L’Organizzazione dei Becchi di ferro Uniti

In Iran le manovre preparatorie seguono il filo della retorica, mentre i Pasdaran guadagnano giorni prima di decidere come intervenire. A Teheran assicurano che i piani sono chiari. In realtà c’è ancora tempo prima di combattere. La diplomazia internazionale non è mai stata così attiva come nelle ultime ore. Nel Paese che ha giurato di vendicare l’umiliazione subita con l’uccisione in casa del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, è stato segnalato (e non smentito) anche un volo segreto di emissari americani giunti a negoziare una rappresaglia misurata. Gli Usa non potranno abbandonare Israele alla minaccia degli ayatollah, sarebbe stato spiegato, lasciando aperta la porta di un rilancio nelle trattative interrotte per il nucleare “Made in Teheran”. Perfino il presidente russo Vladimir Putin ha chiesto all’ayatollah Ali Khamenei di tenere i civili fuori dal mirino. Il messaggio è stato consegnato lunedì da Sergei Shoigu, l’ex ministro della Difesa russo, accusato di crimini contro l’umanità per gli attacchi indiscriminati sui civili in Ucraina. Mentre la Repubblica islamica valuta la sua risposta all’assassinio di Ismail Haniyeh, la Russia che ha fatto incetta di droni iraniani scagliati sul fronte di Kiev avrebbe inviato missili Iskander a Teheran oltre a sistemi di contraerea S-300 che all’occorrenza possono essere usati come mezzi offensivi. Teheran ha anche fatto pressione su Mosca per la consegna di jet da combattimento “Su-35” di fabbricazione russa. (dal quotidiano “Avvenire” – Nello Scavo)

Strana e incredibile diplomazia in cui tutto è paradossalmente possibile. In dialetto parmigiano, quando una persona assume atteggiamenti sfrontatamente in contraddizione col suo normale comportamento,  viene immediatamente apostrofata con una espressione colorita: “avérgh un bècch äd fér”. Gilberto Govi, in dialetto genovese, li chiamava “marionéti”.

Se non ci fosse da piangere ci sarebbe da ridere di fronte a Putin che chiede agli iraniani di tenere i civili fuori dal mirino: proprio lui che di civili in Ucraina (e non solo) ha fatto stragi a più non posso. Iran e Russia si scambiano armi e vanno d’accordo: non era così in passato, ma si può cambiare posizione a fin di male.

Anche gli americani tengono aperto un canale diplomatico con l’Iran, consigliano una rappresaglia misurata contro Israele. Un po’ come in una simpatica barzelletta. Su un calesse trainato da un asino viaggia un gruppo di suore con tanto di madre superiora. Ad un certo punto l’asino si blocca e non vuol più saperne di proseguire. Il “cocchiere” le prova tutte, ma sconsolato si rivolge alla badessa: «In questi casi l’esperienza mi dice che l’unico modo per sbloccare la situazione, costringendo l’asino a proseguire, è la bestemmia. Mi spiace, ma non c’è altra soluzione…». La suora dopo qualche ovvio tentennamento pronuncia la sua sentenza: «Se è davvero così, non resta altro da fare, ma mi raccomando la bestemmia gliela dica piano in un orecchio…».

Ormai non c’è più alcuna parvenza di dignità nel fare la guerra, se mai fosse possibile almeno salvare la faccia…: uno spietato e delinquenziale gioco delle parti. Un macellaio, Putin, che detta ai suoi clienti una dieta vegana. I vendicatori delle “Torri gemelle” che modulano le vendette trattando con gli ayatollah iraniani. In mezzo ci siamo noi che ci affanniamo a parlare del diritto di Israele e dei palestinesi ad esistere, del diritto dell’Ucraina a resistere, etc. etc.

Davanti alla proditoria rassegna dei becchi di ferro resto a becco asciutto, mi sento becco e bastonato.

 

 

 

 

Tu non fà l’americano

Un “radicale di sinistra”: così fonti della campagna di Donald Trump, citate dalla Cnn, definiscono Tim Walz, scelto secondo i media Usa come vice di Kamala Harris. Secondo una fonte dell’entourage del tycoon, Harris “si è inginocchiata di fronte alla sinistra antisemita e anti-israeliana e ha scelto qualcuno di pericolosamente progressista come lei”. Il super Pac pro-Trump Make America Great Again Inc ha scritto sui social media che “Il governatore Tim Walz e Kamala Harris andranno molto d’accordo. Sono entrambi radicali di estrema sinistra che non sanno come governare”. (Ansa.it)

Benissimo! Ciò che non piace a Trump mi dà speranza.  Era ora che i democratici dicessero qualcosa di sinistra. Quanto alla radicalità, ciò che negli Usa è radicale, per me è più che moderato. La capacità di governare? Se governare vuol dire appiattirsi sullo status quo, ben venga chi non sa governare.

I timori però sono due. Il primo è che il progressismo democratico si esaurisca nell’individualismo libertario, trascurandone la dimensione sociale. Il secondo è che, in caso di vittoria, la riscossa valoriale si spenga strada facendo come è successo con Joe Biden.

È infatti difficile capire le dinamiche politiche americane condizionate dall’irrinunciabile smania imperialistica, guidate dalle lobby e subordinate all’immediato impatto mediatico delle scelte: tutto ciò che mi fa dubitare della democrazia americana, arrivando persino a teorizzare il “cretinismo” delle folle statunitensi.

