Il cardinale Carlo Maria Martini non era certo un porporato che amasse il proscenio e che sparasse giudizi avventati o immotivati: era uomo di grande equilibrio, ma coraggiosamente profetico. Quando diceva che la Chiesa era indietro di cento anni rispetto al mondo contemporaneo, rendeva perfettamente l’idea dei ritardi culturali, teologici e pastorali che ne zavorrano la vita.
Durante il papato di Ratzinger, alla cui elezione aveva probabilmente contribuito sulla base di un patto di compromesso che almeno smussasse gli angoli più acuti e pericolosi della dottrina e della prassi cattolica (qualcuno parlò di un vero e proprio lodo, redatto da padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia), il cardinal Martini ogni tanto, soprattutto in corrispondenza di certi atteggiamenti retrogradi emergenti nelle alte sfere vaticane, si sentiva in libera uscita e diceva la sua, senza troppi freni con interviste e interventi sulla stampa laica.
Ricordo che, quando venivo confortato da questi pronunciamenti autorevoli, immaginavo il dramma interiore di questo ammirevole ed autorevole uomo di Chiesa: davanti a certi rigurgiti reazionari, a certe posizioni assurdamente dogmatiche, per non dire burocratiche, probabilmente adempiva al dovere di tenere accesa la lampada conciliare, dimostrando l’esistenza di un sano pluralismo ed evidenziando l’esigenza di un profondo rinnovamento (se non erro non escludeva neppure la celebrazione di un nuovo concilio).
È vero che il cammino del popolo di Dio, emergente dalla Bibbia e dalla tradizione cristiana, è illuminato dai profeti, i quali hanno fatto tutti, più o meno, una brutta fine ed hanno visto le loro ragioni riconosciute a distanza di parecchio tempo. Niente di nuovo quindi sotto la cupola e sopra la cattedra di S. Pietro. I ritardi sono, oserei dire, connaturali alla Chiesa Istituzione, alla religione quando si allontana dall’ispirazione della fede (il Vangelo) per battere i sentieri dei principi e delle regole, ai cristiani quando intendono saperne e dirne più di Cristo stesso.
Lavorando di fantasia mi piace pensare al cardinal Martini che dall’aldilà, nel 2013, dialoga fittamente niente meno che con lo Spirito Santo e lo convince ad intervenire: la misura della necessità di rinnovamento è colma. Arrivano le improvvise, ma meditate e lungimiranti, dimissioni di Benedetto XVI e poi la nomina a papa di Bergoglio, il quale già con la scelta del nome e coi primi gesti dà l’idea dell’inizio di una nuova fase nella vita della Chiesa cattolica.
Dagli approfondimenti in cui mi sono cimentato, in materia di sessualità e di etica in genere, mi sono creato un’idea sul significato del pontificato bergogliano e sulla svolta da lui impressa. I passi avanti ci sono stati, non tanto nel merito delle questioni delicatissime tuttora aperte, ma nello stile per affrontarle e viverle. Faccio due esempi.
La pratica omosessuale e le unioni fra omosessuali non sono state sdoganate da millenni di oscurantismo, ma è cambiato tuttavia l’approccio della Chiesa verso queste sorelle e questi fratelli, che non vengono più giudicati ma accolti, condannati ma compresi, emarginati ma inseriti.
Oggi, in pieno pontificato di Francesco, a Piergiorgio Welby non sarebbe stato negato il sacrosanto diritto di un funerale religioso in nome di un fantomatico e farisaico rispetto della vita.
Potrei continuare con i divorziati, per i quali non si ha ancora il coraggio di una promozione piena e totale nelle loro nuove esperienze sentimentali, ma si è rispolverata una prassi (quasi) uscita dalla porta scolastica e rientrata dalla finestra curiale, vale a dire una sorta di giudizio d’appello dopo apposito corso di recupero. Almeno, questi cristiani non si sentiranno più bollati e segnati a dito come avveniva in un passato anche recente.
Non siamo ancora arrivati alla meta, resta sempre quel non so che di calato dall’alto, proprio l’esatto contrario dell’essenza del cristianesimo, che non è una gentile concessione di un Dio giudice, ma la totale incarnazione di Dio nella vita umana.
