Sul mio libro di lettura della scuola elementare vi era un raccontino di fantasia, molto semplice e retorico, ma anche molto significativo. Era ambientato in Olanda terra delle dighe. In una di essa si era creato un piccolo foro e un bambino-eroe teneva il dito dentro quel foro in attesa che arrivassero gli uomini addetti alla manutenzione per riparare il danno.
Ebbene gli olandesi in queste loro elezioni hanno tenuto il dito nel foro dell’ultradestra populista e xenofoba e per il momento la diga ha tenuto, ma devono arrivare le politiche convincenti a riparare definitivamente i danni e mettere in sicurezza l’Europa.
Seppure con una certa fatica e con dati non esaltanti ed estremamente frammentati, la politica olandese esce da questa consultazione elettorale con un Parlamento al limite della ingovernabilità, ma saldamente contrario all’avventurismo populista.
Bisogna lavorare di fantasia, ma alla fine si trova nel panorama partitico uscito dalle elezioni olandesi un senso politico incoraggiante: un’area di centro destra piuttosto articolata, moderata, liberale ed europeista; un’area di sinistra fragile e divisa tra i laburisti in caduta libera e i verdi in forte ascesa; gli anti-tutto della destra estrema che sono il secondo partito, fuori gioco rispetto alle prospettive di governo.
Vorrei tentare un parallelismo con la situazione italiana. Vediamo in rapida sintesi l’Olanda uscita dalle urne dopo una terapia d’urto a base di aspirina per abbassare la febbre populista. Possiamo dire che l’Olanda è sfebbrata, non certo guarita.
A sinistra dominano le divisioni, anche se il segnale olandese segna una preferenza verso una impostazione non ideologica, moderna, aperta, giovane e multiculturale. “Credo che d’immigrati ne vadano accolti e aiutati molti di più di quanto facciamo noi. Sono soltanto loro che possono diventare quella linfa vitale in grado di salvare una società come la nostra che è sempre più stanca e sempre più vecchia”, così dice una giovane studentessa sostenitrice del partito ambientalista.
Il centro-destra, messo sotto scacco dai populisti, ha saputo trovare la sua ragion d’essere, senza rincorrere la destra xenofoba, garantendo in senso moderato, democratico ed europeista la difesa dell’identità nazionale.
Il populismo, pur cavalcando l’onda di brexit e di Trump e collegandosi con le forze di tale stampo emergenti negli altri Stati europei, non ha sfondato e si è chiuso in un recinto pericoloso, ma minoritario e senza grosse prospettive politiche.
E in Italia? La sinistra è divisa, ma non riesce a trovare la cifra della modernità, intestardendosi nelle nostalgie identitarie e indulgendo al solito puritanesimo ideologico. Il centro-destra italiano non riesce ad affrancarsi dal condizionamento dei partiti populisti (Lega e FdI) e ondeggia: l’estemporanea trovata di Berlusconi sulle due monete (euro e una moneta nazionale di scorta) la dice lunga in tutti i sensi.
Gaetano Quagliariello, un inquieto ma intelligente ex-berlusconiano, parlamentare da tempo alla ricerca di una collocazione di prospettiva, così sintetizza la situazione politica italiana: «Sono preoccupato, a sinistra si menano come fabbri, i cinquestelle sono minoranza istituzionalizzata e a destra siamo in cerca d’autore…».
L’area populista in Italia è sdoppiata (?) tra leghismo e grillismo. Mi ha fatto quindi una certa impressione leggere come Marc Lazar, autorevole politologo francese, classifichi gli italiani Cinquestelle tra i populisti tout court, assimilandoli al partito olandese di Wilders e al francese Front National di Marine Le Pen. Forse più simili al primo che al secondo, assai più vicino alla Lega: Grillo infatti, come Wilder, è un membro unico del suo partito, con una base improvvisata alle spalle, sempre a rischio di implosione da un momento all’altro: lo si vede dalla necessità di tenere alta la violenza verbale, di giocare costantemente allo sfascio e di puntare allo splendido isolamento; lo si è visto nel momento dello sbando per la collocazione nel Parlamento europeo; lo si nota dalle indiscrezioni sulla sua squadra di governo a livello nazionale, francamente risibile se non ridicola.
Forse dall’esterno le cose si vedono meglio e si diradano certe distinzioni di lana…grillina. Questa, nella mia estrema e provocatoria sintesi, l’Italia politica di oggi.
Il succitato esperto francese afferma: «Assistiamo ad un cambiamento di portata storica per cui l’antagonismo non è più tra destra e sinistra, ma tra favorevoli e contrari all’Europa. Servirebbe maggiore integrazione economica, sociale e politica e ci vorrebbe più democrazia. Serve una battaglia politica e culturale europea, pedagogica, per spiegare ai cittadini che anche di fronte ai problemi l’unica soluzione è l’Europa».
Dobbiamo abituarci a ragionare in questi termini, adottando lo schema europeista nelle nostre analisi politiche e programmatiche. Così come, sempre a detta di Marc Lazar, dobbiamo prendere atto che oggi non ci sono più movimenti che attaccano apertamente la democrazia in favore della dittatura, ma la critica è contro la democrazia rappresentativa. Si vorrebbe una democrazia immediata, quasi diretta, senza l’abolizione del Parlamento, ma con continue convocazioni di referendum. E allora ecco la necessità di riforme istituzionali che aprano, nei limiti del possibile, le porte della politica, arginando le conseguenti derive populiste.
Come sostiene un importante ed autorevole intellettuale olandese, Geert Mak, intervistato da la Repubblica, l’Europa non può stare tranquilla: «L’Ue così com’è non funziona. E se non cambia, collasserà come la vecchia Repubblica olandese. È una struttura statica e squilibrata, con regole inadatte agli imprevisti, che non fa nulla per proteggere i suoi cittadini da una globalizzazione troppo veloce, da una finanza feroce e dalla volubilità dei mercati. Non fa nulla per farli sentir a casa gli europei, né si spende per farli sentire sicuri. O diventiamo una vera federazione oppure l’Europa è destinata a morire. L’Europa deve essere un posto dove vivere, non solo uno spazio».
Sarà il caso quindi, ad esempio, di non fare melina con gli Scozzesi, trincerandosi dietro procedure di lungo tempo e corto respiro: ben vengano, se credono nell’Europa a differenza degli inglesi. I tatticismi lasciano il tempo che trovano, la paura dei secessionismi non deve condizionare, anzi il federalismo europeo potrebbe proprio essere la cartina di tornasole delle rette intenzioni dei separatisti presenti in altri stati membri.
Tutti spunti di riflessione. La fase elettorale, che dovrebbe fare la prova del nove all’Europa, è cominciata. Non male del tutto. Vedremo in Francia, in Germania e poi…in Italia. Speriamo, come Italiani, di rimanere protagonisti e di non accodarci semplicemente all’aria che tira.