Il sentimento popolare e individuale che caratterizza la presente fase storica è la paura. Le nostre scelte di vita rischiano di esserne condizionate a tutti i livelli ed in tutti i sensi. Abbiamo una tremenda paura di non trovare o perdere il lavoro e, prima ancora, di cadere in povertà (a volte si tratta solo di timore per un minore ricchezza): la crisi economica ci allarma, molto probabilmente ci rendiamo conto che non riusciremo più a tornare al benessere di qualche tempo fa, che dovremo, poco o tanto, tirare la cinghia e tutto ciò ci preoccupa e ci inquieta.
Alla paura economica però aggiungiamo quella sociale: abbiamo cioè, per dirla brutalmente, paura degli altri. Un tempo cercavamo nelle altre persone gli interlocutori a livello culturale, i sodali a livello sindacale, i compagni a livello politico. Oggi ci sentiamo drammaticamente soli, ci chiudiamo in difesa, negli altri vediamo solo pericolosi contendenti: questi atteggiamenti trovano la loro egoistica esplosione soprattutto nei confronti dei migranti, percepiti come usurpatori del nostro quieto vivere.
Abbiamo paura della violenza, della delinquenza, del terrorismo. Ci sentiamo insicuri, precari, deboli e soli. Pensiamo di difenderci con i muri, con le armi, con le condanne, con le carceri. Più ci preoccupiamo, più ci isoliamo, più ci chiudiamo in noi stessi e più restiamo attanagliati e paralizzati dalle nostre paure.
A ben pensarci anche i discepoli e gli apostoli di Gesù, di fronte alla “brutta piega” che stava prendendo la vita del Maestro e quindi anche la loro storia, furono presi e dominati dalla paura, dalle paure di cui sopra. Delusi da uno strano Messia che non li rassicurava affatto nei loro problemi, che non dava alcuna prospettiva interessante alle loro ansie di riscatto politico, economico e sociale. Spaventati dal clima conflittuale che si era scatenato intorno a loro, dalla contestazione che stava montando verso il loro capo, dall’estrema incertezza sul loro futuro. Terrorizzati dall’attacco forsennato e violento contro la loro piccola comunità che stava implodendo nel tradimento e nel rinnegamento. Rimasero totalmente spiazzati dagli avvenimenti, scapparono, si chiusero in casa: la paura li aveva sconvolti.
Solo alcune donne ebbero il coraggio di non fuggire, volevano vedere, capire, soffrire assieme al loro leader che le aveva emancipate: gli dovevano un minimo di riconoscenza. Vinsero la paura con la condivisione, fino in fondo, fin sotto la croce, fin verso la tomba. Rischiavano grosso. Pensiamo a Veronica, un personaggio assai plausibile anche se non documentato nei vangeli: si accosta a Gesù che sta salendo al Calvario, piange, lo guarda con dolcezza, gli deterge il viso, la scostano brutalmente, ma lei sa solidarizzare, anche solo con un gesto di pietà verso questo uomo distrutto dalla umiliazione e dalla sofferenza. Furono le prime a rendersi conto della Risurrezione e non furono credute. Non ebbero paura della paura. E noi continuiamo a non credere alle donne e a torturarle…
Mi piace interpretare la Pasqua come la sconfitta della paura, la vittoria del coraggio che si esprime nella solidarietà verso gli altri, nel servizio, nel dono.
O, credenti e non credenti, sapremo recuperare questo senso della vita o rimarremo prigionieri della paura, vittime dei nostri limiti, in balia degli illusionisti.
Auguro quindi una Pasqua di coraggio per vincere le paure, tutte riconducibili, stringi-stringi, a una, quella di morire.