Staremo a vedere. Mi lasciano sperare qualcosa di buono l’attivismo sotto traccia di Barak Obama e la ritrovata compattezza (almeno così sembra) dei democratici. Chissà che i problemi enormi a livello internazionale e nazionale non inducano gli americani a non fare gli americani.

 

La “referendumite” acuta

Tutti questi temi sono finiti o stanno per finire in una nuova stagione referendaria che si annuncia carica di significati politici e sociali, specie se a chiudere il cerchio sarà, come prevedibile, il referendum confermativo sul premierato. Ma se il quesito abrogativo dell’autonomia differenziata ha immediatamente goduto della grancassa mediatica, grazie all’appoggio massiccio di un vasto schieramento di forze politiche, sindacali, sociali e associative, i quesiti referendari per superare la legge elettorale e introdurre elementi di democrazia interna ai partiti – questioni sulle quali la politica stessa a parole si straccia le vesti un giorno sì e l’altro pure – veleggiano in solitaria e controvento. Tutta la politica dice che il tema è vero e urgente, eppure i quesiti ora in campo sono abbandonati nei fatti da un sistema dei partiti che evidentemente non vuole abbandonare i benefici dell’attuale assetto. È comprensibile: a chi non farebbe gola nominare i parlamentari a tavolino e gestire una forza politica senza dover dare conto più di tanto a istanze pluralistiche? (dal quotidiano “Avvenire” – Marco Iasevoli)

Il quadro politico-istituzionale evidenzia tali e tanti punti di criticità da rendere difficile, ai limiti dell’impossibile, trovare un percorso risanatore, che possa quanto meno avviare un dialogo (ri)costituente.

Non sono mai stato convinto che la partecipazione diretta dei cittadini (referendum abrogativi, leggi di iniziativa popolare, raccolte di firme) possa sanare in modo decisivo la frattura fra cittadini ed istituzioni: può certamente servire il fatto che il popolo batta uno o più colpi, ma non illudiamoci che la democrazia possa consistere in queste straordinarie iniziative.

Credo, tutto sommato, che alla gente interessi molto di più avere una classe politica che li rappresenti e operi di conseguenza piuttosto che intromettersi nel circuito. Il referendum abrogativo dell’autonomia differenziata potrà servire solo ad evitare un pasticcio istituzionale cucinato dalle forze governative, almeno si spera, ma di pasticci ce ne sono troppi e, finito uno, ecco che ne spunta un altro.

I partiti non si devono rinnovare cambiando a colpi di referendum la legge elettorale o i meccanismi di democrazia interna. I partiti sono strumenti imprescindibili di aggregazione e partecipazione. A cosa è servito eliminare il finanziamento pubblico ad essi se non quello di darli in pasto al mercato delle tangenti? A cosa servì eleminare il meccanismo delle preferenze se non a centralizzare e burocratizzare i meccanismi di selezione della classe dirigente partitica? A cosa servono i limiti alle ricandidature se non a penalizzare i buoni e a dare contentini ai balordi? A cosa serve un sistema elettorale maggioritario se non a favorire finte ed equivoche aggregazioni politiche? A cosa serve un sistema elettorale proporzionale (magari con certi correttivi) se non a sciogliere la politica disperdendola in mille inconcludenti rivoli?

Non illudiamoci di risolvere i problemi imboccando scorciatoie referendarie, la politica è molto più complessa: se non si parte dai valori non si combina niente! Sono finite le ideologie? Purtroppo sono finite le idee! Di cosa si sta discutendo in questo periodo? Se Giorgia Meloni sia brava, furba, furbastra? Ma fatemi il piacere… Quella vuole il premierato per mettere le radici a Palazzo Chigi. Non mi preoccuperei più di tanto, le radici attecchiranno non per legge ma per ignoranza di chi vota col… (mi fermo perché il concetto è chiaro!).

Il ripristino della “legalità politica” non avviene per legge, a colpi di referendum, ma per paziente rilettura storica, culturale e sociale del mondo in cui viviamo. Poi forse qualcosa potrà anche cambiare. Le regole fondamentali del gioco sono scritte nella Costituzione: bisogna imparare a giocare e non pensare di cambiare le regole del gioco. E se qualcuno le vuole cambiare a colpi di maggioranza, continuiamo a giocare al meglio con le vecchie regole dimostrando di esserne capaci senza necessità di far saltare il tavolo perché potrebbe essere molto pericoloso.

Un tempo si teorizzava ironicamente che per (non) risolvere un problema bastasse costituire una commissione parlamentare, non vorrei che oggi pensassimo che per (non) risolvere un problema basti indire un referendum. Un referendum al giorno toglie l’astensionismo di torno?

Quando entrò in vigore l’iva fece un certo scalpore l’introduzione di un documento strano, la cosiddetta autofattura, che in certi casi il compratore si vedeva costretto ad emettere al posto del venditore. Un mio simpatico interlocutore, impressionato da questa novità legislativa, quando mi poneva un problema in materia di imposta sul valore aggiunto, finiva col chiedermi in ogni caso: «Co’ disol dotôr, ag fämmiä n’autofatura?». Oggi, politicamente parlando, di fronte a qualsiasi problema potremmo chiederci: «Fämma un referendum?».

