La vicenda giudiziaria che sta avvolgendo Matteo Renzi puzza di prefabbricato lontano un miglio. C’erano le avvisaglie da tempo al punto da far profetizzare a Stefano Folli, opinionista de la Repubblica, parecchio tempo fa, “l’avvio di una fase di ostilità i cui riflessi sono difficili da valutare oggi”. E proseguiva con “Il problema è: Renzi e il suo governo sono in grado di reggere una ripresa di iniziative giudiziarie ad ampio spettro? L’effetto destabilizzante di una tale offensiva non ha bisogno di essere illustrato”.
Ebbene potremmo dire che siamo arrivati al dunque: proprio nel momento di maggior debolezza renziana, dopo la sconfitta al referendum costituzionale, dopo le dimissioni da premier, dopo la spaccatura del partito democratico, dopo l’indizione di un congresso difficile e contrastato, ritornano a galla, con ulteriori elementi, tutti da valutare giudizialmente, ma comunque sbattuti in prima pagina, indagini – con il coinvolgimento, a diverso titolo, del padre, di uno stretto collaboratore nonché ministro e di alcuni amici di Renzi – inerenti un possibile inquinamento affaristico nelle procedure di assegnazione degli appalti da parte della Consip, la centrale unica degli acquisti delle Pubbliche amministrazioni, controllata dal Tesoro e protagonista della metà dello shopping di beni e servizi nel settore pubblico.
Il fatto insospettisce per la cronometrica dinamica innescata, per l’ovvia e immediata cavalcata delle Valchirie politiche nemiche, per il clamore mediatico abilmente confezionato, per il clima da spallata definitiva al tanto odiato personaggio, che ha osato rompere le uova in troppi panieri.
Renzi è indubbiamente stretto d’assedio da due punti di vista: giudiziario e politico.
Sul piano legale fa benissimo a rimettersi totalmente al corso della giustizia, a confermare piena fiducia nell’operato della magistratura, accantonando ogni e qualsiasi dubbio sul protagonismo dei giudici, senza cedere alla tentazione dell’asse antigiudiziario, senza ricadere minimamente nell’errore caratteristico del berlusconismo di cui porteremo le nefaste conseguenze per sempre.
Resta tuttavia, sul piano politico, il dubbio atroce, abilmente sollecitato e coltivato dagli antirenziani sparsi dappertutto, che possa essersi venuto a creare, direttamente o indirettamente, in capo a Matteo Renzi un ganglio affaristico condizionante certi importanti rapporti tra politica e mondo imprenditoriale. Questa situazione non so se sia affrontabile e dipanabile facendo solo ricorso al (giusto) garantismo universale o se necessiti di qualche altro intervento. E se sì, quale.
Occorre, a mio giudizio, fare una cospicua premessa. La Costituzione Italiana all’articolo 54 recita testualmente: «I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge». Siccome i costituenti erano bravi e lungimiranti, ma non capaci di fare miracoli, non potevano prevedere chi e come si sarebbe potuta operare una verifica al riguardo.
Vedo, quindi, sostanzialmente, due strade percorribili: una in salita e una in discesa. La prima, quella più impervia e difficile, consiste nel chiarire per filo e per segno, nei limiti del possibile, le situazioni, non tanto quelle oggetto di inchieste giudiziarie, ma quelle di base: quali rapporti esistevano con questi personaggi e questi mondi presi di mira dalle inchieste; quali precauzioni sono state adottate per evitare intromissioni e deviazioni; quali regole vigevano nei rapporti con i collaboratori più stretti e con la struttura burocratica del governo; c’erano e, se c’erano, quali sforzi si sono fatti per illuminare il più possibile le zone d’ombra che potevano e possono sussistere nei rapporti tra il governo del Paese e i più forti interessi economici. Domande tutt’altro che retoriche e scontate. Credo che i cittadini, al di là delle indotte tentazioni dell’anti-politica, abbiano il diritto-dovere e forse anche il desiderio di capire, prima di giudicare. Aiutiamoli a farlo.
Vengo alla seconda strada, quella in discesa, quella che taglierebbe la testa al toro, quella dell’aprire improvvisamente la porta quando in molti spingono per abbatterla. Farsi da parte in attesa che la magistratura chiarisca e ristabilisca la verità. Non un atto di resa, ma di rispetto verso i cittadini e le istituzioni. Si dirà che così facendo si finisce con l’ammettere errori od omissioni, col dare soddisfazione a chi aveva l’esclusivo intento di distruggere una prospettiva politica: può essere vero, ma sarebbe anche il modo per spostare (innalzare) il discorso dallo scontro politico avvelenato, dalla palude delle contestazioni reciproche al senso di responsabilità del mettere in primo piano gli interessi del Paese e le difficoltà che sta vivendo.
Sono personalmente un “dimissionista” spinto e quindi perfettamente consapevole di aggiungere e sovrapporre una mia predisposizione psicologica all’analisi obiettiva di una situazione delicata e complessa. D’altra parte ho affrontato con sano realismo il discorso in tutti i suoi possibili sbocchi.
Non nascondo di essere ancor più infastidito dal clima di grilloparlantismo che si è venuto a creare sull’operato del governo Renzi in questi tre anni: in troppi tranciano giudizi sommari, superficiali e parziali. In poche parole Renzi doveva fare tutto, presto e bene, mentre i suoi predecessori hanno fatto poco, spesso lentamente e talora male. Ma di questo, semmai, parleremo in una prossima ravvicinata occasione. Ad ogni giorno basta la sua pena.