Ultima accusa al PD è quella di essere alla spasmodica rincorsa del populismo: la prova sarebbe la tentata e non riuscita riforma del Senato prima e la recente approvazione della riforma dei vitalizi per i parlamentari poi. La formula con grande enfasi scientifica Piero Ignazi, accademico e politologo, esperto ed insegnante di politica comparata all’Università di Bologna (cfr. la Repubblica del 29 luglio 2017 pag. 29).
La sua tesi punta diritta a consegnare il partito democratico ad una deriva populista in netta discontinuità strategica rispetto ad un passato (2011) pieno di serietà, affidabilità e senso dello Stato dimostrati con l’appoggio al governo Monti ed a decenni di concretezza e pragmatismo nei governi locali delle zone rosse a livello di partito comunista e poi di suoi epigoni.
Mi permetto di dissentire categoricamente su tutto il fronte. La scelta del governo Monti andrebbe rivisitata profondamente: fu la disperata opzione di Giorgio Napolitano per salvare l’Italia dalla purulenta piaga berlusconiana e rimetterla in carreggiata rispetto ad una crisi economica che, non governata, ci stava portando nel baratro. Siamo proprio sicuri sia stato opportuno, dopo aver gettato la sacrosanta ancora di salvataggio, fermarsi in porto e rinunciare alle urne, trascinando per due anni una situazione di emergenza politica foriera di scelte molto discutibili sul piano sociale e allontanando la politica dai cittadini, che si vedevano imporre sacrifici da commissari ad acta?
Stenderei un velo pietoso sull’esperienza nelle amministrazioni locali che hanno finito col burocratizzare la società chiudendola in un recinto più clientelare che solidale e perdendo, progressivamente e da vecchia data, il rapporto con essa (discorso che risale a tempi antichi e non può certo essere imputato all’attuale Pd, semmai troppo morbido verso una classe dirigente periferica da rottamare in fretta).
Se erano e sono stati quelli gli esemplari punti di forza della serietà ed affidabilità della sinistra, stiamo freschi: pessimi escamotage di un’analisi comparata sommaria e faziosa.
Così come sono inaccettabili le semplificazioni populistiche sulla riforma costituzionale: tanti populisti, quindi, nell’assemblea costituente che accettò obtorto collo un Senato ridondante e ripetitivo, istituzione rivelatasi tale a più riprese nell’ambito di un bicameralismo tutt’altro che perfetto, quello sì, populista e fintamente garantista. Tutti populisti coloro che a più riprese criticarono, anche aspramente, questa paralisi parlamentare i cui danni, provocati nel tempo che fu, dovrebbero essere studiati a fondo (mi permetto di proporre al professor Ignazi un seminario ad hoc a livello universitario).
E veniamo ai vitalizi parlamentari. Ci voleva ben altro, sostiene Piero Ignazi. L’altro lo vedremo, per adesso giudichiamo un provvedimento che toglie di mezzo evidenti e clamorosi privilegi: non vedo un attacco alla politica, ma semmai solo un tardivo tentativo di riportare il trattamento pensionistico degli attuali, dei futuri e dei passati parlamentari a criteri di equità e di compatibilità con il sistema pensionistico in generale. Se si innescherà une revisione globale in tal senso, ben venga: giusto cominciare da chi ricopre ed ha ricoperto incarichi istituzionali per scendere eventualmente a tutta la platea dei pensionati più o meno privilegiati. Non capisco come si possa fare, la Corte Costituzionale ce lo dovrà magari spiegare, a rendere equo un sistema senza toccare nulla (chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato?): sarebbe questa la prova di responsabilità che dovrebbe dare il Pd per non urtare la suscettibilità di un establishment ingessato a difesa pregiudiziale della politica. È più qualunquista e confuso Matteo Richetti (primo firmatario della legge di riforma dei vitalizi) o i parlamentari e consiglieri regionali che hanno portato a casa pensioni da nababbo senza averne un ragionevole diritto. Sono d’accordo che non basti questo a ricuperare credibilità, ma intanto cominciamo.
Ma che più stupisce è l’auspicio finale del professor Ignazi. Si augura che ad affiancare e sorreggere questo partito (il PD) in difficoltà siano truppe fresche, ma esperte, ed aliene da tentazioni populiste. Se tutto il ragionamento ha un senso, mi viene spontaneo pensare ai Bersani, ai D’Alema, ai Rossi e c. Io ho capito così. Sarebbe opportuno che il politologo fosse magari un po’ più chiaro, altrimenti il suo discorso rimane monco. Credo che non abbia fatto nomi per evitare il rischio di far crollare il suo bel castello di carte, che comunque , a mio modesto avviso, non sta in piedi.