Hanno ragione e hanno torto…toti

“Giovanni Toti ricattato dalla magistratura per avere la libertà in cambio delle dimissioni? Questa è un’accusa gravissima, ormai in questo Paese abbiamo perso il senso del peso delle parole. Chi evoca questi scenari con un tweet e poi se ne va a dormire, una qualche risposta la dovrebbe dare”. Così a In Onda (La7) Andrea Orlando, deputato del Pd ed ex ministro della Giustizia, commenta la vulgata diffusa da diversi quotidiani, da Libero al Giornale fino al Foglio, circa la revoca degli arresti domiciliari concessa all’ex presidente della Regione Liguria Giovanni Toti.

Orlando smonta la tesi delle suddette testate: “Se stanno così le cose, non si capisce perché il ministro della Giustizia non mandi gli ispettori. E se si pensa che la legge abbia questo elemento di distorsione, non si capisce neanche il motivo per cui la maggioranza parlamentare non intervenga sulla legge stessa. Lo stesso Toti non fa ricorso in Cassazione. Allora – continua – se ci fosse davvero un abnorme utilizzo della custodia cautelare, perché non si usano i rimedi costituzionali per poter incidere su questa vicenda? Se fossimo in un paese in cui la magistratura fa i golpe, allora dovremmo reagire. Chi ha in mano i rapporti di forza per poterlo fare, perché non lo fa? Gli strumenti ci sono”.

E rifila una finale bordata al Guardasigilli: “Nordio è venuto a rispondere in Parlamento che lui capisce Hegel ma non l’ordinanza di custodia cautelare per Toti.  Se l’è cavata con una barzelletta. Tu invece dovevi dire se quell’ordinanza è secondo te abnorme o meno o se effettivamente viola i diritti di una persona che è stata eletta dai cittadini e che è stata costretta alle dimissioni. Io credo invece che la verità sia un’altra e un po’ meno complottista di questa: Toti è stato scaricato dalla sua maggioranza”.

Premetto che, umanamente parlando mi fa piacere che Giovanni Toti abbia riconquistato la libertà e gli auguro di riuscire a dimostrare la sua innocenza. Non ho mai provato né provo tuttora alcuna soddisfazione nel vedere i politici in manette o comunque in situazioni analoghe: capisco le tentazioni in cui possono cadere e quindi, pur considerando grave il loro comportamento a livello istituzionale, sono molto cauto nel buttare loro la croce addosso prima, durante e dopo i procedimenti giudiziari che li riguardano.

L’errore fondamentale commesso da Toti è stato quello di non rassegnare immediatamente le dimissioni da presidente della Liguria: non si trattava di ammissione di colpa, ma di correttezza istituzionale e di opportunità politica, nonché di migliore possibilità di difendersi durante le indagini.

Come ho già avuto modo di scrivere, l’insistenza della Magistratura nel negare la revoca della custodia cautelare faceva sorgere qualche dubbio a livello di accanimento giudiziario: un’impressione non suffragata da precise motivazioni di carattere legale, ma soltanto l’impressione che si stesse esagerando nel considerare possibile l’inquinamento delle prove e la reiterazione dei reati.

Il fatto che alle tardive dimissioni sia seguita la revoca della custodia cautelare insospettisce alquanto. Certamente Toti non potrà più commettere reati come presidente della Regione, ma la scansione temporale dei fatti alimenta il dubbio che l’insistenza della Magistratura abbia comportato il cedimento dell’interessato.

Lungi da me pensare che i Magistrati vogliano condizionare la politica nel suo corso, ma potrebbero essere un tantino più prudenti: non confondiamo infatti l’essere autonomi con l’essere prevenuti. Molti non aspettavano altro per lanciare strali maliziosi contro i giudici per squalificarne l’operato. Ho grande rispetto e non mi permetterei mai di lanciare accuse gravissime o insinuare dubbi distruttivi contro la Magistratura. Se tutti (compresa la stampa) fossero rigorosamente rispettosi dei propri limiti e onestamente riconoscessero i propri difetti, le cose andrebbero molto meglio.

Anche l’opposizione politico-parlamentare non è esente da colpe: non mi piace la strumentalizzazione delle difficoltà giudiziarie di chi detiene il potere, non posso soffrire chi vuole dare una spallata a chi è sul punto di cadere, infierire sulle pecche dell’avversario non è cosa seria.

Il governo non sta più nella pelle per assestare un colpo all’autonomia della Magistratura: il ministro della giustizia, pur tecnicamente competente (non è poco…) non riesce a fare sintesi ed è prigioniero della sua stessa mission politica fatta più di rivincita che di riforma.

Forse anche la maggioranza si è intestardita in una difesa aprioristica salvo poi magari scaricare il cadavere del sempre più indifendibile e ingombrante suo esponente di spicco. Toti lo poteva immaginare e non avrebbe dovuto contare su questo appoggio oltre modo ballerino.

La mia conclusione è che in questa vicenda fino ad oggi tutti abbiano le loro ragioni e i loro torti. Non so se le sentenze potranno riportare ordine nella situazione venutasi a creare. Temo che la prossima obbligatoria e ravvicinata consultazione elettorale finisca col celebrare un processo parallelo, con il centro-sinistra nei panni dell’accusa e il centro-destra in quelli della difesa: il tutto in un velenoso scambio di responsabilità penali più che politiche. Si cercherà disperatamente da una parte di dimostrare che non c’è nessuno senza peccato che possa scagliare la prima pietra, dall’altra parte si vorrà buttare via l’acqua sporca anche a costo di sacrificare qualche bambino.

