico-istituzionale. Questo è il miglior assist al populismo stesso.
Non è sempre vero che il più bel tacer non sia mai stato scritto, a volte bisogna parlare anche a rischio di portare acqua al mulino della protesta fine a se stessa: occultare od ovattare la verità non aiuta a contrastare coloro che vogliono sempre andare oltre la verità apparente.
Sono le spontanee riflessioni maturate a latere della diatriba sulla Banca d’Italia ed il suo Governatore: chi osa criticare è immediatamente considerato un populista, autentico (M5S) oppure scimmiottante (Pd di Matteo Renzi). Qualcuno, all’indomani dello “sgarbato” documento di analisi critica sul ruolo della Banca d’Italia, ha ipotizzato l’esistenza in Italia di tre populismi: quello leghista di stampo squisitamente razzista, quello movimentista di contestazione globale al sistema, quello renziano di pura rincorsa ai due precedenti. Tutti o quasi tutti populisti.
Voglio fare un’imbarazzante confessione: di fronte alla superflua e stucchevole difesa d’ufficio nei confronti di Ignazio Visco (Santo quasi subito in risposta a chi vorrebbe demonizzarlo), mi sono detto che, se andiamo avanti così, per esprimere una posizione critica (il sale della democrazia) sarò costretto a votare Beppe Grillo. Se la critica a ciò che non funziona la lasciamo ai populisti per il timore di essere considerati tali, rischiamo di legittimarli quale unica forza di cambiamento: da una parte lega e cinque stelle all’attacco, dall’altra i benpensanti in difesa.
Il partito democratico viene messo su una snervante graticola alimentata dal fuoco purificatore del sinistrismo di lotta e smorzata dalle secchiate di acqua gelida del moralismo istituzionale. Paradossalmente c’è persino chi recita alternativamente le due parti in commedia: un giorno con il sindacato in piazza, l’altro con la Banca d’Italia nel palazzo.
Mio padre, con la sua abituale verve ironica, così sintetizzava lo scontro fra generazioni: «Quand j’éra giovvon a säve i véc’, adésa ch’a són véc’ a sa i giovvon…». Intendeva sdrammatizzare gli insopportabili schemi sociologici, che ci assillano con le loro sistematiche elaborazioni dell’ovvio. D’altra parte è come nella vita di coppia. Quando in una famiglia regna un clima di tensione, chi ha il coraggio di parlare si espone per ciò stesso al rischio di sbagliare: qualsiasi cosa dica si troverà contro un po’ tutti. Quando non c’è un fondamento di rispetto reciproco, qualsiasi parola è fuori luogo. Meglio tacere e non fare nulla. È quanto, in fin dei conti, molti “falsi criticoni” desiderano ardentemente. Mi sembra la migliore similitudine applicabile al dubbio amletico piddino.