Il referendum delle beffe

Il No al referendum sulla riforma costituzionale aveva motivazioni politiche espresse, ma soprattutto carsiche, il cui collegamento con il merito delle nuove norme rimesse al giudizio dei cittadini era ed è non proprio fondato.In realtà, lo si è respirato durante la campagna elettorale e ancor più a risultato acquisito, si voleva soprattutto e innanzitutto mandare a casa Renzi. Ebbene, dopo un’ora e trenta minuti dall’inizio dello spoglio il premier prendeva atto onestamente e gagliardamente della sconfitta e ne tirava le conseguenze annunciando le sue dimissioni. Lasciamo stare se questa mossa sia stato un po’ avventata e imprudente: poteva almeno riservarsi di concordare modalità e tempi con il Presidente della Repubblica, ma bisogna anche capire la sua condizionante delusione e il suo carattere impulsivo. Reazione immediata e successiva dei politologi? La pretesa che fosse lo sconfitto a proporre soluzioni per il dopo: della serie “adesso però tocca a lui togliere le castagne dal fuoco”, dopo che gli altri ce le avevano buttate a più non posso. La prima assurdità, forse la più importante, dell’immediato dopo referendum. Sì, perché essendo lui anche il segretario del maggior partito italiano (questa la canonica giustificazione dei grilloparlanti), gli spetta comunque l’obbligo di proporre una via d’uscita al labirinto in cui ci siamo infilati. A mio modesto avviso sarebbe compito dei vincitori, di tutti quei signori che brindavano, indicare una strada nuova. È comodo distruggere per poi aspettare un nuovo progetto di costruzione. Fatto sta che Renzi è ancora al centro della scena politica, il pallino, anche dopo la formalizzazione delle dimissioni, è nelle sue mani, alla faccia di chi voleva mandarlo a casa in quattro e quattr’otto.Una seconda paradossale conseguenza, una vera e propria beffa, riguarda la vecchia politica, quella fatta di alchimie, di equilibrismi, di patti sotterranei, di tatticismi etc. Questo vecchiume andava spazzato via in nome dell’antipolitica, uno dei cavalli di battaglia del fronte del No (almeno di una parte non secondaria). Siamo ripiombati al contrario in una fase di incredibile e immemorabile confusione politico-istituzionale in cui ci vuole solo la freddezza e la razionalità di Mattarella per non soccombere. Si sovrappongono le ipotesi più disparate di governi, maggioranze, equilibri provvisori, combinazioni politiche le più strane. Tutto ciò la dice lunga sul velleitarismo semplificatorio a furor di popolo. Sciocchezze!La terza beffa: si voleva dare una sberla ai partiti, metterli in secondo piano, relegarli nel limbo se non all’inferno, ed essi ritornano “più belli, inconcludenti, litigiosi e superbi che pria”.La palma del migliore in assoluto va assegnata al Pd: era quasi scontato che in esso si scatenassero le correnti tenute faticosamente a bada dal leader-segretario. Non è parso vero a capi e capetti di tornare in gioco. Sembra che, come scrive Tommaso Ciriaco, “si aggirino in Transatlantico con l’elenco dei deputati da blindare. Fanno tutti così, perché non è più una guerra tra correnti, piuttosto un risiko tra fazioni”. Non mi scandalizzo, ne ho viste e sentite di peggio. Penso solo a chi ha votato No con la pancia e adesso si trova a fare i conti con la diarrea. Qualche esponente Pd (in vena di scherzare?) sembra che cerchi addirittura di strizzare l’occhio a Berlusconi: dopo tanta ostilità verso Verdini e Alfano si preferirebbe addirittura affogarsi nel mar grande. Il discorso ha coinvolto anche la base del partito scombussolata non poco dal referendum e dalle divisioni interne che lo hanno caratterizzato e condizionato (probabilmente anche nella dimensione dello scarto del Sì). Scrive Giovanna Casadio: «Davanti al Nazareno piovono insulti all’indirizzo dei dirigenti della minoranza del partito. È lo specchio della guerra civile che da domenica notte attraversa tutto il Pd, nelle piazze, in tv, sui social. Circola un volantino con le facce dei leader dem del No – D’Alema, Bersani, Speranza, Gotor, Emiliano – e la scritta: “Espulsione”». Capisco che queste manifestazioni politiche assomiglino al tifo da stadio, ma confesso che, per gli insulsi bastian contrari della cosiddetta sinistra Pd, sotto sotto ci godo, anche perché, come ha ricordato Renzi alla direzione del partito “nel Pd qualcuno ha festeggiato in modo prorompente e non elegantissimo la vittoria del No. Lo stile è come il coraggio di don Abbondio…” (sembra che qualcuno volesse proiettare durante la direzione del partito un video tv, quello in cui D’Alema e Speranza brindano alla sconfitta del premier e loro segretario politico nel corso della nottata referendaria). Dopo il capolavoro cucinato dalla sinistra dem, l’ex segretario Pierluigi Bersani, l’ex capo-gruppo della Camera Roberto Speranza, l’altro ex-segretario Guglielmo Epifani sono entrati in direzione dalla porta carraia, in auto, per evitare le contestazioni. Qualcuno, preso dal panico, ha addirittura chiesto ai vertici del partito una sorta di protezione per poter partecipare ai lavori della direzione senza rischiare insulti e financo percosse. Non sono un violento, ma questa volta confesso che due pattone ben date a questi signorNo non mi dispiacerebbero. Ho vissuto in prima persona la battaglia correntizia all’interno della DC dalle fila della sinistra interna di allora: fare la sinistra nella Democrazia Cristiana era un compito ben più arduo che non farla nel Partito democratico, infatti era una cosa seria, molto diversa dalle esercitazioni retoriche di chi magari viene dal Pci e non ha fatto in tempo ad esercitarsi sulla democrazia interna laddove vigeva un regime di centralismo burocratico.Anche gli altri partiti, magari un po’ più sotto traccia, stanno litigando. Forza Italia parla dieci o dodici lingue con i suoi diversi esponenti (non mi fanno rabbia, mi ispirano compassione e tenerezza, perché si sa che non contano un cazzo e la berranno dalla botte Fininvest o finiranno nelle grinfie di Salvini), mentre Berlusconi (sempre più pitturato nella testa e nel cuore: auguri sinceri, comunque) ne parla già tre o quattro per conto suo e delle sue aziende.Nella Lega sembra che tutto viaggi sulle ali di Salvini, ma Umberto Bossi, per quanto gli riesce, scalpita, Roberto Maroni spesso indossa il doppiopetto e anche la base tradizionale credo non sia tutta entusiasta della deriva nazionalista del segretario.Il nuovo-centro destra (nuovo soprattutto perché in continua evoluzione o involuzione) sta perdendo voti, colpi e pezzi davanti alle difficili prospettive elettorali o governative: tutti preoccupati di accasarsi al meglio senza rischiare di incespicare sulle soglie.I grillini litigano sulla tattica (tra la precipitosa e strumentale conversione all’Italicum e la tramontata opzione per il proporzionale), sulle candidature a premier (forse stanno precorrendo i tempi: porta sfortuna), sui provvedimenti da adottare nei confronti dei falsificatori di firme (c’è che rischia di salvarsi e chi no), sul giudizio verso la sindaca Raggi (chi non la sopporta e chi la supporta), sulla faccia che qualcuno teme di cominciare a perdere (sul web o in piazza). Beppe Grillo, il gran furbacchione se ne sta accorgendo e se ne tiene in disparte. Forse si accontenta degli endorsement populisti d’oltre confine (prima o poi dovrà risponderne, soprattutto su Euro e migranti).La sinistra extra Pd, messa a soqquadro anche dalla provocatoria iniziativa pisapiana di rassemblare l’area progressista in collegamento col Pd renziano, si spacca ancor più di quanto non sia già spaccata (Sel, SI, sindaci irrequieti). Come scrive Michele Serra “in base ai requisiti cari alla sinistra-sinistra più tipica, che sono il settarismo e l’insensatezza, i vari partitelli e clubbini che annaspano alla sinistra del Pd, spartendosi non si capisce bene quale eredità ideologica, se la cavano soprattutto con alzate di spalle e con qualche insolenza”. Loro sono contro Renzi (hanno trovato il nemico), il resto non conta nulla. Mantengono intatta la loro vocazione rigidamente minoritaria. Molti di essi giudicano le proposte riaggreganti e dialoganti di Pisapia fuori dal mondo: in quell’area politica è una gara dura capire chi lo è di più.La beffa dulcis in fundo: ai tortuosi percorsi istituzionali ed alle confuse tattiche di partito rischia di sovrapporsi, come scrive Alberto D’Argenio, “una guerra generazionale che attraversa il Palazzo. Giovani contro vecchi. Anche se questa volta i ruoli si rovesciano e a difendere il privilegio sono i giovani. Che meditano, ne parlano nei classici capannelli nei corridoi di Camera e Senato. E studiano il blitz. Con un solo obiettivo: mettere le mani sulla pensione. Urgenza che potrebbe anche mandare all’aria i piani dei leader che aspirano a chiudere subito con questa legislatura e giocarsi tutto al voto”. Il parlamentare infatti matura il diritto al pensione, da incassare al compimento del 65esimo compleanno, dopo 4 anni, sei mesi e un giorno e per i deputati attuali di primo pelo il giorno fatidico è il 15 settembre 2016. È possibile, azzarda D’Argenio, “che il trasversalissimo partito dei giovani cerchi un escamotage per arrivare alla pensione senza clamori e senza tradire i propri partiti: una delibera di Presidenza di Camera e Senato che cambi le regole (di soppiatto, senza passare dall’aula) e anticipi a quattro gli anni per arrivare alla pensione”. Si tratterebbe di traccheggiare fino al 15 marzo, poi tutti salvi.Sarebbe la ciliegina sulla torta referendaria. Auguri! È la nuova politica del dopo referendum, stupido! Ammetto che davanti a questi scenari le dissertazioni accademiche dei professori (Stefano Rodotà) su quanto conti la voce dei cittadini dopo il referendum assumono un carattere patetico, quasi commovente. Qualcuno sostiene che i professori dovrebbero restare in cattedra e non immischiarsi con la politica: auspicio forte, ingeneroso, ma …Non incespichiamo sulla Scala…L’inaugurazione della stagione lirica alla Scala di Milano ha avuto il solito contorno esterno di proteste sociali a fare da contraltare al lusso ed alla mondanità del contorno interno. In un certo senso due facce della stessa anacronistica medaglia.Quando capiremo che l’importanza di un evento culturale non dipende dalla cornice vip, che per andare a teatro, come sosteneva mio padre, non occorre l’abito di gala ma il biglietto? Certo, anche la cultura ha la sua ritualità esteriore, ma un po’ di sobrietà non farebbe male alla cultura, alla musica lirica, alla Scala di Milano e a Milano (questa città ha enormi potenzialità, grandi capacità realizzative, ma poco stile…).Quando capiremo che l’attenzione ai problemi sociali non passa dalla contestazione degli eventi di alto livello artistico-mondano (entro cui e dietro cui oltretutto si muovono tanto lavoro, tante imprese, tanto turismo, tante possibilità di sviluppo): l’arte e lo spettacolo sono infatti, per l’Italia in particolare, una miniera da sfruttare per la crescita culturale, ma anche per quella economica. Capisco la rabbia di chi combatte a denti stretti per difendere il suo posto di lavoro o di chi addirittura l’ha perso e quindi non condanno le proteste, che tuttavia non servono a nulla, rischiano addirittura di essere controproducenti. Altro discorso è valutare l’impatto del teatro lirico sulle casse nazionali, fare il bilancio costi-benefici, non sprecare danaro pubblico e non difendere i privilegi, gli sprechi, i corporativismi, le sovrastrutture e il sottobosco teatrali.Quest’anno la Rai ha pensato (bene) di offrire al suo vasto pubblico la diretta dell’inaugurazione scaligera con una ripresa della partitura originale di Butterfly. Un successo inevitabile ed eloquente per una proposta interessante e accurata da parte della Scala di Milano (resta il più grande teatro lirico del mondo). La Rai però potrebbe fare qualcosa di meglio: non farsi condizionare troppo dall’arido riscontro dei dati audience (non siamo al festival di San Remo); smetterla di rincorrere l’aspetto mondano della manifestazione puntando sui contenuti culturali, dando magari in mano il microfono a qualche musicologo ed esperto (togliendolo alle Carlucci, alle Scorzoni, ai Di Bella che c’entrano come i cavoli a merenda), che, senza esagerare, sappia rendere al grande pubblico il servizio di presentare i contenuti dell’opera e guidarlo ad un più consapevole ascolto; collocare con più rigore e buongusto i messaggi pubblicitari (vedere al riguardo il concerto di Capodanno da Vienna); rispettare e trasmettere anche i momenti di breve ma intensa attesa, le entrate del direttore, gli applausi finali: il teatro è fatto anche di queste cose e bisogna consegnarle intatte allo spettatore televisivo senza privarlo dell’atmosfera teatrale che è qualcosa di meraviglioso. Chissà perché al pubblico televisivo non è stato proposta la lettura del messaggio inviato dal presidente della Repubblica e letto al proscenio dal sovrintendente, nel quale il capo dello Stato giustificava la sua assenza per problemi istituzionali molto importanti. Sarebbe stato un modo per collocare l’evento nel contesto nazionale senza paura di disturbarne l’appeal squisitamente culturale o di rovinare la serata deconcentrando il pubblico; ne avrebbe oltretutto guadagnato anche l’esecuzione dell’inno nazionale, sempre emozionante, ma che trovava poca rispondenza emotiva nel basso profilo della prima fila delle autorità in palco reale.

