Ho da sempre pensato che le forze di polizia sappiano tutto di tutti: argomento inquietante sul piano del rispetto delle libertà democratiche e della privacy. Si spererebbe che almeno questa schedatura servisse per la lotta alla delinquenza, per la difesa dell’ordine pubblico e, volendo dirla con un’espressione molto in voga, per garantire la sicurezza.
Nutro seri dubbi sulla capacità di utilizzare questi dati. Se mi sbagliassi, avremmo infatti ottenuto risultati apprezzabili nella lotta alla mafia, allo sfruttamento della prostituzione, allo spaccio di stupefacenti. Invece brancoliamo nel buio o tolleriamo il buio (ipotesi piuttosto plausibile) per paura, inerzia, omertà, inettitudine, debolezza.
Il discorso torna di grande e drammatica attualità in materia di terrorismo islamico. Dopo ogni attentato eseguito nei Paesi Europei, ultimo in ordine di tempo quello ai Campi Elisi alla vigilia delle elezioni presidenziali francesi, si viene a sapere che gli esecutori materiali e i loro complici erano da tempo inseriti negli elenchi elaborati dall’intelligence e quindi a disposizione delle forze di polizia. Si tratta cioè di soggetti attenzionati in quanto radicalizzati a livello dell’islamismo più feroce e combattente, propagandisti della guerra contro l’occidente, in poche parole potenziali terroristi. E allora?
I casi possono essere tanti. Forse i nominativi sono troppi e non si possono controllare tutti. Si tratta probabilmente di migliaia di persone uscite da una generalizzata scrematura: seguirli tutti significherebbe impiegare mezzi e risorse esagerate. La cautela oltretutto impone di non fare di ogni erba un fascio. Magari in questi elenchi ci sono soggetti che col terrorismo c’entrano come i cavoli a merenda.
Posso essere malizioso? Non vorrei fossero elenchi pletorici in cui c’è dentro di tutto e quindi oggettivamente inutilizzabili. Se è così, a cosa servono? Si finisce col sopportare gente che va dentro e fuori dalla galera, che frequenta moschee a destra e manca, che viaggia indisturbata, che ha tutto il tempo per organizzarsi ed attrezzarsi.
Può darsi che in molti casi queste segnalazioni abbiano funzionato e siano servite direttamente o indirettamente a parare colpi terroristici, a sventare attentati: mi auguro sia così, perché diversamente si tratterebbe veramente di schedature-patacca.
Quando si parla di lotta al terrorismo giustamente si va a finire proprio lì. Se da una parte si ritiene che non sia possibile scatenare una guerra (è quanto vorrebbero i terroristi), instaurare regimi polizieschi ed antidemocratici (sarebbe dargliela vinta), bloccare i flussi migratori (gli immigrati non sono certo tutti terroristi e poi i muri oltre che essere eticamente spaventosi, sono concretamente inutili, servono solo a dare fumo negli occhi), dall’altra parte si punta all’aiuto verso gli Stati da cui provengono i disperati, ad una politica seria di integrazione degli immigrati e ad una azione di intelligence che prevenga e combatta il terrorismo serpeggiante nelle nostre società. Non c’ alternativa!
Poi si scopre che i servizi dei vari Paesi non collaborano fra di loro, che vengono commesse strane ingenuità, che si conoscevano nomi e cognomi. So benissimo che si lavora nel difficile. Tuttavia forse sarà il caso di darsi una mossa invece di piangere sul latte versato o di pretendere di eliminare il latte. Questi comportamenti “leggeri” finiscono col portare acqua al mulino dei razzisti, dei populisti, dei nazionalisti, pronti a cavalcare la paura e ad illudere di avere in mano le ricette giuste, che non esistono.
Termino questa riflessione col veleno nella coda: come mai siamo così spietati ed efficienti quando si tratta di colpire i no-global (ogni riferimento alle “macellerie genovesi” è puramente casuale) e siamo così titubanti e disorganizzati contro i potenziali terroristi?