Ne uscirà malissimo il rapporto fra cittadino e istituzioni. Non bastò tangentopoli a ripulire la politica, non basterà la telenovela politico-giudiziaria ligure a rimetterla nella giusta direzione. Resto fermo alla Costituzione laddove recita: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”. Se non ripartiamo di lì…

 

Il sesso relegato nelle cantine ecclesiastiche

Un’ombra pesante, un’ombra criminale va ad offuscare la memoria dell’Abbé Pierre, il sacerdote francese, apostolo dei poveri soprattutto attraverso la fondazione del Movimento Emmaus, morto il 22 gennaio 2007 all’età di 94 anni. Il religioso, infatti, sarebbe stato responsabile di numerosi episodi di violenza e molestia sessuale. A testimoniarlo sono gli stessi organismi che fanno riferimento a quello che in vita è stato riconosciuto come figura di riferimento, anche attraverso gesti spettacolari, nella lotta alla miseria. Emmaus international, Emmaus France e la Fondazione Abbé Pierre hanno deciso di rendere pubblici fatti «legati alla violenza o alle molestie sessuali» da lui commesse tra la fine degli anni ’70 del secolo scorso e il 2005. L’indagine è partita un anno fa dalla denuncia di una donna ma da subito è stato chiaro che non si trattava di un episodio isolato. Per questo Emmaus international, Emmaus France e la Fondazione Abbé Pierre hanno incaricato una società esperta nella prevenzione della violenza, il gruppo Egaé, di raccogliere le altre denunce. In particolare, sono state ascoltate le testimonianze di sette donne. Una di loro, informa la nota che rende pubblici gli esiti dell’inchiesta, «era minorenne all’epoca dei primi fatti. Secondo le informazioni raccolte, diverse altre donne hanno subito episodi simili, ma non sono state ascoltate». Di lì in poi, prosegue il comunicato, «è stato messo a punto un sistema di raccolta di testimonianze e di sostegno, strettamente confidenziale, rivolto alle persone che sono state vittime o testimoni di comportamenti inaccettabili da parte dell’Abbé Pierre».

Non c’è infatti nessuna volontà di sminuire l’accaduto nel comunicato che rende noti gli abusi. Anzi, le organizzazioni che hanno pubblicato l’esposto «rendono omaggio al coraggio delle persone che hanno testimoniato e reso possibile, attraverso le loro parole, portare alla luce queste realtà. Noi gli crediamo, sappiamo che questi atti intollerabili hanno lasciato il segno e siamo dalla loro parte». Ciò non toglie, naturalmente, che «queste rivelazioni scuotono le nostre strutture, all’interno delle quali la figura dell’Abbé Pierre occupa un posto di rilievo. Ognuno di noi conosce la sua storia e il suo messaggio. Queste azioni cambiano profondamente il modo in cui guardiamo a un uomo noto soprattutto per la sua lotta contro la povertà, la miseria e l’esclusione». Lo stesso Abbé Pierre, peraltro in una celebre intervista pubblicata nel 2005 aveva ammesso di aver violato il voto di castità. «Mi è capitato di cedere al desiderio sessuale in modo passeggero – disse -. Ma non ho avuto mai un legame regolare, perché non ho lasciato che il desiderio sessuale prendesse radici. Questo mi avrebbe portato a vivere una relazione duratura con una donna: ciò era contrario alla mia scelta di vita. Ho conosciuto l’esperienza del desiderio sessuale e del suo rarissimo soddisfacimento che è stato sorgente di insoddisfazione. Per essere pienamente soddisfatto, il desiderio sessuale ha bisogno di esprimersi in una relazione amorosa, tenera, fiduciosa». (dal quotidiano “Avvenire” – Riccardo Maccioni)

Parto da una considerazione del sacerdote, teologo e biblista Padre Maggi: «Il fatto è che siamo abituati a un Vangelo all’acqua di rose. Nella Chiesa si sono accentuati certi aspetti su cui Gesù non ha mai aperto bocca. Pensiamo alla sessualità. Sulla ricchezza, il potere, l’ambizione Gesù era severo. Ho proposto da sempre la radicalità del Vangelo: prima viverlo».

Non vorrei che alcuni pur gravissimi peccati sessuali commessi dall’Abbé Pierre ne squalificassero tutta la testimonianza a favore dei poveri. Il sesso per i cristiani è una sorta di “maledizione”, mentre invece dovrebbe essere vissuto come un dono meraviglioso, un’autentica benedizione. Probabilmente l’Abbé Pierre è rimasto vittima del considerare la scelta di vita sacerdotale incompatibile con una relazione amorosa, ragion per cui, dal momento che il desiderio sessuale non si può reprimere più di tanto e forse non si dovrebbe nemmeno tentare di reprimerlo, il compromesso deteriore diventa lo sfogo brutale, l’avventura passeggera e magari persino abusiva e violenta.

È ora di lasciare che coloro i quali all’interno della Chiesa operano scelte di vita di servizio, evangelicamente importanti e fortemente qualificanti, possano avere a loro discrezione una vita sessuale normale e costruttiva senza assurde inibizioni e proibizioni e senza soffrire veri e propri complessi di natura sessuale, che possono essere l’anticamera di devianze e violenze.

Perché con le proibizioni di carattere sessuale vogliamo condizionare la vita dei sacerdoti, arrivando a “costringerli” a rifugiarsi nell’avventurismo eterosessuale, nel surrogato omosessuale, nello squallido mercimonio, nello sfogo violento, addirittura nella pedofilia e nei reati di violenza e molestia sessuale?

Perché, con la cosa più bella del mondo ridotta a distrazione peccaminosa, vogliamo rovinare tutto e, dopo aver sporcato l’acqua sessuale, la buttiamo assieme al bambino delle buone opere a favore del prossimo?