Costituzionalisti italiani smettetela…

Le analisi post-referendarie dei costituzionalisti del No lasciano il tempo che trovano: osannano il risultato nella convinzione che sia stata la risposta positiva e ragionata alle loro accademiche perplessità. Parlano e scrivono come se il referendum fosse stato un seminario universitario da essi condotto e tirano tutta una serie di conclusioni a loro uso e consumo, convinti di avere reso un gran servizio al Paese ed alla sua Carta costituzionale. Il 60% di No è carico di ben altre motivazioni assai preoccupanti che c’entrano poco o niente con la riforma costituzionale.Il voto è stato in larga parte un’espressione piuttosto sgangherata di antieuropeismo e, come sostiene giustamente Massimo Riva, “un oggettivo incoraggiamento a ulteriori pulsioni in chiave nazionalista”. Lo dimostrano i petulanti e soddisfatti complimenti che arrivano ai Salvini e ai Grillo dai loro colleghi europei in vena di allargamenti del loro fronte scriteriato che da Brexit a Trump sta influenzando in modo nefasto il futuro europeo (disgregazione progressiva del progetto europeo) e mondiale (un asse Mosca Washington che cambiando gli equilibri internazionali giocherebbe a indebolire l’Europa, a ripiegare su un protezionismo spinto, a manovrare mettendo i loro interlocutori uno contro l’altro).Scrive ancora Massimo Riva: «In questo scenario è già un danno che la crisi italiana abbia spento l’unica voce forte che si stava battendo contro quella politica dell’austerità che ha così tanto alimentato la crescita dei movimenti nazionalpopulisti. Ora la vittoria del No rischia di far gettare via insieme all’acqua ritenuta sporca della riforma costituzionale anche il bambino dell’Europa. Occorre perciò che siano proprio i pochi o tanti europeisti nel fronte del No i primi a impedire ai Grillo e ai Salvini di usare il successo elettorale il chiave antieuropea».Il voto referendario è stato inoltre condizionato da forti pulsioni anti-immigrazione al limite del razzismo: è inutile nascondersi dietro il dito del maggior controllo dei flussi migratori, l’occasione ha dato libero sfogo ai “muratori” nostrani. Basta leggere certi reportage e osservare certe reazioni di rigetto agli immigrati “che se ne devono andare” e di fattive e sbrigative urla di “prima gli Italiani e poi loro”.Una terzo connotato del voto è quello dell’antipolitica, mascherata da allergia alle élite e all’establishment, (in)degna continuatrice del peggior qualunquismo. Su questo terreno si è oltretutto venuto a creare il paradosso dell’espulsione della politica (quella più politicante) dalla porta con il risultato di vedersela rientrare dalla finestra dei governi tecnici, di scopo, di responsabilità, di transizione (la crisi politica va pur affrontata e gli strumenti sono questi, salvo che non si voglia votare tutte le settimane).Sta cominciando anche il pianto di tutti coloro che stavano aspettando gli effetti, ancora in bilico, delle altre riforme in cantiere: con la crisi di governo tutto fermo se non addirittura compromesso (accordi sui contratti del pubblico impiego; riforma delle banche popolari; riforma della pubblica amministrazione; abolizione di equitalia; riforma del lavoro). Ci potevano pensare prima: mi aspetto che prima o poi scenderanno in piazza molti a protestare contro il NO, come è successo negli Usa dopo l’elezione di Trump o in Inghilterra dopo la Brexit. Il buon senso a scoppio ritardato non serve a niente.I maestri del No possono essere più che soddisfatti del loro lavoro: hanno seminato vento e raccolgono tempesta. Ma si difendono dicendo che il vento lo ha seminato Renzi…Una sinistra in eterna fibrillazioneSul fronte della sinistra il risultato referendario sta dando spinta e coraggio a Pisapia e c. che stanno vagheggiando un (ri)Lancio del Campo Progressista, da cui aprire una collaborazione col Pd relegato al centro della politica. Se l’iniziativa vuol portare alla ragione l’estremismo di sinistra fine a se stesso, ben venga anche se non ci credo perché il “purismo” sinistrorso non ha limiti ed ogni volta che qualcuno parte con un nuovo movimento o partito, sperando di inglobare il tutto, finisce con l’aggiungere un ulteriore gruppo nel panorama frastagliato della sinistra estrema. Se invece vuole evitare alla sinistra di fare i conti con la storia e col mondo moderno, non ci siamo. La serietà dei personaggi in ballo (Pisapia, Zedda, Cuperlo, Merola) lascia qualche speranza: almeno toglierebbero lo spazio sotto i piedi ai Bersaniani e Dalemiani, che sarebbero ulteriormente spiazzati ed ai quali non resterebbe che andare finalmente a casa dopo avere da tempo fallito la loro azione politica. Ma si atteggiano a vincitori. In questo referendum è ritornato di moda il ritornello della politica di un tempo, quando tutti vincevano; questa volta vogliono anche passare subito all’incasso elettorale (Grillo e Salvini in testa) o all’incasso correntizio (molti dentro al Pd).Ultima per chi rischia di sbattere: la sinistra dem ha fatto della demonizzazione di Verdini un suo punto qualificante. Vuoi vedere che finiranno con l’accettare il ritorno di Berlusconi sotto la pressione di Mattarella che ha le sue buonissime ragioni per quadrare il cerchio? Com’è piccolo il mondo!

