Il caos amministrativo di molti enti locali, di cui Roma è l’esempio sempre più eclatante e asfissiante, ha indubbiamente parecchie motivazioni di ordine politico risalenti all’inerzia e all’incompetenza di molti amministratori locali, i quali affrontano il loro ruolo più con il piglio strafottente del governatore che con l’impegno paziente del coordinatore.
La legge, che assegna ai sindaci ed ai presidenti delle Regioni enormi poteri, il sistema elettorale, che li insedia su diretto mandato dei cittadini, la personalizzazione della politica in genere hanno creato i presupposti di questa sorta di governatorati periferici, in cui si consuma l’equivoca aspettativa della bacchetta magica capace di risolvere i problemi senza passare dalle mediazioni sui programmi, dai lavori di equipe a livello assessoriale e soprattutto dalla managerialità della dirigenza alla guida degli enti preposti alla gestione dei settori e dei servizi in cui è articolata la vita di una città o di una regione.
Volendo concentrarci sui comuni, i sindaci si vedono stretti nella morsa, costituita da una parte dai cittadini elettori che attendono i provvedimenti miracolistici loro promessi durante la campagna elettorale e dall’altra parte dalla larga burocrazia amministrativa che concretamente gestisce i fatti amministrativi. Per uscirne vivo il primo cittadino deve tenersi in equilibrio: saper dialogare con i cittadini imponendo loro l’inevitabile gradualità dei cambiamenti e collaborare con la dirigenza assegnandole i giusti compiti e le opportune direttive.
Il comune di Roma applica tutto ciò esattamente al contrario: una sindaca, capitata per caso in Campidoglio sull’onda meramente protestataria dei cittadini imbufaliti contro una macchina cittadina piena di inefficienze, di irregolarità, di corruzione, di confusione; una prima cittadina totalmente priva di carisma politico, di preparazione e di esperienza, in balia di una sarabanda di funzionari e dirigenti incapaci, improvvisati, scelti a casaccio, calati dall’alto, troppo legati al passato o mandati allo sbaraglio verso un futuro alquanto vago, pericoloso, incerto, sicuro solo nelle perdite e nei debiti accumulati.
Vediamo un via vai di assessori, di capi e capetti provocato anche dalla mano pesante della magistratura, ma soprattutto dalla incapacità di affrontare le situazioni guardandole e raccontandole con spietato realismo e forte impegno rinnovatore. Si va per tentativi: fuori uno e dentro un altro, via un inquisito ed ecco un immacolato, dimissioni di un manager ed ingaggio di un sostituto, forfait di un assessore e suo immediato rimpiazzo, rottamazione di un dirigente ed entrata di uno nuovo di zecca. Un comune a porte girevoli, un’amministrazione fregoliana, un teatrino dei burattini.
E i romani con il loro ingombrante bagaglio di fascismo e clericalismo, con la loro storica pigrizia, con il loro rassegnato falso protagonismo, stanno a guardare, tra cumuli di immondizia, autobus fantasma e rubinetti a secco. Ogni giorno che passa la situazione si fa più pesante. La Raggi riesce solo e sistematicamente a scaricare colpe e responsabilità sul passato dei suoi predecessori e sul presente dei suoi referenti. Nel movimento, che l’ha candidata e difesa ad oltranza, si scalpita, consapevoli di una debacle annunciata.
Vista la scarsità, alla sindaca non resta che fare la battaglia contro l’acqua, cercando di convincere i romani che sia inquinata dal Pd. L’aggettivo “petaloso”, inventato da un fantasioso ragazzino, non ha trovato accoglienza nel vocabolario, chissà se ci entrerà l’aggettivo “raggioso”, da me affibbiato con simpatia, ad una sindaca penosa.