La Chiesa in passato ha coperto a babbo morto le malefatte dei suoi seguaci, nascondendo le vittime in parte da essa stessa create, ed oggi insiste nell’imporre uno schema che difficilmente può reggere in quanto contro natura anche se finalizzato alla migliore delle intenzioni.

Non tutti purtroppo possono avere il coraggio e l’equilibrio di don Andrea Gallo, che diceva: «Il sesso è anche un piacere. Fisico, intendo. E non me ne vergogno. Come prete non posso praticare la scelta del sesso, ma immaginarlo almeno un po’ praticato da altri, mi rende l’animo più gaudente e allegro».

 

 

 

 

La lingua democratica batte dove il postfascismo duole

Clima rovente alla commemorazione della strage di Bologna. Non tanto per le temperature agostane, ma soprattutto per la polemica scatenata dalle parole del presidente dell’Associazione vittime del 2 agosto, Paolo Bolognesi, secondo il quale «le radici di quell’attentato – ha detto – affondano nella storia del postfascismo italiano» e oggi «figurano a pieno titolo nella destra italiana di Governo».

A scatenare le polemiche dunque è stato l’intervento del presidente dell’Associazione vittime del 2 agosto: «Le radici di quell’attentato, come stanno confermando anche le ultime due sentenze d’appello nei processi verso Gilberto Cavallini e Paolo Bellini – ha detto Paolo Bolognesi parlando dal palco – affondano nella storia del postfascismo italiano, in quelle organizzazioni nate dal Msi negli anni ’50: Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale oggi figurano a pieno titolo nella destra italiana di Governo. Per questa parte politica, lo stragismo e in particolare la strage di Bologna, rappresentano una macchia da togliere a tutti i costi dalla loro storia, da negare oltre ogni evidenza», ha aggiunto tra gli applausi.

«Questa verità fa ancora paura ai nostri attuali governanti, e allora si mette in campo la strategia più disperata, ma anche la più subdola e viscida: quella del silenzio», ha aggiunto Bolognesi: «Giorgia Meloni, in occasione del 43° anniversario parlò di terrorismo, di vigliaccheria e di ferocia, ma si guardò bene dal nominare la matrice fascista». Allo stesso modo, ha aggiunto, «nel nostro Paese non si deve parlare della Resistenza, dell’antifascismo, dello stragismo fascista, di quello che è accaduto in questa piazza, in questa stazione, in questa città, 44 anni fa. Questa si chiama censura». (dal quotidiano “Avvenire”)

Col mio commento me la sbrigo molto in fretta: sono totalmente e perfettamente d’accordo con le parole pronunciate dal presidente dell’Associazione vittime del 2 agosto, Paolo Bolognesi, che ringrazio per la chiarezza di analisi e la nettezza di giudizio.

La finta uguaglianza disturba le diversità

L’incontro di pugilato tra l’italiana Angela Carini e l’algerina Imane Khelif è terminato mantenendo le promesse di clamore che le polemiche della vigilia avevano alimentato: dopo soli 46 secondi, a causa di due colpi devastanti al volto che l’hanno portata anche a fermarsi per un problema al caschetto, l’atleta napoletana ha deciso di ritirarsi.

L’esito del match ha scatenato reazioni da più parti, polarizzando il mondo politico e non solo. La pugile algerina, infatti, nata donna ma dotata di un corpo con tratti marcatamente maschili a causa della sua iperandrogenia, era stata squalificata dalla federazione Iba (sospesa dal Comitato Olimpico Internazionale, il Cio) ai mondiali di New Delhi per valori di testosterone elevati, e a quanto è emerso anche per la presenza di cromosomi XY maschili. È però stata ammessa dal Cio alle competizioni di Parigi 2024, perché dichiarata di sesso femminile sul passaporto. In molti, alla vigilia dell’incontro, avevano contestato questa decisione parlando di una lotta impari e non equa. (dal quotidiano “Avvenire”)

Non mi interessano le reazioni politiche all’accaduto, peraltro piuttosto stucchevoli, prevedibili, oserei dire scontate: capirete se Giorgia Meloni poteva lasciarsi scappare una simile occasione per entrare a gamba tesa nell’evento olimpionico, che finora l’aveva vista defilata e spiazzata dall’intervento istituzionalmente ineccepibile ed equilibratamente popolare del presidente Mattarella; il discorso vale anche per le reazioni dei difensori d’ufficio dei diritti civili (che sono un’altra cosa).

Premesso che il pugilato è uno sport difficile da ammettere come tale al maschile, figuriamoci al femminile…La parità uomo-donna, come ho sempre sostenuto non consiste nella parità di difetti, ma in quella dei diritti e non mi pare che fra questi ultimi ci sia quello di salire su un ring e darsele di santa ragione facendo credere che sia un’arte nobile…

Ma facciamo comunque un passo avanti. Il problema della sessualità per le donne che si impegnano negli sport più pesanti è sempre esistito: ricordiamoci le atlete dell’Est europeo impegnate nel lancio del peso, del disco e roba del genere. È una valorizzazione della femminilità copiare gli uomini al limite della propria spersonalizzazione? Permettetemi di avere qualche dubbio.

Se questi equivoci mettono a repentaglio l’incolumità delle persone che praticano lo sport, non ci siamo proprio. Ammettiamo per un attimo che Angela Carini avesse proseguito il match e avesse riportato qualche grave conseguenza a livello della sua integrità fisica, cosa si sarebbe detto?