Opportunisti italiani scatenatevi…

In questi giorni, insulsamente post-referendari, sto vivendo una battaglia, tutta personale e interiore, contro editorialisti, commentatori politici, giornalisti, cronisti, politologi, esperti, etc. etc. Innanzitutto ho dovuto notare un repentino cambio d’atteggiamento piuttosto generalizzato: si è girata l’aria e allora tutti in libera uscita per riprendersi quella libertà di espressione, che, per la verità, nessuno aveva loro tolto o conculcato (non credo infatti alla favola della oppressiva mano renziana sui media: né più né meno di quanto succede per tutti i governi di questo mondo), ma che essi stessi avevano sacrificato sull’altare della piaggeria e dell’opportunismo.Renzi è diventato un personaggio da riporre in cantina, accompagnato da una serie di dotte e insopportabili analisi del senno di poi. Contemporaneamente non si può parlar male del fronte del No perché da questo groviglio di personaggi e programmi (?) potrebbe spuntare il nuovo potere a cui genuflettersi precipitosamente: i grillini sono improvvisamente diventati cantierabili; i leghisti sono considerati legittimi portatori sani del virus populista; i forzitalioti vengono salutati come perspicaci aghi della bilancia pre-elettorale; i democratici invece sono diventati recalcitranti e fastidiosi portatori di grosse responsabilità governative ed istituzionali; gli appartenenti alla sinistra dem sono finalmente visti come salvatori della patria sociale; persino i sinistrorsi più accaniti trovano attenzione e riguardo, insperati fino a qualche giorno fa.I più sofisticati analisti, tra cui eccelle Ezio Mauro per accattivante e sbrodolante capacità di onniscienza, elaborano le linee del salvataggio facendo quadrare il cerchio con la loro abilità di dire contemporaneamente tutto e il contrario di tutto, condito con una punta di acredine accumulata nel recente passato. Al riguardo, merita una menzione speciale Francesco Merlo, giornalista impareggiabile, che però riesce sempre ad aggiungere ai suoi pezzi una stomachevole cucchiaiata di cattiveria. Questa volta ce la metto anch’io nel leggerlo: pochi giorni prima del referendum si era improvvisamente smarcato dalla Rai, che lo aveva ingaggiato nella squadra di rinnovamento editoriale varata da Campo Dall’orto (nuovo plenipotenziario messo in campo da Renzi). Una presa di distanza che ha liquidato genericamente e frettolosamente ogni e qualsiasi intento riformatore in sede Rai: Merlo è uscito sbattendo la porta con un radicale respingimento della situazione troppo condizionata e frenata, in cui sarebbe impossibile lavorare seriamente per una seria riforma. Arriva il referendum, sui risultati del quale sicuramente Francesco Merlo conosceva per tempo tutti i sondaggi possibili e immaginabili, e si smarca. Due giorni dopo il voto ci scodella un paginone su la Repubblica dedicato, con la solita ostentazione culturale, ma con pesante intendimento malignamente distruttivo, alla metamorfosi renziana, da rottamatore a potente, dal renzidiprima al renzidipoi, da uomo della novità a scarafaggio della conservazione. Questa kafkiana virata non mi è piaciuta e alla fine anche il dottissimo autore del pezzo deve aver sentito un rimorso, al punto da concedere al presidente del consiglio l’onora delle armi scrivendo: «E però, poiché nella fine c’è sempre la perfezione dell’inizio, l’altro ieri Renzi ha dimostrato di saper perdere, di essere ancora un capo nel Paese dei maggiordomi e dei militanti ossessivi. Domenica notte, con accanto Agnese che lo rendeva elegante, Renzi ha provato che si può vincere perdendo. Sia pure per il tempo di un discorso, il renzidiprima infatti ha avuto la meglio sul renzidipoi». Nella coda niente veleno, già sparso in precedenza a piene mani, ma un po’ di dolce… Mi viene spontaneo porre una domanda: «Non è per caso che nel Paese dei maggiordomi e dei militanti ossessivi sia finito malauguratamente anche Francesco Merlo?».Da questo insano esercito si salvano in pochi. Tra i salvabili mi sento in dovere di citare Michele Serra, che, al sempre notevole sforzo di obiettività storica e di autocritica personale , aggiunge un tocco di classe, una punta di polemica garbata e mai offensiva: Ha scritto due giorni dopo il fattaccio: «Ovviamente , nel vuoto politico, sarà il famigerato establishment a dirigere il gioco, con viva meraviglia di chi saluta il trionfo del No come sconfitta dell’establishment. Si spera che Mattarella non sia Napolitano-tris e cerchi la maniera di andare finalmente a votare, magari perfino con una legge elettorale scelta nel ricco bouquet disponibile. Nel frattempo le vedremo tutte: il ritorno trionfale di Berlusconi e D’Alema (nella categoria “Nuove proposte”), Salvini che trumpeggia, Grillo che sospende i vaffanculo per darsi un tono da statista. Quanto alla proposta di Micromega di un governo Rodotà-Zagrebelsky sono entusiasta, a patto che l’Economia vada a Rosa Luxemburg, la Cultura a Catullo e lo scudetto all’Inter». Ho catalogato questa meravigliosa “Amaca” aggiungendole il titolo: “Il dopo referendum è tutto qui”.Io, allergico per indole mentale e per rigidità generazionale, alle scorribande sui social, devo ammettere che gli sfoghi a questo livello sono molto meglio delle sofisticate e irritanti analisi dei politologi. Ne riporto alcuni assai acuti e interessanti. “Adesso ci becchiamo un governo tecnico, dati alla mano sarà lacrime e sangue, perché noi siamo specialisti solo a demolire, a costruire nessuno è capace”. E ancora: “Non interpretava la mia concezione di sinistra, ma Renzi ha tentato di cambiare le cose”. Un altro scrive: “Ogni volta che sentirò un grillino parlarmi di tagliare gli enti inutili o i costi della politica, gli accarezzerò teneramente la testa”. La polemica continua: “Qualcuno ha avvertito Salvini che il referendum non era Roma-Lazio?”. In chiusura di questa breve rassegna: “Bene, ora ribeccatevi D’Alema, Berlusconi, Brunetta, Amato, Prodi, Meloni, Salvini, Santanchè. L’Italia che avanza, nuove facce alla ribalta…”. Filosofia spicciola da web, forse molto meglio della scatenata accademia degli scrittori d’occasione.Il Paese degli spaesatiDai reportage sul disagio sociale, che avrebbe trovate facile sfogo nel No del voto referendario, emergono tutte le proteste accumulate e represse da tanto tempo: la loro origine risale a molto prima dell’avvento di Renzi al potere. Prescindo dal merito di queste reazioni impulsive: si va dalle barricate anti-profughi ai dimenticati (?) delle aziende in crisi, dalla frustrazione giovanile all’emarginazione periferica. Se dobbiamo dare in questo senso un significato socio-politico al referendum, rischiamo di farlo diventare lo sfogatoio (o sfigatoio) degli arrabbiati: una ghiotta occasione per gridare nelle urne, pur sapendo che non servirà, anzi ciò comporterà un ulteriore arretramento parolaio della politica, che illude e non risolve nulla.Nel passato, ormai piuttosto remoto, i partiti avevano, oltre la capacità di rappresentare il disagio e i problemi della gente, anche la funzione di educare gli iscritti e gli elettori alle regole di funzionamento della politica. Mancano entrambe queste mediazioni e se ne sente tutta la drammatica mancanza. Ciò che partiva dalla pancia era convertito alle idealità a livello del cuore e culturalmente tradotto a livello cerebrale. Niente di tutto ciò: qualcuno ha addirittura invitato gli elettori a votare solo ed elusivamente con la pancia. Invito purtroppo accolto.Adottando questo nuovo stile(?) a livello di elettori ed eletti, siamo entrati ufficialmente nella peggiore Europa. I populisti ci guardano con rispetto e interesse, ci strizzano l’occhio, ci incoraggiano e ci stimolano a proseguire su questa strada, che ormai tocca tutti i maggiori Paesi dell’Europa, per non parlare degli Usa. Tutti ad applaudirci: gli euroscettici di destra protagonisti in Gran Bretagna, Francia, Germania, Austria, Olanda. Ma la sconfitta di Renzi è stata festeggiata anche dagli euroscettici di sinistra. In Spagna si rallegra il partito Podemos. «Occorre ora costruire l’Europa della gente», ha detto Inigo Errejon, il numero due del partito viola, che vede nella sconfitta di Renzi la “caduta dell’establishment europeo”. In Francia, Iean-Luc Mélenchon vede nel risultato addirittura il “fallimento della social-democrazia”. Un tempo si diceva: “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”.

