Nelle discussioni sull’andamento dell’economia italiana sembra di stare sull’ottovolante: un giorno è una quasi catastrofe con la borsa in picchiata, con il treno europeo che ci scappa, con il pil che batte la fiacca, con la disoccupazione che ci tormenta; il giorno successivo la borsa si riprende, l’Europa ci aspetta e ci concede lo sconto, il pil è in ripresa e l’occupazione dà qualche segno di miglioramento. Sono mesi che andiamo avanti così: gli esperti, i commentatori, gli addetti ai lavori ci ingabbiano nelle loro discutibilissime e poco attendibili analisi.
Adesso ci sono di mezzo le elezioni anticipate e allora tutto dipende da questa eventuale scadenza ravvicinata. Chi paventa un autentico disastro, chi vede la speculazione pronta ad aggredirci, chi teme per la vita delle banche, chi vota contro il governo ma vorrebbe che durasse per un altro anno, chi vota a favore del governo a denti stretti ma è tutto velenosamente preso dalla difesa del suo scarso patrimonio elettorale, chi desidera il voto anticipato ma non ha il coraggio di ammetterlo temendo di essere criminalizzato, chi fa il pesce in barile e boccia sistematicamente ogni e qualsiasi proposta.
Se bastasse votare o non votare per risolvere i problemi economici… Un giorno il governatore della Banca d’Italia piange autorevolmente miseria, il giorno dopo l’Istat ci rialza il morale; un giorno il governo sembra viaggiare sull’orlo del baratro, il giorno successivo il ministro dell’economia incassa fiducia e promesse da Bruxelles; un giorno sembriamo l’ultima ruota del carro europeo, un altro giorno l’ammalato prende un brodo e rialza la testa.
Finiamola una buona volta con queste assurde chiacchiere, con i numeri del lotto, con gli economisti che si parlano addosso e con i politici che rilasciano interviste a vanvera. Noi amiamo parlar di morte, ma non vogliamo morire. Sono laureato in economia, ho svolto una professione collegata al mondo economico, ho sempre ritenuto, pur non essendo marxista, che l’economia condizioni fortemente la politica. Ma da qualche tempo ho smesso di leggere il “non verbo” sparso a piene mani dagli economisti. Con tutto il rispetto possibile, sono solito ricordare infatti che, mentre i sociologi si esercitano nell’elaborazione sistematica dell’ovvio, mentre gli psicologi tutto spiegano a livello di subconscio quindi senza timore di poter essere smentiti, gli economisti pontificano con eloquenza, la sanno raccontare bene, ma non ci pigliano mai.
Sono partito sconclusionatamente dalle pressapochistiche e teoriche analisi economiche, che fanno a brandelli la reale economia del Paese fornendo di essa una falsa e contraddittoria immagine. È la festa della Repubblica, alla migliore delle immagini che possiamo spendere. Complice l’assegnazione del cavalierato ad un caro amico ho assistito, all’aperto e sotto un sole cocente, alla “fredda” cerimonia con tanto di alzabandiera (molto opportunamente allargato al vessillo europeo), di inni (l’inno di Mameli suggestivamente allargato all’inno alla gioia), di messaggi (brevi, inviati dalle massime autorità nazionali), di discorsi (più sostanziosi di quanto mi aspettassi), di prefetto (il suo fervorino non mi è dispiaciuto), di sindaci, di fascie tricolori, di autorità varie ed eventuali. Queste feste rischiano di inocularci pericolose nostalgie in cui lavare sbrigativamente i panni del presente. Forse, tutto sommato, è meglio guardare indietro. Poi bisognerebbe però prendere la rincorsa. Non dimentichiamo che siamo (Totti) Italiani (e juventini)! Poi c’è anche l’Europa. Mi fermo anche perché non vorrei ritornare daccapo.