Ho il massimo rispetto per le persone che portano in sé caratteristiche sessuali fuori dagli schemi tradizionali. Ma cosa c’entra il rispetto per le differenze col pretendere di azzerarle a tutti i costi? Come diceva Luca Goldoni, di questo passo i diversi saranno coloro che rientrano nei normali canoni delle diseguaglianze sessuali. Paradossale, sciocco e ipocritamente progressista.

Mi è capitato recentemente di parlare con una persona che ha vissuto sulla propria pelle il dramma della transessualità con tutte le sofferenze fisiche, psicologiche e sociali conseguenti: mi ha confessato di non condividere lo sbandieramento piazzaiolo e strumentale di questa delicatissima problematica. Non ho potuto che concederle mille ragioni.

Non forziamo quindi le diversità riconducendole alla finta uguaglianza: vale per tutti coloro che affrontano questi problemi, anche per il Comitato Olimpico internazionale. Rispetto non vuol dire fingere che le diversità non esistano, ma ammetterle, difenderle e valorizzarle correttamente.

Il silenzio è d’oro, la preghiera è di platino

Quando si è ricordato di aver lasciato la sua bambina di un anno in auto era ormai troppo tardi. Solo tornando nel posto dove aveva parcheggiato, dopo circa sei ore, un papà si è accorto del tragico errore. É accaduto a Marcon, a pochi km da Venezia. L’uomo ha chiamato i soccorsi ma la temperatura dentro l’abitacolo, dopo tutto quel tempo sotto il sole, era troppo elevata: per la piccola non c’è stato niente da fare, inutile l’intervento dell’ambulanza del 118. Il padre avrebbe dovuto portare la neonata all’asilo nido, ma per ragioni ancora da chiarire (e da capire) l’ha dimenticata sul seggiolino e poi si è allontanato. Una distrazione fatale. L’uomo e la moglie, che abitano nella vicina Mogliano, sono stati subito assistiti dagli psicologi dell’Usl 3 veneziana. Sul posto sono intervenuti anche i carabinieri, per effettuare i rilievi di rito e tentare di ricostruire la dinamica della vicenda. (dal quotidiano “Avvenire”)

Il fatto è di alcuni giorni fa, ma conserva tutta la sua impressionante disumana carica.  La prima istintiva reazione è quella di incredula rabbia, ma immediatamente giunge una sconvolgente pietà verso i protagonisti di questa paradossale vicenda, che purtroppo ha numerosi precedenti.

È giusto innanzitutto immaginare la sofferenza di questa piccola creatura che muore. «La risposta di Dio al dolore innocente è Dio stesso, è Gesù vero Dio e vero uomo, che ha caricato su di sé, per sempre, tutto questo male, tutta questa sofferenza. Eppure non dobbiamo stancarci di chiedere ‘perché’, tutti i ‘perché’ generati dal dolore, che ci assediano e che sono già preghiera» (papa Francesco).

Poi è sacrosanto provare infinita compassione per questo padre. Come farà a vivere con questo peso sulla coscienza? «Se hai un peso sulla coscienza, se hai vergogna di tante cose che hai commesso, fermati un po’, non spaventarti. Pensa che qualcuno ti aspetta perché mai ha smesso di ricordarti» (papa Francesco).

E la madre? Al senso di colpa suo aggiungerà quello del marito. Sarà spontaneo scaricare le colpe e si potranno scatenare persino conflitti che potranno mettere a dura prova la loro convivenza.  «Quando in una famiglia non si è invadenti e si chiede “permesso”, quando in una famiglia non si è egoisti e si impara a dire “grazie” e quando in una famiglia uno si accorge che ha fatto una cosa brutta e sa chiedere “scusa”, in questa famiglia c’è pace e c’è gioia» (papa Francesco).

Stanno intervenendo gli psicologi: giusto ed opportuno.  Sapranno dare assistenza e trovare anche qualche profonda spiegazione a quanto accaduto.

Sono intervenuti i carabinieri per dare una spiegazione oggettiva alla vicenda. La fredda ricostruzione dei fatti, l’individuazione di eventuali reati, potrebbero diventare le lacrime di coccodrillo di una società che non lascia spazio, prima alla dolcezza dei sentimenti e poi alla tristezza per averli trascurati.

I media faranno il loro mestiere alla ricerca degli stucchevoli risvolti umani, psicologici e sociali. Il silenzio sarebbe l’unica cosa giusta, ma ci disturba, perché, poco o tanto, la coscienza ci rimorde e allora dobbiamo spiegare, scandalizzarci, colpevolizzare, chiacchierare, giudicare, teorizzare.

Forse sarebbe il caso di tacere e di pregare. Quanto al tacere mi scuso per non averlo fatto. Quanto al pregare sono ancora in tempo per farlo.                      

 

 

 

 

 

Le ritorsioni parallele

Dahiyeh è “la roccaforte” di Hezbollah, ed è qui che alle 19.45 di Beirut un intero edificio residenziale di otto piani è stato trapassato e abbattuto da un missile israeliano. Nel mirino c’era Fuad Shukr, consigliere militare del leader del movimento sciita filo-iraniano, Hassan Nasrallah. Fonti da Beirut affermano che Shukr non sarebbe sopravvissuto, contrariamente a quanto era emerso dopo l’operazione. Conosciuto anche come Hajj Mohsin, era ritenuto dall’intelligence israeliana a capo del progetto missilistico di precisione di Hezbollah. È anche ricercato dagli Usa per il suo ruolo nel bombardamento del 1983 contro la caserma dei marines americani a Beirut, quando si contarono 241 morti tra gli americani e 56 paracadutisti francesi.