Populisti italiani unitevi…

Non esistono risposte semplici a problemi complessi. La politica data in pasto ai referendum comporta inevitabilmente disastri. Il referendum sulla riforma costituzionale, che ha assunto inevitabilmente connotati squisitamente politici, ha portato ad un risultato che, al di là della valanga di No (a cosa? a tutto!), rivela enormi contraddizioni e butta il Paese nella confusione. Basta ascoltare le reazioni propagandistiche rilasciate a caldo dai vincitori, che fanno discorsi diametralmente opposti l’uno all’altro: Salvini (Lega) è pronto per mettere al governo il suo populismo fatto di antieuropeismo, di nazionalismo, di protezionismo (la brutta copia del trumpismo e/o del lepenismo); Grillo (insolitamente cauto) mette in mostra i suoi falsi gioielli che sono pronti a schierare il loro populismo fatto di antipolitica, di contestazione globale al sistema, di “onestà, onestà”; Massimo D’Alema ed alcuni esponenti della cosiddetta sinistra dem farneticano su un diverso PD, che vedono solo loro, alla ricerca del tempo perduto e vocato all’insignificanza politica come sta succedendo in tutto il resto d’Europa; quel che resta delle macerie berlusconiane parla lingue diverse a seconda dell’ipotetico leader che dovrebbe risuscitare il morto; la sinistra ultras continua imperterrita a giocare la sua assurda, paradossale e storica battaglia navale, alleandosi ai nemici per affondare gli amici.Il referendum ha funzionato da ghiotto sfogatoio della rabbia sociale fine a se stessa, buttando a mare l’unico tentativo possibile di governare un cambiamento epocale e ripiombando il Paese nel nulla delle proprie crisi.Complimenti a quanti si sentono vincitori (di cosa?). Qualcuno vagheggia di grandi coalizioni alla tedesca o alla spagnola: francamente non le vedo possibili al di fuori delle esercitazioni dei commentatori affamati di scenari fantapolitici.A questo punto il Paese appare ingovernabile, a meno che i populisti a destra e manca non si uniscano subdolamente in un ignobile connubio che ci porti lontano dall’Europa e ci butti nelle braccia di Trump.Molti agitavano strumentalmente in campagna elettorale lo spauracchio di una svolta autoritaria: non avevo certo queste paure prima e durante il referendum, ma adesso nel disorientamento totale invece temo anche questo. La storia è piena di risposte antidemocratiche al diffuso e qualunquistico disagio sociale. Speriamo bene…Ci resta solo la saggezza, l’equilibrio e la credibilità di Sergio Mattarella: spero in lui, anche se non ha la bacchetta magica, ma è forse l’unico in Italia che attualmente riesce a combinare politicamente cuore e cervello. Ci saprà allontanare dalla pancia?Altro, a caldo, dell’Italia non saprei narrare. Mi sento un’Italiano che viene fuori d’ora a importunare la politica (parafrasi di Boheme atto primo “Mi chiamano Mimì).I SS. Mattarella e UENel 2011 la caduta di Berlusconi fu sostanzialmente gestita dalla Ue in collegamento col Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e/o viceversa. Fu una sacrosanta intromissione che portò ad un faticoso e doloroso rientro della nostra finanza pubblica nei parametri comunitari di affidabilità con la conseguente ritrovata relativa fiducia sui mercati finanziari. Allora l’Europa nutriva una irridente sfiducia nei confronti del governo italiano e ci volle un brusco cambio di governo con le maggiori forze politiche coinvolte in una larga maggioranza emergenziale: un capolavoro di Napolitano che riuscì a far fuori Berlusconi pur coinvolgendolo nell’appoggio, obtorto collo, al governo “lacrime e sangue” di Mario Monti.Oggi si è venuta a creare una situazione diversa che tuttavia rimette al centro della scena gli stessi protagonisti di allora: la Ue e la Presidenza della Repubblica. L’Italia con Matteo Renzi aveva conquistato una certa fiduciosa attenzione a livello europeo, l’andamento economico segnava una seppur modesta inversione di tendenza, era stato avviato un processo di riforme interessante che riportava il Paese nel novero dei partner fondamentali al rilancio post-brexit, il Pd rappresentava la forza politica di sinistra più forte che dava credibilità al socialismo europeo, il nostro Paese riusciva ad ottenere, anche se faticosamente, una certa pragmatica revisione del rigore a favore di una ripresa economica favorita con investimenti pubblici e con una visione più morbida del risanamento dei conti. Ma Renzi, mentre profetizzava a Bruxelles, non riusciva a fare altrettanto in patria arrivando a raccogliere una sonora sconfitta elettorale tramite la debacle referendaria di bocciatura della riforma costituzionale.Le reazioni a livello europeo sono improntate al rincrescimento e alla preoccupazione per la quasi certa uscita di scena di Renzi. Scrive Alberto D’Argenio al riguardo: «I vertici comunitari e le Cancellerie – che fino all’ultimo hanno tifato per il Sì – hanno già recapitato al Quirinale e a Palazzo Chigi i loro messaggi. Primo, soluzione rapida della crisi per evitare che l’Italia torni ad essere capace di far tremare la moneta unica. Secondo, “continuità”. In una stagione di profonda crisi europea, l’Unione non vuole perdere un interlocutore privilegiato. Gli strumenti di pressione per arrivare a una soluzione gradita l’Europa ce li ha. Ci sono 5 miliardi di buco nella manovra che la Ue può pretendere o meno a seconda del governo in carica. Così come un eventuale salvataggio delle banche andrà negoziato con Bruxelles». Senza contare lo scudo della Bce con l’acquisto dei nostri titoli di Stato.Ebbene finirà che la soluzione della crisi di governo sarà (giustamente e fortunatamente) condizionata dalla Ue, costretta a parlare nella mano a Mattarella. Sarà la migliore delle ipotesi, i due santi a cui votarci. Non c’è che dire, una bella vittoria per chi da anni rompe i coglioni blaterando contro l’establishment europeo, per chi è affetto da sovranismo acuto, per chi da tempo vede con sospetto l’invadenza dell’Europa. Seguiamo il ragionamento dei populisti nostrani, prendiamolo un attimo per buono (mi fa schifo, ma…): tanto andò la gatta al lardo…dopo il referendum saremo infatti ancor più in balia della Bce e dei poteri forti continentali (e ancor bene se non ci manderanno a quel Paese).I vincitori del No si sono montati la testa e credono di essere diventati l’ombelico del mondo a trazione trumpiana: «Or che bravi siamo stati possiamo fare di testa nostra!!!». No, perché in Europa c’è chi è più bravo di voi e a loro dico “grazie Ue”.La caciara di CacciariMassimo Cacciari, come al solito, non si fa pregare a sputare sentenze. Con la sua solita divertente vis polemica analizza spietatamente la sconfitta di Renzi al Referendum. Innanzitutto sostiene: «Con le capre pazze” è impossibile ragionare e la prima è il presidente del consiglio che ha condotto questa battaglia referendaria con istinti suicidi. Personalizzando come ha fatto, ha coalizzato tutte le opposizioni trasformando il referendum sulla Carta in un referendum su di sé. Se l’avesse condotta pacatamente questa campagna, senza la propaganda faraonica su tutte le reti della tv di Stato, il risultato sarebbe stato diverso».Sì, sarebbe stato diverso, ancor più negativo per lui e per l’Italia. I referendum politici sono tali e non si possono gestire in punta di diritto. C’era in atto un processo riformatore complesso e articolato di cui i mutamenti della Carta erano una sorta di precondizione. Cosa doveva fare Renzi? Come quella ragazza che era incinta appena un pochettino? Ha giocato la sua partita fino in fondo, al di fuori dei tatticismi di cui anche Cacciari è un fustigatore convinto. I suoi oppositori giocavano sporco a tutto campo e lui avrebbe dovuto porgere l’altra guancia? Ma caro professore, mi faccia il piacere…Non capisco poi perché a Renzi si contesti l’uso dei media: siamo in un mondo mediatizzato all’inverosimile e quindi, bene o male, bisogna starci dentro. Obama vinse le presidenziali con l’uso dei media, Trump invece pure. Il problema non è questo. Anche perché bisogna riconoscere a Renzi una certa abilità nell’uso dei media. Caro professore, anche lei non disdegna interviste, dibattiti, presenze in video, etc. etc.: caso mai quindi chi è senza peccato scagli la prima pietra.L’analisi di Cacciari prosegue sulle motivazioni del No: «Il Paese ha votato con la pancia, pieno di rabbia? Non si tratta di pancia né di mente. L’Italia, come quasi tutti i Paesi occidentali, non ne può più di un establishment che non riesce a risolvere i problemi concreti, quali il declino del ceto medio e l’assenza di mobilità sociale. Gli slogan non possono più coprire l’inadeguatezza. Amplissimi settori dell’elettorato non ne possono più delle forze tradizionali che governano. Non si tratta di populismi…cosa c’entra? È il popolo che è stanco di questa situazione».Sarei d’accordo se il popolo avesse scelto fra due schieramenti, uno vecchio e incapace e uno nuovo e promettente. Non è così. Nel fronte del No erano ben rappresentati, anche se mal miscelati, tutti i politici falliti della storia passata e recente, anche quelli di sinistra (i vari D’Alema e Bersani), che ripetutamente il professor Cacciari ha invitato a ritirarsi quali rappresentanti di generazioni che hanno fatto cilecca. Fino a prova contraria Matteo Renzi e il suo gruppo dirigente non sono assimilabili a questo vecchiume da cui viene il marcio dei tanti problemi irrisolti che creano profondo disagio sociale. Non sono perfetti, ma hanno sicuramente meno responsabilità di quanti oggi si atteggiano a paradossali vincitori nelle urne di battaglie perse nella storia. Gli unici con la fedina politica pulita (?) potrebbero essere i 5 stelle? Ma lei professore ha dimenticato di averli ripetutamente e coloritamente apostrofati con un drastico e condivisibile “il movimento cinque stelle è Grillo, dietro di lui non c’è niente”. Allora gli Italiani, come tutti i cittadini dei Paesi occidentali devono darsi una sana calmata per tornare alla razionalità della battaglia politica, perché il rischio populista esiste e prende corpo. In fin dei conti poi il professor Cacciari si corregge immediatamente quando afferma: «Non avevo previsto la vittoria del No, perché pensavo che prevalesse tra gli indecisi una certa paura di andare a stare peggio, cosa che avverrà. Avevo sottovalutato il senso di frustrazione». A parte il fatto che farsi condizionare dalla frustrazione non porta a niente di buono, non penseremo che il responsabile di questo stato d’animo diffuso e dilagante sia Renzi, il politico che negli ultimi tre anni ha cercato disperatamente proprio di dare una scossa al Paese per sottrarlo da questo senso di impotenze e di rassegnazione rabbiosa.A Renzi viene insomma addebitato tutto: «La responsabilità di questo risultato è al 99% del presidente del consiglio Renzi e della sua scriteriata presunzione. Ha creduto che il referendum sulla riforma costituzionale fosse il terreno buono su cui porre la propria egemonia. Ha perso la scommessa, ma ha così condotto il Paese in una situazione di grande difficoltà».Se la mettiamo sul piano della presunzione, si salvi chi può, in politica, ma anche nelle altre professioni (magistrati, burocrati, giornalisti, sindacalisti, accademici compresi). Che ne direbbe professore di approfondire una pista di analisi proprio sulle corporazioni toccate nel vivo e sulle loro responsabilità nell’immobilismo di ritorno e nel fallimento del tentativo renziano. Il referendum era il terreno su cui porre non tanto l’egemonia (termine filosoficamente riferibile a ben altre scuole di pensiero, non certo a quelle a cui fa riferimento la prassi renziana), ma l’inevitabile giudizio dei cittadini al quale bisognerebbe sempre rimettersi (a Renzi si continuava a contestare la mancata consacrazione elettorale, per poi quando la tenta accusarlo di scriteriata scommessa…).Infine viene il futuro politico di Renzi: «In Italia c’è stata una legge sul divorzio e nel PD lo capiranno: Renzi si farà il suo partito, gli altri il loro e potrebbe essere la soluzione ragionevole per rilanciare il centro sinistra: da un lato il patto di centro con Renzi e Ncd, all’altro la sinistra».Cos’è il contentino finale? Nella concitazione inevitabile del dopo-referendum ricadiamo negli schemi usurati. Se è tutta qui la spinta culturale al rilancio della sinistra… Nossignore, la sinistra o è capace di rispondere al mondo, che è cambiato, con idee e proposte concrete, altrimenti, se si rifugia nelle solite combinazioni, è perdente in partenza. Quella ipotizzata da Cacciari altro non è che una edizione riveduta e scorretta dell’ulivo. Anche perché ci sarà sempre un D’Alema di turno che butta all’aria tutto. Chiedere conferma a Romano Prodi.

