Il clima politico italiano è molto avvelenato: alle obiettive difficoltà, alle drammatiche contingenze, alle notevoli incertezze e alle discutibili e censurabili vicende si aggiunge una gratuita cattiveria dovuta all’assedio giuridico al limite della barbarie, all’accanimento dei media al limite della calunnia, alla macchina del fango che sta colpendo ad alzo zero con effetto boomerang sugli stessi promotori delle iniziative più spregiudicate. Tutto ciò ha poco a che fare con lo scontro politico: sulla mancanza di laurea di una ministra si imbastisce una assurda telenovela; dalla frase oltre le righe di un ministro si arriva alle minacce di morte per suo figlio; vengono sbattuti in prima pagina gli avvisi di garanzia notificati a mezzo stampa; le insinuazioni si sprecano; gli attacchi, in un crescendo rossiniano, spargono malignità un giorno sì e l’altro pure. Se questo, come sembra, è anche uno dei risultati del No al referendum (non del referendum in sé), sono sempre più contento di aver votato Sì.Questo marasma oltretutto rischia di fare il gioco dei veri colpevoli di gravi comportamenti, che alla fine riescono a nascondersi agevolmente in questa nebbiosa atmosfera da caccia alle streghe.A maggior ragione ho letto quindi con interesse un dossier giornalistico in materia politica, per la precisione in materia di “chi lavora nelle Camere”: pur con qualche inevitabile accentuazione polemica e provocatoria, viene riportato il clima al giudizio sui parlamentari nel loro effettivo modo di lavorare. Quasi una boccata d’ossigeno nel rovinoso dibattito: c’è chi ne esce bene e chi ne esce male o addirittura malissimo, ma il tutto almeno su dati obiettivi riguardanti il funzionamento delle nostre istituzioni.Quando mi capita di pensare al duro lavoro di Parlamentare (ho avuto l’opportunità di conoscere alcune persone che hanno svolto o svolgono questo ruolo), so di viaggiare in controtendenza, considerando con grande rispetto questo importante servizio che Paolo VI considerava la più alta forma di carità cristiana, mentre molti pensano (e non sempre purtroppo sbagliano…) ad un esercito di opportunisti, profittatori, sanguisughe, alla ricerca di benefici economici spropositati o almeno sproporzionati rispetto al lavoro svolto.L’ultimo affondo qualunquista arriva a prevedere che la durata della legislatura, messa in forse dal trambusto post-referendario, dalle smanie populiste di molti e dalla giustificata, comprensibile ma forse esagerata smania di rivincita di Matteo Renzi, arriverà almeno fino a settembre 2017, non tanto per la “cocciutaggine” istituzionale di Sergio Mattarella, né per la sovrapposizione di continue emergenze europee e mondiali, ma per l’ostruzionistica manovra dilatoria che mirerebbe a questo termine minimo per far scattare in capo ai parlamentari novelli il diritto al minimo della pensione. Non voglio credere a questi miseri calcoli di bottega, ho troppo rispetto per l’istituzione parlamentare e per chi in essa opera per lasciarmi coinvolgere in queste insinuazioni.Per quanto riguarda il numero dei parlamentari ho anch’io da tempo il forte dubbio che sia eccessivo: la dimensione quantitativa delle due Camere era stata concepita in un momento storico, diverso dall’attuale, in cui prevaleva il bisogno di ripristinare la democrazia e quindi di capillarizzare e rinsaldare i legami tra elettori ed eletti. Oggi la rappresentanza, la conoscenza e la comunicazione avvengono con altri criteri, gli schemi lavorativi sono cambiati, i rapporti, almeno in teoria, sono resi più facili e alla portata di tutti.Nella mia mentalità non ho mai dato troppa importanza al trattamento economico riservato a deputati e senatori, ritenendo che debba essere dignitosamente adeguato alle loro responsabilità ed al loro impegno. Per tutti coloro che rivestono cariche pubbliche deve valere il presupposto di poter contare su un corrispettivo che, senza scadere nel privilegio, li metta al riparo dalle inevitabili tentazioni a livello di concussione, di comportamenti clientelari, dell’affarismo in genere. Non credo che qualitativamente e quantitativamente la lotta agli sprechi trovi il suo punto decisivo nei costi della politica, anche se il buon esempio non guasta mai e la trasparenza e la correttezza dovrebbero mettere in grado i cittadini di effettuare un sano calcolo di costi/benefici anche per il funzionamento delle istituzioni democratiche senza indulgere a pericolose e fuorvianti generalizzazioni.Ecco perché, pur nella relativa attendibilità dei parametri utilizzabili, ma nella forte valenza delle elaborazioni peraltro abbastanza sofisticate e credibili (fare il deputato o il senatore non è come lavorare ad una catena di montaggio), è da considerare seriamente il dossier che il settimanale “L’ Espresso” ha pubblicato sulla produttività dei parlamentari.Al di là della scontata ma eloquente contrapposizione tra politici e politicanti, al di là dei numeri che in certi casi assumono un rilievo sconvolgente (si pensi all’assenteismo piuttosto pesante ed esteso che viaggia su percentuali vergognose per arrivare ad un caso limite dello 0,84 per cento di presenze), al di là del fatto che non basti la pura presenza in aula e/o in commissione e nemmeno l’intervento diretto nel dibattito, leggendo magari un asettico compitino, per misurare la produttività di un parlamentare (non è sufficiente quindi timbrare il cartellino), dall’inchiesta di cui sopra emergono dati interessanti