La ritorsione israeliana promessa dopo la strage dei bambini drusi nel Golan è piombata dove la diplomazia sperava non accadesse. Le forze armate di Tel Aviv poco dopo hanno confermato di aver effettuato un raid aereo sulla capitale libanese per uccidere il comandante di Hezbollah che sarebbe dietro l’eccidio di Majdal Shams. «Hezbollah ha oltrepassato la linea rossa», ha dichiarato il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant pochi minuti dopo l’attacco. Il governo libanese ha reagito denunciando l’operazione israeliana come un «atto criminale» e ha detto che si riserva il “diritto di prendere misure” per scoraggiare “l’ostilità israeliana”. L’Iran lo ha definito «attacco vile». Di «flagrante violazione del diritto internazionale», ha parlato il ministero degli Esteri russo alla Tass. Dallo Yemen gli Houthi hanno condannato il raid e minacciato nuovi attacchi. (dal quotidiano “Avvenire” – Nello Scavo)

Per ritorsione si intende l’opposizione di atteggiamenti ostili a iniziative ostili altrui, spesso con l’idea di una reazione sproporzionata al torto ricevuto. Volgarmente parlando la si può chiamare vendetta, che può dare l’illusione di rimettere in pari le questioni. In realtà, anche prescindendo da principi etici e religiosi, si tratta proprio di un’illusione, perché vendetta chiama vendetta in un’inarrestabile catena di reciproci misfatti.

Hamas ha comunicato la morte del suo leader Ismail Haniyeh in seguito a un attacco israeliano contro la sua residenza a Teheran. Attacco che è avvenuto alle 2 di notte ora locale. Secondo l’agenzia di stampa saudita Al-Hadath, la residenza è stata colpita da un missile guidato. Haniyeh era capo dell’ufficio politico di Hamas dal 2017. Inoltre è stato primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese dal 2006 al 2007 e capo dell’amministrazione della Striscia di Gaza dal 2014 al 2017.

 Un funzionario iraniano ha dichiarato che “agenzie di sicurezza” della Repubblica islamica decideranno “la nostra strategia di risposta” all’assassinio di Haniyeh.  “Un atto codardo e uno sviluppo pericoloso”. Così il presidente palestinese Abu Mazen ha condannato l’uccisione del capo politico di Hamas, invitando “il popolo palestinese e le forze popolari all’unità, alla pazienza e alla fermezza di fronte all’occupazione israeliana”. (Ansa.it)

Gli israeliani avranno tirato un sospirone di sollievo, si saranno sentiti ripagati del tremendo eccidio subito alcuni mesi fa ad opera di Hamas? Potrei capirli se non considerassi l’inestimabile prezzo fatto pagare alla popolazione civile palestinese, se non vedessi le catastrofiche conseguenze di una escalation bellica la cui portata è semplicemente devastante per tutto il mondo.

O usciamo da questo clima di odio e vendetta o rimaniamo invischiati in una orribile catena bellica di cui non si vede la fine. I governanti di Israele vanno avanti imperterriti, le formazioni più o meno terroristiche, mi riferisco ad Hamas e Hezbollah, non aspettano altro che lucrare consenso da un simile clima di contrapposizione, i palestinesi non riescono a trovare il filo della matassa tanto è ingarbugliata e non scelgono ma subiscono la loro classe dirigente che li porta alla distruzione.

Il resto del mondo sta a guardare palleggiandosi tra l’alleanza di principio con Israele e la discussione sulla Palestina, lunga cento anni, dei due popoli-due Stati. Gli Usa non giocano un ruolo costruttivo condizionati come sono da imprescindibili e lobbistici legami d’affari con il mondo israeliano, l’Ue non ha voce e peso politico sufficienti per intervenire in modo fattivo, l’Onu è attestato da tempo immemorabile sull’invito ad Israele a ritirarsi dai territori occupati, i Paesi arabi fanno il loro gioco sporco così come la Russia e la Cina.

Le opinioni pubbliche sono tentate da rigurgiti di antisemitismo, dal tifo filo-israeliano, da simpatie viscerali filo-palestinesi, da spietata rassegnazione alla guerra fra popoli incapaci di convivere pacificamente, dal fascino esercitato dalla potenza militare vendicatrice di Israele, dallo sbrigativo manicheismo della insensata debolezza palestinese contrapposta alla brutale forza israeliana.

Non so sinceramente se sul piano politico-diplomatico la soluzione da perseguire testardamente sia quella del “due popoli due Stati”; di alcune cose sono certo: che con le ritorsioni e le vendette non si va da nessuna parte, che è perfettamente inutile cercare nel pagliaio l’ago del “torto e della ragione”, che l’unica opzione rimane quella della, pur faticosa al limite dell’impossibile, ricerca della pace ad ogni costo.

 

 

 

L’elemosina dei ventilatori e gli obblighi di giustizia

Nell’estate rovente che si sta attraversando, un gesto di solidarietà verso i detenuti delle carceri italiane. La Chiesa infatti, come annunciato a metà giugno dal cardinale Matteo Zuppi con la visita a Rebibbia a cui furono destinati 80 apparecchi, ha disposto la donazione di 2.200 ventilatori per gli Istituti penitenziari sparsi nel Paese.