Le masse, le lotte e i salotti

Il dibattito politico diventa sempre più contraddittorio. Mentre a livello europeo si fa un gran dire della vocazione all’insignificanza della sinistra riformista, messa all’angolo dalle pulsioni populiste a cui sembra resistere solo un centro-destra sfaccettato (Fillon, Merkel, May, Rajoi) e articolato su diverse gradazioni di europeismo, su diverse versioni di liberismo, su diverse posizioni nei confronti dell’immigrazione. L’unico Paese europeo in cui la sinistra incarna un’effettiva alternativa al populismo, di destra (la Lega di Salvini) e neutro (i 5 stelle di Grillo) è l’Italia (con il Pd di Matteo Renzi). E qui partono le assurde critiche riconducibili sostanzialmente a due atteggiamenti culturali. Da una parte i vetero-sinistrorsi alla Rossana Rossanda dicono: «Tra il populismo di Grillo e quello di Renzi è come scegliere tra l’incudine e il martello…». È l’onda di ritorno del solito e spocchioso massimalismo, abbinato, come sostiene argutamente Michele Serra, allo “sbalorditivo, paradossale e quasi nevrastenico personalismo di un campo politico (la sinistra appunto) che almeno sulla carta dovrebbe battersi per valori collettivi”. Dall’altra parte sta chi sospettosamente dubita della strategia renziana volta a togliere la terra sotto i piedi al populismo proponendo un riformismo fuori dal palazzo e dagli schemi tradizionali, improntato al rinnovamento della politica ed al recupero dell’antipolitica: della serie “non facciamo la battaglia al populismo diventando populisti”, non cadiamo nell’equivoco di una sinistra di lotta e di governo. Qualcuno (il politologo Piero Ignazi) pensa che “l’offensiva portata dal Presidente del Consiglio sul referendum ‘contro la casta’ solleciti ancora di più quei sentimenti anti-istituzionali che sono il terreno di coltura del grillismo, in quanto il gioco di prestigio di rappresentare e di incarnare fisicamente il potere e, allo stesso tempo, di parlare contro il potere, con convince più e l’estraneità al sistema si è consolidata nell’adesione al M5S e da lì non si muove. Ignazi ipotizza addirittura una trappola per il Pd coinvolto in una pericolosa deriva populista del dopo-referendum in caso di vittoria del Sì: «Il serbatoio di rifiuto e di rivolta, finora, si è incanalato in un ambito iperlegalitario come quello dei 5 stelle. Una vittoria del Sì potrebbe portare questa variegata e indistinta componente, che ha comunque nei giovani e nelle persone di ceto medio-basso il suo tratto identificativo, a considerarsi vieppiù marginale. Spetta all’intelligenza degli eventuali vincitori evitare che le frustrazioni sociali e generazionali non vengano esacerbate dal risultato del referendum».E allora che si fa? La risposta sta nel fatto che stiamo ricadendo nell’ideologizzazione post-ideologica e non siamo in grado di interpretare la politica nel mondo attuale senza ricorre agli schemi del passato. Volenti o nolenti le riforme avviate a livello governativo da Renzi e la strategia del Pd da lui guidato stanno cercando di collocare l’europeismo, il riformismo e lo sviluppo economico in un quadro di compatibilità con le pulsioni sociali dominanti, senza demonizzare o squalificare chi critica l’Europa, chi chiede più sicurezza, chi vorrebbe una risposta più razionale ed equilibrata all’immigrazione, chi pretende priorità al problema del lavoro, chi esige equità e giustizia sociale. Se punta i piedi con le Istituzioni europee per ottenere più elasticità finanziaria, più solidarietà nell’affrontare le emergenze migratorie, più attenzione agli investimenti pubblici, sbaglia perché rischia l’isolamento dagli altri partner europei o perché strizza l’occhio agli antieuropeisti, salvo aver chiesto prima e ripetutamente una politica adulta nei confronti dell’Europa. Se mira a semplificare il sistema riducendo i costi della politica e gli sprechi ad essa connessi, apriti cielo: è qualunquismo, è l’anticamera dell’autoritarismo, è la mera scopiazzatura delle ricette populiste. Se inserisce molte donne nelle istituzioni, lo fa solo per buttare fumo negli occhi alla gente, schierando le belle statuine a suo uso e consumo. E via di questo passo… Poi non lamentiamoci se la sinistra finirà con l’essere un partitino di mera testimonianza e di salottiera memoria storica. Sotto un vestito candido (?) non avrà niente…Il teatrino dell’antituttoIl berlusconismo aveva coperto, sotto la sterile coltre protestataria, le contraddizioni di chi voleva giustamente combattere un fenomeno deleterio e vergognoso, ma non riusciva a scardinarlo, tanto che la sua implosione è stata provocata dall’esterno (Europa) e certificata dal Presidente della Repubblica (Giorgio Napolitano): una morsa istituzionale che Berlusconi e i più accaniti seguaci continuano testardamente a considerare come un colpo di stato. Finito il berlusconismo (ne rimangono solo macerie assieme a qualche velleità di rinascita affaristica), tutti in libera uscita a sparare bordate persino in casa propria. È arrivato, in modo un po’ sui generis, Matteo Renzi che ha messo a nudo le contraddizioni di un sistema che aveva sì combattuto (giustamente) Berlusconi, ma che, sotto sotto, aveva anche e (forse) soprattutto il desiderio di ricompattarsi e tornare alla prima repubblica. Magistratura, sindacati, forze intermedie, burocrazia, intellighenzia, si sono arroccate per salvare il salvabile demonizzando chi aveva e ha il coraggio di mettere in discussione certi meccanismi: una politica chiusa in un catenaccio difensivo, disposta a convivere con l’antipolitica e l’antisistema grillino, solo però fino ad un certo punto (quando infatti si sono accorti che l’Italicum poteva proiettare i 5 stelle al governo del Paese, hanno storto il naso e preteso una revisione della riforma elettorale). Tutto sommato, per l’establishment della politica (e non solo della politica), sta bene anche fare solo l’opposizione a sua maestà il populismo, l’importante è non cambiare. Il fronte del No, tutto sommato ha rispecchiato e sintetizzato questi umori. Poi si farà la riforma della riforma elettorale per sancire questo schema dei populismi da una parte e dei conservatori dall’altra: ciò che sta avvenendo in Germania, Francia e Spagna. In mezzo, Bersani, D’Alema, e i loro cari a reggere il moccolo. Che tristezza! Diversamente, come scrive Stefano Cappellini, “un Sì vittorioso sull’onda della vulgata anti-sistema rischia di trasformare l’Italia nell’unico Paese in cui la partita si disputa tra due diverse forme di populismo, una distillata e una diluita, con la concreta possibilità che, senza le maschere del S’ e del No a dissimulare la contesa, l’onda di protesta deleghi lo sfogo della propria rabbia alla versione originale, così che del quartiere generale di cui si invoca il bombardamento restino davvero solo le macerie”.Insomma come si muove Renzi sbaglia ed allora… è meglio farlo fuori! Lasciate che gli antipolitica non vengano a me.