Provate a pensare tuttavia cosa sarebbe probabilmente successo prima del pontificato di Francesco, davanti all’episodio drammatico e sconvolgente di Fabiano Antoniani. Oggi il Papa ha taciuto sul punto, mentre gli esponenti più in vista della CEI si sono esercitati in felpate dichiarazioni: nessuna aperta condanna, ma solo il richiamo al dono della vita (che vuol dire tutto e niente). Anche il cosiddetto giornale dei vescovi, Avvenire, sta tenendo un atteggiamento dialogante ed equilibrato.
Il teologo e giornalista Gianni Gennari, non certo un rivoluzionario in materia ecclesiale e religiosa, ha dichiarato: «Che ci sia un clima nuovo nella Chiesa mi pare evidente. Il clima è quello dell’integrare, del dare assistenza, dell’essere vicini anche a chi eventualmente avesse deciso di morire, come ha detto Papa Francesco pochi giorni fa riferendosi all’accoglienza che i sacerdoti devono riservare alle coppie che convivono. Non scordiamoci che Gesù si è fatto dare un bacio da Giuda. Per quale motivo? Perché non giudicava, ma amava. È un clima che Francesco ha portato nella Chiesa ereditandolo da Papa Giovanni, dal Concilio, in ultima analisi dallo stesso Vangelo. Risiede qui, anche, il motivo delle resistenze mossegli da coloro che pensano di avere il diritto di decidere chi deve stare dentro e chi fuori della Chiesa. Mentre il Signore è venuto per i peccatori e la salvezza è aperta a tutti».
Si tratta sicuramente di un bel passo avanti, che però non mi soddisfa pienamente. Per spiegarmi meglio riporterò un episodio accadutomi molti anni or sono. Ai tempi del referendum sul divorzio, come redattori del settimanale diocesano “Vita Nuova”, chiedemmo un incontro al Vescovo e ci fu concesso: fu chiarificatore ma in senso negativo. Il Vescovo ribadì che a suo giudizio noi (favorevoli all’istituzione del divorzio) eravamo totalmente fuori strada e, pur concedendoci la buona fede, ci considerava ai limiti della comunione ecclesiale: stavamo sbagliando, dovevamo riconoscerlo. A quel punto ricordo di essere intervenuto rincarando la dose ed affermando come ritenessi di avere diritto ad esprimere il mio parere anche su questioni di carattere ecclesiale, più che mai su questioni politiche anche se collegate a problemi etici e come non tutta la gerarchia fosse schierata sulle posizioni assunte così rigidamente dal Vescovo. Gli dissi precisamente: “Sappia monsignore che non tutti i suoi confratelli nell’episcopato la pensano esattamente come Lei!”. La riposta fu: “Non è vero!”. Si chiuse negativamente l’incontro anche e soprattutto perché non si era creato un vero clima di dialogo.
Dal 1974 ad oggi, dal vescovo di Parma mons. Amilcare Pasini all’ odierno mons. Enrico Solmi, da papa Montini a papa Bergoglio, in materia di sessualità e di etica con tutti gli annessi e connessi, è cambiato qualcosa? Nello stile di dialogo e nell’approccio pastorale sì, nel merito dei problemi siamo ancora purtroppo dentro al parametro di Martini (cento anni di ritardo).
D’altra parte, papa Bergoglio, pur essendo un convinto ed autorevole seguace di Martini al punto da esserne il candidato papa in pectore, non è il papa quale avrebbe potuto essere Martini.
In cauda venenum. Una cosa è certa. Al di là di tutti gli stucchevoli dibattiti in corso, la triste realtà rimane la seguente. L’unico suicidio assistito ammesso in Italia è quello dei carcerati, che si tolgono la vita nelle loro celle, nell’indifferenza burocratica, politica, istituzionale ed ecclesiale (con l’unica eccezione del partito radicale). Un modo, il peggiore possibile, per consentire la fine della vita tramite un drammatico gesto di autodeterminazione personale.