ottenuti in base ad un mix di parametri che finalmente arriva a premiare chi svolge realmente la funzione legislativa (non si deve dimenticare infatti che il prodotto principale, ancorché non esclusivo, della “fabbrica parlamentare” sono le leggi) con riguardo soprattutto alla funzione di relatore dei provvedimenti di legge (in particolare quelli di emanazione governativa che rappresentano l’80 per cento dell’intera produzione legislativa).Mi sono sempre chiesto se forse i parlamentari non facciano di tutto meno che preoccuparsi di fare buone leggi (riunioni infinite di partito, viaggi, missioni, etc. etc.). Questa indagine riporta finalmente il lavoro parlamentare alla propria essenza istituzionale e lo misura sulla base dei risultati legislativi ottenuti.In queste articolate e diversificate classifiche emerge, oserei dire giganteggia, la figura di un senatore di prima nomina (un peone quindi), il quale, pur ricoprendo un solo incarico presidenziale a livello di commissioni (Commissione Contenziosa, un organo di garanzia che non offre le opportunità politiche delle commissioni di merito), sbaraglia tutto il campo, anche dei potenti (quelli che parlano a raffica nelle televisioni e si atteggiano a protagonisti della vita politica), potendo vantare di partecipare a ben sei commissioni, di essere stato relatore a ventidue provvedimenti, di essere stato firmatario di sedici proposte di legge e cofirmatario di altre duecento, senza peraltro dimenticare di essere un parmigiano verace e quindi riuscendo a far approvare da Palazzo Madama il disegno di legge che finanzia annualmente il Festival Verdi, di essere stato un punto di riferimento importante e concreto dell’attività di governo senza farne parte direttamente.Si tratta del senatore Giorgio Pagliari, docente di diritto amministrativo all’Università di Parma, avvocato, amministratore di importanti enti pubblici, ex consigliere comunale ed ex assessore provinciale in quel di Parma, dove solo la miopia e la burocrazia dei bersaniani di turno lo ha stoppato nella trionfale scalata come sindaco al comune di Parma compiendo il “capolavoro” di spianare, nell’ormai lontano 2012, la strada al grillismo regalando un insperato successo al tanto discusso Federico Pizzarotti.Non so fino a qual punto Pagliari sia catalogabile come catto-renziano della prima ora (così lo definisce, peraltro bonariamente, Susanna Turco su L’Espresso): questa definizione nasce probabilmente dal contributo dato sul tema delle unioni civili, in cui è stato l’ala “laica” dei cattolici; non è un renziano della prima ora, né come tale ha mai cercato di accreditarsi. Forse in Senato è considerato così perché, condividendo il merito, è stato chiamato più volte a difendere in aula la riforma costituzionale e la “buona scuola”, nonché a gestire la riforma della Pubblica Amministrazione. Una cosa è certa: che nelle commissioni importanti non è finito perché renziano, ma per le qualifiche professionali.Conosco e apprezzo la sua ispirazione cristiana temperata da un concetto laico della politica nel solco della tradizione dei migliori esponenti del cattolicesimo democratico; più volte ho ragionato con lui del significato culturale e della portata politica del cosiddetto renzismo di cui apprezza e condivide spinta innovatrice e concreta capacità di governo pur non sottovalutando limiti e difetti di questa nuova impostazione politica riscontrabili nella limitatezza quantitativa e qualitativa del gruppo dirigente ruotante attorno all’indiscutibile e carismatico leader e, quale causa/effetto di ciò, nell’insufficiente radicamento territoriale a livello di partito. Credo non sia possibile farlo rientrare nel cosiddetto “giglio magico”: non è nel suo stile aderire acriticamente ad un gruppo e quindi mi sembra che, pur alla luce delle precisazioni di cui sopra, la definizione di “renziano” gli possa stare un po’ stretta anche se affibbiata in contrapposizione a coloro che tardivamente sono saliti sul carro per avere benefici più che per portare contributi.Nel caso di Pagliari ciò che lo qualifica non è tanto l’appartenenza o meno ad un gruppo o ad una corrente di partito, ma il fatto che sia stato capace di tenere produttivi rapporti tra governo e parlamento in una benefica osmosi e in un periodo in cui sembra essere premiante la vuota e triviale polemica tra le stesse istituzioni.Giorgio Pagliari fa parte dei parlamentari che conosco e quindi non posso che testimoniare a suo favore a conferma degli eloquenti numeri della sua classifica. Una soddisfazione per lui, per il suo partito (Pd), per la sua città (Parma), per i suoi elettori ed estimatori (tanti), per chi crede nella politica alta (ha avuto maestri indimenticabili), per chi esige che in Parlamento trovino posto preparazione, professionalità, esperienza, sensibilità e forti legami col territorio.Va di moda parlar male dei politici, ci si diverte a trovarli in castagna, li si considera, nel migliore dei casi, un male necessario: non mi associo a questo rosario denigratorio, anche se non sono solito risparmiare critiche (a volte molto dure) a nessuno. Forse in buona parte dipende dall’esempio (a me ben noto prescindendo da “L’Espresso” talent scout) di questo senatore diesel, di questo secchione, di questo peone, che batte due a zero i potenti, i mestieranti, i capaci di tutto che finiscono per non essere buoni a nulla: mi consola e mi “costringe” alla fiducia verso la Politica (con la “p” maiuscola) .