Il veleno non sta nella coda

Si fa un gran parlare dell’Italia che esce dal referendum costituzionale come un Paese spaccato a metà. Mi sembra l’uovo di Colombo. Se al corpo elettorale sottoponi la soluzione ad un problema, evidentemente controverso e delicato, è normale, oserei dire democratico, che i cittadini si dividano tra il Sì e il No. Se non fosse così saremmo ai referendum farsa, da cui certi regimi attingono consenso acritico o, peggio ancora, sostegno populistico. La riforma costituzionale, inquadrabile in un contesto riformatore indubbiamente avviato dal governo Renzi, crea una spaccatura nel Paese molto diversa da quella a cui alludono i commentatori politici (con l’argomento della spaccatura e con gli effetti a livello governativo dell’esito referendario si sono garantiti fiumi d’inchiostro e fior di compensi giornalistici), quella tra conservatori e rinnovatori, tra chi è pregiudizialmente contro il nuovo per una difesa di interesse personale e/o corporativo e chi è disponibile, senza facili illusioni, a considerare il cambiamento come opportunità. È paradossale imputare alla riforma costituzionale l’avvelenamento dei pozzi della politica italiana, quando tale riforma, almeno in teoria, tenta di rendere le istituzioni più moderne e quindi più vicine ai tanti problemi del Paese. Se un cittadino pensa che questa riforma non aiuti le istituzioni o addirittura le peggiori può votare tranquillamente NO, senza nulla togliere a chi ritiene di approvare tale legge e viceversa. Dov’è il veleno? La tossicità è provocata semmai da chi ne vuol trarre strumentalmente uno specchio deformato della società, non tanto sul piano del rafforzare o mandare a casa Renzi, che tutto sommato costituisce un intento forzato ma politicamente sopportabile, ma nel senso di squalificare la riforma quale subdolo tentativo di costituzionalizzare, in senso antidemocratico, dirigistico e speculativo, i processi decisionali e gestionali. Facendo una rapida rassegna mentale delle motivazioni conclamate dei propagandisti del No, emerge questo tentativo quale collante delle pur diversificate posizioni ideologiche, politiche, economiche e sociali: il minimo comune denominatore è l’ideologizzazione del No, inteso, pur nella diversità di sfumature e sottolineature, come difesa contro l’establishment dei nemici della democrazia.I problemi del Paese sono a monte del referendum, vengono da lontano, hanno radici economiche, sociali, interne, internazionali, italiane, europee: mi sembra di poterle sintetizzare nella estrema difficoltà di coniugare il mondo nuovo (da cui non si torna indietro, checché ne pontifichino i populisti italiani, europei e americani), connotato all’apertura, alla concorrenza e alla competizione, con le sacrosante esigenze di non emarginare, trascurare e dimenticare nessuno.C’è chi tra gli elettori ed i potenziali eletti si lascia condurre dalla rabbiosa tentazione di chiudersi (nel proprio egoistico patrimonio, nella propria famiglia, nella propria categoria, nella propria nazione, nei propri problemi, nella propria azienda, nella propria regione etc.) e chi, nonostante tutto, vuole affrontare le situazioni allargando l’orizzonte oltre i propri confini mentali, umani, geografici, sociali ed economici. Sono due visioni a confronto: nei primi c’è la forte tentazione di squalificare i secondi; nei secondi c’è la storica presunzione di banalizzare i primi. Ci può scappare il veleno!Il riformatore riformatoSe ad ogni tentativo di riforma si risponde con la disfattistica e cavillosa contestazione da parte dei massimi organi di controllo, andremo ben poco lontano, anzi ci fermeremo subito con enorme sollievo di chi tifa disperatamente per la conservazione fine a se stessa. È successo con la riforma della pubblica amministrazione, per la quale la Corte Costituzionale esige una preventiva e unanime concordanza regionale; è successo con la riforma delle banche popolari, per la quale la Corte dei Conti intravede gravi violazioni tali da bloccare il tutto e mettere i punti controversi all’attenzione della Corte Costituzionale. Sembra il gioco dell’oca! Che questi altolà siano venuti ala vigilia del referendum lascia oltretutto qualche ulteriore dubbio. Forse si vuole dimostrare che gli attuali organi (parlamento e governo) non sono capaci di legiferare e non meritano alcuna attenzione e fiducia? I poteri e la struttura di questi organi di controllo non viene minimamente toccata. Meno male, altrimenti si sarebbe gridato al golpe costituzionale (fra le tante fregnacce questa non l’ho sentita). Molto tempo fa il ministro della riforma burocratica Massimo Severo Giannini, dopo qualche tentativo andato a vuoto, vista la difficoltà al limite dell’impossibilità di cambiare le cose, diede le dimissioni preannunciando di voler emigrare negli Usa. Giustamente l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini lo rimproverò aspramente. Avevano ragione entrambi!La società scollegataIl Censis ci offre una fotografia piuttosto scontata della società italiana, dominata da sfiducia nel futuro: della serie chi ha i soldi se li tiene ben stretti e non li investe; chi vuole arrotondare lo fa puntando a redditi sommersi derivanti da impieghi patrimoniali a livello meramente speculativo; chi non trova lavoro si rassegna al precariato, magari poco qualificato e poco produttivo; i giovani sono sempre più poveri rispetto ai loro genitori e soprattutto rispetto ai loro nonni; la società non ha fiducia nei corpi intermedi e quindi non riesce ad avere una rappresentanza; tutti, ricchi o poveri, puntano a fare da sé. Non è un quadro esaltante. Credo che si stia effettivamente alzando un muro tra le generazioni: quelle protette e quelle in cerca di futuro. Il collegamento, fin che il tempo lo consentirà, è stato pragmaticamente approntato a livello famigliare: bamboccionismo e fuga di cervelli a parte, genitori e nonni sostengono la precaria vita dei loro figli e nipoti ancorché non più in tenera età. Ma il collegamento non è stato avviato a livello politico: siamo passati da un welfare ultraprotettivo ad un sistema del si salvi chi può; dal lavoro stragarantito al lavoro straprecario; da un sistema economico fondato su imprese decotte e traballanti ad un futuro economico in potere della digitalizzazione e dell’innovazione tecnologica. Per passare al nuovo mondo stiamo imparando a camminare su una fune: il problema è che sotto non c’è la rete… Qualcuno se la prende con la globalizzazione, qualcun altro con gli immigrati extra-comunitari, altri con l’Europa, altri ancora con le banche, chi con la sinistra incapace di farsi carico dei problemi, chi con la politica in genere totalmente distaccata dalla realtà. Poi si esce al sabato sera e cadono i muri: a mezzanotte il traffico impazza tra movide, discoteche, ristoranti, teatri, cinema, etc. Lo chiamo mistero della crisi. E la situazione però non migliora, anzi peggiora perché forse stiamo fuggendo dalle nostre responsabilità, facciamo finta che…

