Di fronte a un problema importante, delicato e complesso, come quello dei rapporti con l’Unione Europea, si stanno consolidando due atteggiamenti radicalmente negativi e pericolosi: da una parte l’ostilità dell’antieuropeismo sostanzialmente motivato dal vivere il legame con la Ue come una cappa burocratica opprimente; dall’altra la rassegnata e sofferta autocolpevolizzazione per i conti pubblici in disordine, soprattutto rispetto ai parametri fissati in sede europea.
A ben pensarci, sono le due facce della stessa medaglia, che ci confina ai margini della comunità europea col rischio di vivere fermi sulla soglia pronti ad uscire o ad essere buttati fuori.
In questo periodo, al di là del pilatesco “libro bianco” delle buone intenzioni di Jean-Claude Juncker, troppi personaggi, commissari, tecnici, economisti, quasi sempre in evidente contrasto fra di loro, ci offrono le loro ripetizioni dopo averci continuamente rimandato al prossimo e ravvicinato esame: chi muore rigoristicamente dalla voglia di bacchettarci, chi cerca flessibilisticamente e paternalisticamente di allungarci una mano, pochi rispettano i nostri problemi e le nostre capacità.
Tutto sommato penso a volte che il nostro obiettivo “sgarrare” rispetto ai parametri del debito pubblico e del deficit di bilancio sia non solo l’occasione per contenerci entro i limiti della convivenza economico-finanziaria, ma il pretesto (?) per giudicarci e relegarci nella fascia dei partner inaffidabili e pericolosi.
La nostra immediata e orgogliosa reazione dovrebbe essere quella che ci suggeriva spesso il presidente Sandro Pertini: l’Italia non è prima né seconda a nessuno! Poi però bisogna anche ammettere che chi è causa del suo mal deve piangere su se stesso.
Mi riferisco all’esito del recente referendum sulle riforme costituzionali. Ci eravamo faticosamente costruiti una certa e ragionata credibilità avviando un virtuoso percorso di rinnovamento strutturale del nostro Paese, dal mercato del lavoro alla pubblica amministrazione, dalla giustizia ai diritti individuali, dall’economia alle istituzioni. Lo abbiamo bruscamente e scriteriatamente interrotto e riprenderlo non sarà facile, pur con tutto il rispetto per Paolo Gentiloni ed il suo governo (che non è affatto una fotocopia del precedente).
Abbiamo altresì dissipato, con quello sbrigativo ed irrazionale No, un piccolo patrimonio di autorevolezza riferibile anche “all’euforico carisma renziano” ed alla sua capacità di rapportarsi alla pari con i partner europei, persino i più sussiegosi, e con le forze politiche del socialismo a livello continentale.
Tutto si è fatto più difficile, ci siamo messi in stand by e ne soffriamo le conseguenze. A livello europeo si stanno sicuramente chiedendo: dove va l’Italia del (quasi) dopo-Renzi? E noi cosa rispondiamo? Per il momento siamo stati in grado di garantire una minimale continuità di governo (Gentiloni, ma soprattutto Padoan), un rigoroso rispetto istituzionale e costituzionale (Mattarella) assieme ad una situazione politica estremamente incerta (le divisioni e fratture del PD) e con prospettive inquietanti (i lepenisti nostrani si chiamino Salvini o Grillo).
Questa situazione dovrebbe o potrebbe teoricamente perdurare fino alla scadenza naturale della legislatura: oltre un anno di problematica continuità all’insegna dell’instabilità. Può bastare? Comincio seriamente a dubitarne.
Dobbiamo ammettere quindi che sulla data delle prossime elezioni politiche non influisce solo la necessità di avere una seria legge elettorale, di affrontare i problemi e gli appuntamenti urgenti, di decantare le scaramucce politiche di vario tipo, di superare i malumori del dopo-referendum cercando magari di evitare i referendum che si profilano all’orizzonte. Teniamo conto anche dell’Europa. È pur vero che altri Stati Europei sono in stand by in attesa dell’esito di incertissime consultazioni elettorali (Olanda, Francia, Germania), ma l’Italia all’incertezza del suo quadro politico aggiunge quella della sua situazione economico-finanziaria. Una zeppa che probabilmente non ci possiamo permettere.
Sono sempre stato piuttosto perplesso sul ricorso anticipato alle urne, perché ho sempre ritenuto che comportasse un aggravamento dei problemi assieme ad una complicazione nella loro soluzione: la democrazia non è solo votare e rivotare. Questa volta ammetto di essere molto più possibilista sul voto anticipato, complice l’Europa con le sue provocatorie ma ineludibili reprimende.