Intervista televisiva su Rai news 24. Si parla della triste morte di un tredicenne travolto, in provincia di Catanzaro, sui binari da un treno in corsa. L’ipotesi è che si sia trattato di un gioco o di una prova di coraggio a livello di gruppo: scattare un selfie con un treno che sta sopraggiungendo, per poi magari circolarizzarne l’immagine a livello internet. Uno ci lascia le penne, gli altri amici si salvano per un pelo oppure osservano inorriditi.
Un tempo si diceva: divertimento innocuo per bambini scemi. Oggi bisognerebbe correggere questo modo di dire: divertimento estremo per ragazzi alienati.
Prima però due parole a commento dell’intervista. La cronista di turno parla con l’avvocatessa di uno dei ragazzi sopravvissuti, la quale esclude categoricamente si sia trattato di un selfie estremo. Sembra più preoccupata della buona riuscita dell’inquadratura su di sé e della propria acconciatura che non del chiarimento sul drammatico caso. Da parte sua l’intervistatrice prende atto burocraticamente delle affermazioni, ma non le passa nemmeno per l’anticamera del cervello di chiedere all’avvocatessa: “Allora, se lei è così sicura su come sono andati i fatti al punto da poter con certezza escludere il tragico gioco, ci dica cosa è successo, ci aiuti a capire”. Nemmeno per sogno, tutto finisce lì. Mi sembra ci sia di che lavorare per Antonio Di Bella, il direttore di questo canale Rai. L’informazione è altra cosa, caro direttore. Lei personalmente la sa fare, gliene do atto con piacere e riconoscenza, ma i suoi collaboratori…
Mi auguro che la dinamica dell’incidente sia diversa rispetto alle prime ipotesi. Ho letto con angosciosa attenzione le ricostruzioni assai poco convincenti dei compagni sotto shock di questo ragazzo, che ridurrebbero l’episodio ad una bullistica escursione finita in tragedia: dal gioco estremo retrocederemmo alla bullata giocosa, ad una scorciatoia improvvisata con un dribbling ferroviario finito con un macabro e tragico autogol. Siamo comunque, credo, alla pura follia trasgressiva giovanile. Sarei ben contento di sbagliarmi, perché, almeno, la tragedia avrebbe motivazioni meno drammatiche e sconvolgenti.
Le cronache dicono tuttavia che non si tratti di episodi inediti: ancor peggio se sta diventando una corrente di “pensiero giovanile”. Il fatto non comporta, a mio avviso, alcun ulteriore commento, rappresenta infatti di per sé la (perfetta) sintesi etica, storica, sociologica, psicologica, politica dello sbando della nostra epoca.
Nello stesso giorno leggo alcuni stralci di un’intervista concessa dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, rilasciata a “La civiltà cattolica” in occasione della pubblicazione del numero 4mila di questa prestigiosa e interessante rivista.
Parlando di impegno sociale e politico il Presidente, con la connaturale profondità di pensiero e la credibile linearità di proposta, dice: «Non soltanto c’è la consapevolezza dell’esigenza di garantire ai giovani una certezza di prospettive, ma si avverte anche l’esigenza che si impegnino in maniera attiva nella vita istituzionale e politica. Tra le lettere dei condannati a morte della Resistenza c’è n’è una molto bella di un giovane di neanche vent’anni, il quale, la sera prima di essere fucilato dai nazifascisti, scrive ai genitori: “Tutto questo avviene perché voi un giorno non avete più voluto saperne di politica”». L’intervista prosegue, ma io mi fermo qui.
Facendo un ardito parallelismo, con grande commozione e forte inquietudine, provo ad immaginare cosa avrebbe potuto scrivere ai genitori quel giovane calabrese prima di mettere a repentaglio la vita per gioco. Ecco le parole della sua (im)probabile lettera: “Tutto questo avviene perché voi, e tutta la vostra generazione, non avete saputo testimoniarci cosa vuol dire vivere e allora noi, non capendo il senso della vita, rimasti bambini, abbiamo giocato a vivere e …a morire”.
Non ho fatto parte, per mia fortuna, ma soprattutto per merito dei miei educatori palesi ed occulti, dei giovani allo sbando esistenziale. Faccio parte però degli uomini che non hanno saputo testimoniare ai giovani un senso della vita o almeno il senso del cercare seriamente di vivere, ne sento tutta la responsabilità e la colpa, assieme a molti altri della mia generazione.