I rigurgiti giudiziari

Anche se, come spesso accade, dopo aver tirato il sasso ha nascosto la mano, il presidente del tribunale di Bologna, Francesco Caruso, ha sferrato un colpo decisamente sotto la cintola durante le ultime schermaglie della campagna elettorale referendaria relativa alla riforma costituzionale rimessa al giudizio dei cittadini. Per sostenere il No il suddetto giudice ha postato sul suo blog una sparata indirizzata ai colleghi, ma in realtà allargata a tutti: «I sinceri democratici che credono al Sì riflettano. Nulla sarà come prima e voi sarete stati inesorabilmente dalla parte sbagliata, come coloro che nel ’43 scelsero male, pur in buona fede. Non avremo più una Costituzione ma un atto di forza. E chi vorrà spiegare la riforma ai ragazzi, dovrà dire che questa riforma è fondata sui valori “del clientelismo scientifico e organizzato”, del voto di scambio, della corruzione e del trasformismo, con un governo che lega le provvidenze a questo o a quello al voto referendario. Si avvera la profezia dell’ideologo leghista Gianfranco Miglio, che nel 1994 proponeva una riforma che costituzionalizzasse le mafie, approvata col 50,01%, perché la Costituzione altro non sarebbe che la legge che la maggioranza impone alla minoranza e che fa rispettare schierando la polizia nelle piazze. Temo che siamo incredibilmente vicini a quel momento».Sono dichiarazioni deliranti che segnano il top della follia scatenatasi durante la campagna referendaria. Che questo apice negativo sia raggiunto da un autorevole giudice a capo di un importante tribunale italiano fa veramente rabbrividire. Credo che un livello simile di scontro politico non sia mai stato raggiunto, considerato anche il pulpito da cui viene la predica. Se questa deve essere l’autonomia della magistratura, ben vengano allora i giudici eletti dal popolo o addirittura nominati dal potere esecutivo. Non so se verranno adottati provvedimenti disciplinari a carico di questo giudice in vena di follie, ma se mi capitasse mai di essere giudicato da lui mi tremerebbero le gambe anche se fossi innocente come una colomba. «Su Salò sono stato frainteso, non ho mai pensato di offendere» ha precisato il dottor Caruso. In effetti forse quello che più ha scandalizzato i media è il meno grave. Che colpisce è il fatto che un giudice possa considerare la Costituzione nella nuova formulazione un atto criminale o almeno criminogeno. Follia, delirio…È proprio vero che il berlusconismo, criminalizzando i giudici, finiva col legittimare le spinte più assurde e politicizzate della magistratura italiana. Tolto il tappo protettivo sta uscendo la feccia giudiziaria. Anche i toni di altri magistrati (non tutti per fortuna…) non sono stati edificanti nella loro radicalità e nello stile più da curva di stadio che da bar del tribunale. E pensare che ho sempre avuto rispetto e riguardo per la magistratura, pur vedendone i limiti. Una prova in più che Renzi, avviando una stagione riformatrice, ha intaccato tali e tanti poteri e privilegi da provocare autentici e vendicativi rigurgiti corporativi. A questo punto se mai avevo qualche dubbio su come votare, il giudice Caruso me lo ha tolto. Purtroppo però mi ha tolto anche una bella fetta di residua fiducia verso la magistratura: queste affermazioni rischiano di rimanere scritte indelebilmente, sovrapponendosi magari allo stucchevole “la legge è uguale per tutti”. Qualcuno si deve dare una regolata. Bersani, che da troppa tempo non ne azzecca una, ha dichiarato: «Non mi metto a giudicare, tantomeno a giudicare i giudici». Evidentemente si sente in colpa per avere scatenato una bagarre dove ci sta tutto e il contrario di tutto. Complimenti!Il brigatista Zagrebelsky«Guardo certi sostegni alla riforma che provengono da soggetti che non sanno nemmeno cosa sia il bicameralismo perfetto, il senato delle autonomie, la legislazione a data certa, ecc. eppure si sbracciano a favore della “stabilità”…L’alternativa, per me, è tra subire un’imposizione e un’espropriazione di sovranità a favore d’un governo che ne uscirebbe come il pulcino sotto le ali della chioccia, e affermare l’autonomia del nostro Paese, non per contestare l’apertura all’Europa o alle altre forme di cooperazione internazionale, ma al contrario per ricominciare con le nostre forze, secondo lo spirito della Costituzione». Questi alcuni passaggi di un articolo di Gustavo Zagrebelsky a margine dell’ultimo scorcio della campagna referendaria, che lo ha visto impegnato in prima linea sul fronte del No.Dalla visione, peraltro piuttosto apocalittica, dell’insigne giurista emerge un quadro drammatico della realtà: la Costituzione italiana quale novella arca di Noè nel mare tempestoso degli interessi finanziario-speculativi, che tutto hanno in mente, meno la pace e la giustizia evocate dall’articolo 11 della Carta. Una sorta di Costituzione dei buoni in balia degli attacchi concentrici dei cattivi. Non esageriamo per cortesia! La realtà è molto più articolata e complessa. Il sistema capitalistico prevede che esistano gli interessi economici e che tendano a prevaricare su quelli politici: non è una novità per nessuno. E allora? Non mi pare che la riforma costituzionale si genufletta nei suoi contenuti al potere economico, anzi, tendendo a rafforzare l’efficienza e l’efficacia delle istituzioni politiche le mette in grado di resistere meglio agli assalti dell’establishment nazionale, europeo e internazionale. Se poi si pensa che il governo di Matteo Renzi sia permeabile rispetto alla finanza internazionale e lo si vuole demonizzare, si pensi al governo Monti e ad altri governi del passato, non per consolarci del presente ma per rientrare nel solco della razionalità. Renzi sarebbe un cavallo di Troia di questi poteri forti che ci soffierebbero la Costituzione e ci toglierebbero autonomia. Siamo francamente nella fantapolitica o ancor peggio ci avviciniamo ai deliri delle Brigate Rosse e del loro Stato imperialista delle multinazionali. Ormai non ci manca più niente: tutto serve a colpire Renzi e l’equilibrio politico di cui è protagonista. E per fortuna che era lui a voler personalizzare il discorso. Buttiamolo pure a mare, poi vedremo le alternative che, dall’alto della sua onniscienza, ci proporrà Gustavo Zagrebelsky. Resto in spasmodica attesa…Il ritorno dei cervelliPer fortuna esiste chi riporta il dibattito politico alla razionalità e alla realtà togliendolo dalle iperboli giudiziarie e scientifiche. Un gruppo di studenti e ricercatori di Harvard e MIT dagli Usa sceglie un approccio pragmatico ed equilibrato rispetto alla riforma costituzionale. Sono cosiddetti cervelli in fuga che non nutrono alcuna acredine verso l’Italia e che intendono invece agevolarne il rinnovamento. Poche e chiare motivazioni:La riforma imperfetta può aiutare comunque il Paese ad adattarsi al 21esimo secolo;L’Italia nell’epoca moderna non può più permettersi l’immobilismo decisionale dettato da governi fragili e di breve durata, da maggioranze dissonanti in due Camere paritarie o da veti incrociati fra Stato e Regioni;La Costituzione o cambia aggiornandosi al contesto politico e sociale o rischia di perdere efficacia come strumento di organizzazione della vita comune;La scelta non è tra riforma in discussione e un’utopica costituzione, ma tra la prima e uno status quo difettoso;Ogni cambiamento non è perfetto e comporta dei rischi, ma apre anche a molte opportunità.Una bella lezione che ci viene da connazionali impegnati all’estero. Che siano loro ad aiutarci a ragionare è tutto dire… Grazie comunque!

Referendum è politica

In extremis è arrivato il Sì di Romano Prodi. Non ho idea dell’impatto elettorale che potrà avere un simile pronunciamento reso pubblico a pochi giorni dal referendum. Un effetto politico comunque esiste: l’isolamento ancor più marcato della sinistra dem, già senza strategia ed ora senza riferimenti autorevoli al di fuori di un D’Alema in cerca di vendetta e di un Bersani in cerca di rivincita. Gli altri personaggi sono soltanto uno sbiadito contorno alle sempre più anacronistiche radicalità di una sinistra che non vuole fare i conti con la storia passata, presente e futura.Tra le stucchevoli e scontate dichiarazioni di maniera rilasciate da Prodi, che sembrano più scuse per il ritardo che motivazioni serie per la scelta, raccolgo forse la meno originale che serve solo a prendere politicamente le distanze da Renzi, il quale a suo dire avrebbe dovuto “separare la riforma, come saggiamente da alcuni proposto fin dall’estate, dalla sorte del governo”. Tutti fanno finta di non sapere che il governo Renzi era nato con l’input delle riforme, che Napolitano aveva messo le riforme costituzionale ed elettorale quale condizione per il rinnovo del suo mandato presidenziale, che le riforme costituzionali facevano parte del programma governativo, che, come dice Riccardo Illy, la riforma era la ragione del governo stesso e che, quindi, era inevitabile che il giudizio sulla riforma venisse legato a quello sull’operato del governo.E allora facciamola finita con questa storiella della personalizzazione e contestualizziamo il referendum che ha e avrà precise e complesse ripercussioni politiche a tutti i livelli, valutiamole buttando alle ortiche il bilancino dei costituzionalisti, la clava dei populisti e la bava dei sinistrorsi, usando la capacità critica che la democrazia ci impone.Non sono d’accordo pertanto con le dotte analisi di Michele Ainis, il quale ritiene che il referendum sulla Costituzione sia altra cosa rispetto alle normali scelte politiche elettorali: è la più importante delle scelte politiche elettorali, è la scelta politica per eccellenza.

