A cavallo fra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso a Parma esisteva una emittente radiofonica, politicamente legata agli ambienti della cosiddetta sinistra extra-parlamentare, radio popolare (credo di ricordare si chiamasse così), che offriva agli ascoltatori una rubrica settimanale di dialogo col pubblico, curata da un personaggio pittoresco, una sorta di talk show radiofonico in cui la politica veniva sminuzzata a livello di improperi e battute improntate al più duro comunismo, al più sferzante anticlericalismo, al più feroce antifascismo.
Un giorno arrivò una telefonata da una ascoltatrice tendente a sputtanare il conduttore a livello personale. La rissa ideologica e politica era lo scopo della trasmissione e quindi niente di strano in questi dialoghi serrati e sconclusionati dove si scontravano in senso verbale rivoluzione e reazione. Infatti la replica, giocata tutta sul piano personale, fu immediata e fuori dai denti: «Ti ho conosciuto, sei una fascista, non mi posso sbagliare…».
In effetti il modo di ragionare di stampo fascista è riconoscibile. Per fortuna i Francesi hanno colto questo stampo inconfondibile nella proposta politica di Marine Le Pen e l’hanno smascherata ed arginata. Il fascismo, ora come allora tenta di assumere sembianze protettive nei confronti degli emarginati dal sistema, cerca di dare una valenza sociale alla propria linea politica, cavalca i sentimenti nazionalisti, razzisti, protezionisti e patriottici, vuole dare semplicistica e populistica risposta (fuori o a latere della rappresentanza politica democratica) allo scontento, alla insicurezza, alla paura, alla sfiducia, al qualunquismo. La storia si ripete con diverse modalità, ma la sostanza rimane immutata.
Ricordo i rari colloqui tra i miei genitori in materia politica: tra mio padre antifascista a livello culturale prima e più che a livello politico e mia madre, donna pragmatica, generosa all’inverosimile, tollerante con tutti. «Al Duce, diceva mia madre con una certa simpatica superficialità, la fat ànca dil cosi giusti…». «Lassema stär, rispondeva mio padre dall’alto del suo antifascismo, quand la pianta lé maläda in til ravizi a ghé pòch da fär…».
Sarebbe stato un vero guaio se i Francesi fossero caduti nel tranello e si fossero tirati in casa (una casa larga, anche nostra, la casa europea) un fantasma simile: l’elettorato francese si è fermato in tempo e gliene dobbiamo essere oltremodo riconoscenti.
Scampato pericolo, ma adesso? La politica deve ritrovare la forza di offrire seria, positiva e democratica rappresentanza alle istanze popolari abbandonando ogni e qualsiasi spinta populista, deve rilanciare l’ideale europeista sganciandolo dalle rigide e burocratiche impostazioni, deve aprire la società convincendo i cittadini che i problemi si risolvono aprendo porte e finestre e non chiudendole ermeticamente, deve prospettare una classe dirigente rinnovata e credibile, deve tarare istituzioni e programmi sui bisogni dei cittadini e non il contrario.
Non so se Emmanuel Macron sarà in grado di avviare simili processi. Alcune interessanti premesse valoriali e di metodo le ha poste: una certa credibilità gli viene dal non essere legato agli schemi politici tradizionali; si è presentato come un europeista ultra-convinto; ha un approccio alla politica anti-ideologico, moderno e pragmatico; promette di coniugare al meglio libertà, uguaglianza e solidarietà (tutto scritto nella storia del suo Paese, che ha fatto storia per tutti).
Capisco, ma non condivido, tutti i dubbi, le perplessità, le pregiudiziali, le cautele, i parallelismi, in cui si stanno esercitando i commentatori. Preferisco sperare e in questo senso mi è particolarmente piaciuto il commento del premier italiano Paolo Gentiloni: «Evviva Macron, una speranza si aggira per l’Europa». E Macron gli ha indirettamente risposto facendosi accompagnare, nella breve e solitaria camminata del Louvre verso l’apoteosi, dall’inno alla gioia di Beethoven, l’inno europeo. Solo, serio, a passo normale, senza ostentazione, sulle note dell’Europa. Auguri Presidente!