Quando l’esercizio del potere giudiziario si rende invadente rispetto allo spazio proprio della politica deve giustamente suonare un allarme, perché la rigorosa divisione dei poteri è un caposaldo della democrazia. Niente da dire invece, anzi ben venga, quando in assenza di normativa specifica, la magistratura è costretta ad intervenire facendo riferimento ai principi costituzionali ed a quelli generali del diritto vigenti a livello europeo ed internazionale.
Così è recentemente successo quando i pm milanesi hanno richiesto l’archiviazione per Marco Cappato, tesoriere della fondazione Luca Coscioni, esponente del partito radicale, persona da tempo impegnata nella difesa dei diritti civili, il quale era imputato di avere favorito il suicidio assistito di Fabiano Antoniani, accompagnandolo in Svizzera per mettere fine ad una esistenza atrocemente sofferta senza alcuna prospettiva.
Il ragionamento dei pm (Costituzione, sentenze della Corte Europea, sentenze della Corte di Cassazione alla mano) si basa sul principio che il diritto alla vita va bilanciato con quello alla dignità umana e quindi che “la condotta di colui che rifiuta una terapia salvavita costituisce esercizio di un diritto soggettivo riconosciuto in ottemperanza al divieto di trattamenti sanitari coatti, sancito dalla Costituzione”.
In poche parole, quando una persona è tenuta artificialmente in uno stato di “non vita” o meglio di vita non dignitosa e quindi umanamente non sopportabile (nel caso di Antoniani si trattava di vivere in un letto, senza vista e sopportando dolori atroci), è ammessa la decisione di rifiutare certi trattamenti e di lasciarsi sostanzialmente morire. Non è conseguentemente punibile chi aiuta o chi agevola in qualche modo l’ammalato ad uscire dal tunnel, dalla “notte senza fine” come l’aveva eloquentemente definita l’interessato.
Apriti cielo. Di fronte ad un ragionamento giuridico razionalmente inattaccabile è partito il fuoco di fila, per la verità sempre più fatuo, dei difensori d’ufficio della sacralità della vita, sbandierando il pericolo dello sconfinamento nell’eutanasia e addirittura quello della cinica volontà di risparmiare soldi rottamando i malati terminali.
Se ci facciamo condizionare dai pericoli economici, si sappia che l’ultimo dubbio di cui sopra può essere facilmente rovesciato sul rischio che esistano interessi farmaceutici e sanitari a tenere forzosamente in vita persone in condizioni inumane. Ma direi di evitare queste macabre e assurde dietrologie per andare al sodo.
Quando si scende sul piano dogmatico, peraltro condizionati da astratti e fuorvianti principi religiosi (con i quali la fede ha poco o niente a vedere), si arriva a voler tracciare confini tra suicidio assistito ed eutanasia: disquisizioni teoriche sulla pelle di persone che non difendono un loro capriccio, ma chiedono il riconoscimento del diritto di uscire dalla loro disperazione per chiudere dignitosamente la loro esistenza.
Rifiuto sdegnosamente il socio-catastrofismo cattolico: divorzio = fine della famiglia; aborto = colpevole denatalità; contraccezione = egoistica sessualità; biotestamento = anticamera dell’eutanasia; suicidio assistito = eutanasia camuffata; eutanasia = capriccio esistenziale.
Sono portato anche ad allargare il discorso agli aspetti religiosi nei loro stucchevoli distinguo: il confine tra pillola del giorno dopo e aborto vero e proprio; la distinzione tra metodi naturali ed artificiali nella contraccezione; persino certe distinzioni tra aborto terapeutico e aborto volontario.
Di fronte a queste dissertazioni etico-moralistiche il grande Indro Montanelli sfoderava tutta la sua laicità e concludeva drasticamente e amaramente: «Sono beghe di frati!». Io, a differenza di Montanelli, mi considero un credente, ma condivido pienamente il suo giudizio: «Sono beghe di frati!». Purtroppo però queste beghe continuano a condizionare il Parlamento italiano e a disturbare le coscienze di credenti, non credenti e diversamente credenti.