Non per fare il bastian contrario, ma negli accordi di cartello fra imprese concorrenti all’assegnazione di importanti appalti non ci trovo nulla di strano e tanto meno di delinquenziale a prescindere. Innanzitutto bisogna smetterla di fare i puristi della libera concorrenza: essa non esiste o meglio esiste in teoria, ma non nella pratica. Esisterebbe se il mercato, altro mito liberista, potesse essere fatto dalla domanda, ma in realtà è l’offerta di beni e servizi che crea e condiziona il mercato. E allora dalla libera concorrenza si passa inevitabilmente a regimi di monopolio o più realisticamente a situazioni di oligopolio. Questa è economia politica da scuola media superiore: i giornalisti e i commentatori politici vantano fior di lauree, ma incespicano in queste lapalissiane analisi.
Non basta quindi creare una forte concentrazione della domanda a livello di pubblici appalti (la tanto chiacchierata Consip voleva costituire un’unica stazione appaltante al fine di ottenere vantaggiose condizioni nell’assegnazione dei servizi riguardanti gli enti pubblici di vari comparti e di varie zone), perché dall’altra sponda, quella dell’offerta, si reagisce tendendo a spartirsi la torta senza bisogno di smagrirla eccessivamente.
Fin qui le regole di mercato. Altro è il discorso della corruzione o della concussione, vale a dire l’ottenimento tramite mezzi illeciti (danaro o altri favori) di appalti truccati e/o tagliati su misura dell’impresa X o Y. Nel groviglio degli appalti risulta difficile capire dove sta il lecito e l’illecito, non per questo tutto è da considerare illecito gridando sempre e comunque allo scandalo. Il giustizialismo non fa un buon servizio ai corretti assetti economico-finanziari: squalifica tutto e finisce col riportare tutto nella norma. È perfettamente inutile dimenticare che viviamo in un sistema capitalistico, che, purtroppo non ha alternative credibili (la storia lo ha dimostrato) e con esso bisogna fare i conti non a colpi di sentenze, ma di riforme.
In fin dei conti la sfida democratica sta in questo: chi interpreta la democrazia come semplice reggitrice del moccolo al potere economico, chi la punta come condizionatrice del sistema, a monte e valle. Non c’è posto per l’anticapitalismo delle Brigate Rosse e non vi è possibilità per l’illegittimazione ante litteram (delle varie autorità anti-qui e anti-là). In mezzo c’è la politica: è compito suo districarsi nel labirinto, tra ricette relative di destra e di sinistra, tutte comunque discutibili anche a seconda delle congiunture.
E allora ci dobbiamo rassegnare alle ingiustizie, agli squilibri, alle iniquità del mercato? No di certo, ma interrompiamo la ricerca delle scorciatoie teoriche che non esistono, per dedicarci pazientemente alla politica che è l’arte del possibile, lasciandoci possibilmente guidare da certi valori, non gridati solo e tanto dalle e nelle indagini, ma perseguiti concretamente e convintamente. Si tratta anche, al di fuori della bagarre personalistica, del nodo focale di una politica di sinistra che voglia uscire dai nominalismi e dalle utopie: non è di sinistra D’Alema perché accarezza la pancia al ceto medio impoverito e non è di destra Renzi perché detassa la proprietà immobiliare; soprattutto non è di sinistra chi vuole brandire l’arma fiscale e non è di destra chi vuole alleggerire il peso tributario. Bisogna ragionare…Non è facile. E chi mai ha potuto pensare che fare politica sia facile?
Sarà la stanchezza del caldo africano, sarà la superficialità dei media, sarà il tempo che trascorre, ma la demagogia non riesco a sopportarla. Molto meglio, tutto sommato, quella di un tempo, quella delle ideologie. Almeno si partiva dalla teoria per forzare la pratica. Oggi si forza la pratica per arrivare alla teoria.