Tra un diluvio e un terremoto, tra un uragano e uno tsunami, tra un ciclone e un’alluvione, tra piogge distruttive e siccità: ogni giorno ha la sua immensa pena atmosferica. Resto, come tutti, impressionato e paralizzato di fronte a questa successione di eventi che ci colpiscono. Poi mi faccio qualche domanda e azzardo qualche risposta.
In alcuni casi la furia degli eventi è complicata e aggravata dall’opera dell’uomo che ha fatto e fa un uso scriteriato della natura. Al di là del comportamento umano c’è l’ineluttabile forza della natura che ci dona tutto, ma in un attimo ce lo può togliere.
Tutto ciò, se lo vogliamo capire, ci fa sentire piccoli, ridimensiona le nostre assurde certezze e sicurezze, precarizza la nostra esistenza, rimette le cose in un certo (dis)ordine, può addirittura creare un senso di colpa nelle vittime dei cataclismi.
Gesù, interrogato al riguardo, si limitò ad escludere categoricamente un interpretazione disciplinare delle catastrofi e invitò tutti alla conversione pena il vero disastro, quello dell’uomo.
Se vogliamo quindi metterla sul piano religioso, i disastri ambientali non sono castighi divini; se vogliamo rimanere rigorosamente coi piedi in terra, non possono essere spiegati solo come autoflagellazioni dell’uomo egoista e distruttivo. Non ci troviamo in presenza di un diluvio universale a rate, né di una paradossale e squilibrata guerra continua tra l’uomo e la natura.
Qualcosa però questi eventi devono dirci, non è possibile accettarli supinamente o rimuoverli comodamente. Le reazioni spontanee vanno dalla rassegnazione alla maledizione, dal fregarsene bellamente fino al prossimo cataclisma che ci tocchi direttamente al lasciare che ognuno si gratti il proprio disastro.
Innanzitutto è ora che interrompiamo ogni e qualsiasi comportamento, che possa, direttamente o indirettamente, a breve o a lungo termine, compromettere i meccanismi della natura, la quale, se non viene rispettata, trova il modo di farsi rispettare.
In secondo luogo la scienza anziché essere orientata al mero sfruttamento speculativo della natura dovrebbe occuparsi anche e soprattutto della salvaguardia dell’ambiente naturale: siamo capacissimi di costruire armamenti sempre più sofisticati, ma difettiamo nella ricerca finalizzata al bene comune.
In terzo luogo dobbiamo globalizzare la solidarietà, condividere le difficoltà, prevedere una sorta di protezione civile internazionale che soccorra quanti restano vittime degli eventi calamitosi.
L’economia aziendale prevede che quando le cose vanno bene si accantonino utili nei fondi di riserva a copertura di perdite future e da reinvestire per migliorare e sviluppare l’attività. Se globalizziamo questo elementare concetto faremo qualcosa di serio a livello planetario, della serie “aiutati che il ciel ti aiuta”.
Nella mia notevole frequentazione, a livello professionale, con gli agricoltori sono sempre rimasto colpito dal loro atteggiamento di fronte agli andamenti stagionali sfavorevoli se non addirittura disastrosi. Niente imprecazioni, niente “piove governo ladro”, niente rassegnazione, solo rimboccarsi le maniche e guardare il tutto con occhio lungo e largo.
A tale proposito ricordo quanto diceva un caro amico, appartenente appunto alla categoria degli imprenditori agricoli, di fronte alla siccità e ad altri fenomeni naturali anomali: «Un tempo, quando succedevano simili eventi, voleva dire patire la fame, oggi ce la possiamo cavare guadagnando un po’ meno o compensando le perdite attuali con gli utili pregressi». Una magistrale e completa sintesi di quanto suddetto.