«Talvolta, anche un semplice e lieve soffio d’aria può aiutare a vivere meglio il periodo di detenzione – si legge nella lettera inviata dal segretario generale della Cei, monsignor Giuseppe Baturi, al capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Giovanni Russo -. La Chiesa desidera ricordare la propria vicinanza ai detenuti, ribadire che c’è vita oltre quelle sbarre e che loro sono nella condizione di poter sperare che un giorno, dopo il percorso riabilitativo, quelle porte possano riaprirsi».

Da qui l’iniziativa “Semi di tarassaco volano nell’aria”. «La Chiesa, come il tarassaco, fiorisce, si apre e – grazie al soffio dello Spirito – si scoprire presente oltre le sue stesse mura, anche tra i detenuti», sottolinea ancora Baturi.

La donazione di 2.200 ventilatori a 31 carceri da un capo all’altro della Penisola, «per aiutare i reclusi, soprattutto i più fragili della sezione ‘Infermeria’, ad affrontare il caldo estivo con un minor disagio», viene realizzata dalla Cei in collaborazione con il Servizio per la promozione del sostegno economico alla Chiesa cattolica e l’Ispettorato generale dei cappellani delle carceri.

Le consegne sono state effettuate già da giugno.

È stato il cardinale Matteo Zuppi a dare il via all’iniziativa il 12 giugno, consegnando 80 ventilatori alla Direzione della Casa Circondariale femminile di Rebibbia a Roma. «È la carezza di una madre che vi sta vicino», ha affermato rivolgendosi alle detenute. Si tratta, ha aggiunto, di «un piccolo gesto, ma l’amore è nelle cose semplici. Le attenzioni le ritroviamo nelle buone parole, nell’ascolto paziente; altre volte in gesti grandi o piccoli, come questo».

Facendo riferimento al titolo del progetto, Zuppi ha sottolineato che «come i fiori del tarassaco, i soffioni, volano dappertutto, così l’affetto della Chiesa arriva in carcere, portando un po’ di sollievo».

«Un dono simbolico che dice l’attenzione per questa nostra comunità, dove si tocca con mano la povertà», ha detto Nadia Fontana, direttrice della Casa circondariale, che ha espresso «gratitudine alla Conferenza Episcopale Italiana, ai cappellani, ai volontari che sempre, con spirito di carità, ci sostengono, senza pretendere nulla in cambio, facendoci sperimentare un conforto materiale e spirituale costanti». (dal quotidiano “Avvenire”)

Ben vengano queste altolocate elemosine cariche di significato emblematico più che di effettivo soccorso alle pene delle persone, saluto con piacere e commozione le esercitazioni poetiche sul ruolo della Chiesa. Mi chiedo però: è questa o, meglio, è solo questa la carità cristiana? Non rischiamo di coprire con una mano di compassionevole vernice le profonde incrostazioni dell’ingiustizia sociale? Non finiamo per fare la parte del secondino buono che alla fine va perfettamente d’accordo con quello cattivo? Non stiamo confondendo l’elemosina con la carità? Non mettiamo pannicelli freschi addosso a chi sta morendo di caldo? Non diamo una pacca sulla spalla a chi è disperato e medita il suicidio?

Una delle opere di misericordia che abbiamo imparato dal catechismo è “visitare i carcerati”. La Chiesa con i suoi cappellani e i suoi volontari visita indubbiamente i carcerati, ne condivide i drammi, ne allevia le sofferenze. Ma davanti ad un problema sociale grande come una casa, vale a dire l’inumana condizione della vita carceraria con la conseguente scia di disperazione spesso sfociante nel suicidio, di fronte ad una patente violazione della Carta Costituzionale, la quale prevede che le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e debbano tendere alla rieducazione del condannato, dopo aver ascoltato le parole del Presidente della Repubblica, il quale ha affermato come le condizioni nelle carceri siano angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza, indecorose per un Paese civile, qual è, e deve essere, l’Italia e come il carcere non possa essere il luogo in cui si perde ogni speranza e non vada trasformato in palestra criminale, il dono dei ventilatori mi lascia perplesso non tanto per il gesto in sé apprezzabilissimo, ma per il timore che possa diventare la copertura pseudo-caritatevole all’ingiustizia carceraria che grida vendetta al cospetto di Dio.

È pur vero che anche il soffio di un ventilatore può dare un sollievo materiale e l’idea di una vicinanza umana, ma ritengo che la denuncia debba essere molto più forte e pressante e che la giustizia debba essere perseguita sul piano politico e sociale anche sotto la spinta della comunità cristiana.

Invece di continuare a disquisire intellettualmente sull’impegno politico dei cattolici, ipotizzando nuovi o vecchi partiti e movimenti, meglio sarebbe occupare concretamente spazi di denuncia politica, di proposta legislativa, di mobilitazione sociale.

«Siano anzitutto adempiuti gli obblighi di giustizia, perché non avvenga che si offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia» (Apostolicam actuositatem, 8 – richiamata dal cardinale Michele Pellegrino).

Che vale riempirsi la bocca di slogan inerenti il rispetto della vita per poi lasciar marcire in carcere migliaia di persone trattate in modo disumano.

«É ripugnante parlare di Dio e non essere fedeli alla sua caratteristica principale, la giustizia. Se si parla di Dio, occorre farlo con serietà. Altrimenti è meglio non avere il suo nome sulle labbra» (card. Carlo Maria Martini da “Conversazioni notturne a Gerusalemme”).