Il Partito democratico sotto la guida “maanchista” di Walter Veltroni nel 2008 ottenne un buon risultato elettorale, un 33%, che tuttavia portò alle dimissioni del segretario reo di aver perso le elezioni consentendo l’ultima (speriamo) rinascita di Berlusconi e di un suo governo. Probabilmente Veltroni ebbe una certa fretta di farsi da parte. Il suo ragionamento fu: ho puntato ad un PD forza politica maggioritaria, ne è uscito un PD forte ma minoritario, vado a casa e andate avanti voi ché a me scappa un po’ da ridere.
Dopo il disastro berlusconiano da tempo annunciato e la sua caduta con la famosa spallata europea, dopo la “indigesta ciambella napolitana” del governo Monti, si arriva alle elezioni politiche del 2013: il PD sotto la segreteria “battutista” di Pierluigi Bersani sembrava destinato a vincere a piene mani e invece…ottenne un modestissimo 25% perdendo oltre sei milioni di voti. Dopo un’inutile corteggiamento ai grillini, i veri vincitori usciti dalle urne, la palla torna ancora Napolitano, costretto ad un forzato bis della sua presidenza e obbligato all’esercizio della sua fantasia istituzionale con il varo del governo di (quasi) unità nazionale presieduto da Enrico Letta.
Così come il buon risultato (33%) del 2008 era stato sbrigativamente archiviato come un insuccesso, il disastroso risultato del 2013 venne vissuto come se niente fudesse, un piccolo incidente di percorso. Veltroni si era dimesso, Bersani, se tanto mi dà tanto, avrebbe dovuto andarsi a nascondere per sempre. Invece…ce lo siamo ritrovato, a distanza di tre anni circa a pontificare, a fare le pulci ad un segretario “rottamatore”, Matteo Renzi, che fino a prova contraria aveva riportato il partito in auge con un enorme 40% ottenuto alle elezioni europee del 2014. Non solo, ma il nostro Pierluigi, con la sua “banda di perditempo” (Antonio La Forgia, ex presidente della Regione Emilia Romagna, ex dirigente Pci, ex segretario regionale Pds, ex Margherita, dopo averli ben conosciuti dal di dentro, definisce così il gruppo di irriducibili, Bersani, D’Alema e c., che, a suo dire, avrebbero rovinato la sinistra in Italia) ha fatto il diavolo a quattro fino al punto da portare la minoranza interna, da lui più o meno guidata, su posizioni di aperto e netto dissenso verso la linea del partito (si pensi al No al referendum sulle riforme costituzionali), culminate nella recente sciagurata separazione.
Cosa ricavo da questa arida sintesi, oltretutto monca di alcuni passaggi? Che nel PD esiste uno strano concetto di sconfitta e vittoria, tale da rivalutare il mitico Pirro. Il vivo giace e il morto si dà pace. Gli anni dal 2013 in avanti sono stati utilizzati non tanto per analizzare i motivi di una sconfitta cocente, ma a sminuire e relativizzare le cause di una vittoria incoraggiante (quella appunto alle europee del 2014). Credo abbia ragione Romano Prodi quando afferma di essere entrato in politica pensando che fosse il regno della razionalità, mentre in realtà è il regno della passione e dell’irrazionalità. Principi che hanno portato, a suo dire, alla scissione in contrapposizione insanabile con una razionalità che avrebbe dovuto tenere unito il partito democratico.
Lo stesso atteggiamento pregiudizialmente disfattista (cosa assai diversa dalla ragionata critica) si è avuto nei confronti del governo Renzi e della sua azione. Governare i processi, infatti, per la “sinistra passionale”, vuol dire tradire la propria identità e quindi, con i traditori non si dialoga si fa la guerra. Siamo arrivati ai niet sulle riforme costituzionali, sulla riforma elettorale, sulla riforma del mercato del lavoro, sulla riforma della scuola, etc.
E adesso? Tutto da capo! Si ricomincia dal Lingotto, costretti al culto della memoria. Renzi non sarà un grande stratega, un uomo di Stato, un gran riformatore, un leader fenomenale. Un politico chiacchierone e ultimamente persino chiacchierato? Può darsi, anche se quando lo sento capisco che in lui c’è qualcosa di interessante da mettere alla prova. Gli altri? Meglio lasciar perdere.