Banche e referendum

Ma cosa c’azzeccano le banche col referendum sulla riforma costituzionale? Il solo collegamento che riesco a vedere e capire è quello della speculazione: la sicura incertezza politica del prima e quella quasi certa del dopo costituiscono un perfetto assist agli speculatori sui titoli bancari.L’esposizione bancaria sui crediti inesigibili risale alla crisi economica ed ai suoi andamenti; la scarsa capitalizzazione degli istituti di credito è un dato che viene da lontano; la cattiva gestione delle banche è un altro fattore che si nutre del clientelismo, della mancanza di controlli efficaci, dei legami impropri con la politica. Tutti elementi assai consolidati nel tempo, a cui la sinistra politica non è estranea (mi riferisco in particolare a Monte Paschi Siena e ai comunisti o ex-comunisti che oggi si stracciano le vesti di fronte a Matteo Renzi) ed a cui deve essere aggiunto l’inspiegabile orgoglio dei precedenti governi italiani (anche e soprattutto dei governi tecnici che sono diventati immediatamente auspicabili solo perché i loro passati esponenti si stanno sgolando per il No) sbandierato nel non voler intervenire a sostegno delle banche, cosa peraltro fatta in passato dai partner europei rigoristi a scoppio selezionato e ritardato. In vista e dopo ogni evento politico importante si riapre il discorso delle banche: dopo Brexit, dopo Trump, dopo il referendum italiano.Non mi convince neanche la motivazione addotta dagli specialisti (?), in base alla quale siccome le banche detengono nei loro portafogli molti titoli del debito pubblico, l’instabilità politica porterebbe ad una loro svalutazione con conseguenze sulle situazioni patrimoniali bancarie già peraltro deboli e compromesse.Certo che le banche non sono un’isola e risentono come tutte le istituzioni economiche del clima politico, ma credo si stia facendo del terrorismo.Non riesco a capire se ciò possa influenzare le intenzioni di voto degli italiani: in teoria dovrebbe indurli a votare Sì per garantire stabilità e continuità al processo riformatore che renderebbe credibile lo Stato italiano agli occhi dei cosiddetti poteri forti.In pratica può darsi che invece le colpe, che in modo confuso e non convincente vengono scaricate sul governo attuale, in materia di politica bancaria si riflettano sul referendum a favore del No: è ipocrita continuare a chiedere la spersonalizzazione mentre tutti vogliono mandare a casa Renzi e pretenderebbero che lui non si difendesse.I poteri fortiPoi spunta l’Economist che auspica un governo tecnico per il dopo-referendum. E allora tutti gabbati coloro che per indurre al No vendevano le riforme come un desiderata opportunistico dell’establishment europeo o addirittura mondiale.Come si sarà sentito Beppe Grillo di fronte a questo inopinato endorsement proveniente dai diabolici detentori del potere finanziario.Che l’alta finanza abbia sempre cercato di influenzare la politica non è certo una novità, chissà perché questa ovvia caratteristica del nostro sistema viene sbandierata quando si cerca di cambiare qualcosa squalificando ogni intento rinnovatore spacciandolo per subordinazione ai piani alti dell’economia e della finanza.I governi tecnici, le urla degli ex-re, i birilli della sinistraChe differenza c’è fra un governo tecnico e un governo politico? Il secondo dovrebbe essere espressione di una precisa e ben delineata maggioranza politica con un altrettanto preciso programma politico, mentre il primo prescindendo da maggioranze parlamentari precostituite dovrebbe rispondere a situazioni di emergenza e raccogliere la fiducia in base alle proprie capacità tecniche di affrontare gravi problematiche contingenti. Il problema non è però di valutare astrattamente e teoricamente le due possibilità, ma di applicarle eventualmente alla realtà considerando che il governo tecnico dovrebbe essere l’eccezione, mentre quello politico dovrebbe rappresentare la regola. Matteo Renzi ha espresso il parere che in questo momento storico dell’Italia il ripiegamento su un governo tecnico post-referendario sarebbe un escamotage più di fuga dalla realtà che di garanzia di continuità. Apriti cielo! È insorto Lamberto Dini, schierato per il No alla riforma costituzionale, a difendere la competenza e lo spirito di servizio del suo governo e degli altri governi tecnici (Ciampi, Monti etc.) che si sono succeduti negli anni passati, attaccando Renzi e la sua mancanza di credito elettorale, lasciando capire di considerarlo un personaggio né carne né pesce, troppo politico per essere definito tecnico e troppo poco votato per essere definito politico. Ragionamenti francamente penosi. La riforma costituzionale avrà certamente parecchi difetti, ma se non altro ha il pregio di “avere denudato tutti i re” della politica italiana, i quali, indipendentemente dal pronunciarsi per il Sì o per il No, mostrano di essere, tra voltafaccia, giri di parole e contorsioni dialettiche, vittime della sindrome rancorosa del mancato riformatore che vuole cancellare o comunque sminuire chi, bene o male, è riuscito a produrre uno “straccio” di riforma costituzionale. Come scrive Corrado Augias, “gridano oggi il loro dissenso, dimenticando di non aver fatto nulla quando avrebbero potuto, disposti a confondersi in un gruppo che non sarà un’accozzaglia, ma che certamente continuerebbe a non poter fare nulla, diviso in tutto salvo che nell’avversione per il comune nemico, continuando per quarant’anni a dire che bisognerebbe aggiornare la Costituzione”. Di questo folto gruppo di contestatori globali a difesa della Costituzione, Michele Serra salva solo “i pochi e tenaci custodi della sacralità della Carta che saranno immediatamente rispediti ad occuparsi dei loro libri”, mentre gli altri li considera “figure politiche alle quali, della Carta, non importa un fico secco: la vecchia destra, convinta da sempre che la Costituzione antifascista sia roba da comunisti; la nuova destra populista, che nelle regole vede solo un noioso impiccio, una inutile mediazione tra Capo e Popolo; e i cinquestelle, che ai vecchi papiri sostituiranno, non appena ne avranno l’occasione, le loro nuove misure del mondo e che avrà qualcosa da ridire è perché è della Casta”. E i contestatori della sinistra? A mio giudizio trattasi dei soliti, inconcludenti, confusionari ed anacronistici benaltristi. Hanno fatto fuori Prodi, vogliono far fuori Renzi, si accontentano di abbattere i birilli senza capire che i veri birilli sono loro stessi.Ue: dai sorrisetti agli endorsementPuò darsi che l’atteggiamento dell’establishment europeo verso la riforma costituzionale italiana e verso il governo Renzi pecchi di strumentalità ed opportunismo, io comunque preferisco una considerazione interessata ad una irrisione conclamata (mi riferisco ai tempi di Berlusconi…).Rigoletto, il Duca di Mantova e le vestali della CostituzioneAl fine di scuotere l’elettorato e di indurlo alla responsabile scelta di partecipare al voto referendario, l’insigne editorialista Michele Ainis scomoda il “Questa o quella per me pari sono” applicandolo all’indifferenza verso la riforma costituzionale. Clamoroso è lo scivolone culturale del mettere in bocca a Rigoletto una frase che è del Duca di Mantova. Il pressappochismo dei commentatori politici si vede dal mattino! Rigoletto ha ben altro atteggiamento, quello di difendere al limite dell’ossessione l’integrità della figlia: se proprio vogliamo tirarlo in ballo vediamo semmai di assimilare la sua “tremenda vendetta” alla smania dei tenaci custodi della sacralità della Carta che, come scrive Michele Serra, l’indomani del referendum saranno immediatamente rispediti ad occuparsi dei loro libri. E la loro vendetta forse farà la fine di quella di Rigoletto: uccidere la figlia (la Carta costituzionale) per eccesso di zelo.

Populismo

Lo scrittore Martin Cruz Smith dice che, con la morte di Fidel Castro, Cuba ha perso il suo dittatore ed ora sono gli Usa ad averne uno: Donald Trump.Non sono d’accordo nel raffronto, la vicenda di Castro è un po’ più complessa, ma il messaggio è chiaro: stiamo attenti al populismo, che la storia ci ripropone in modo riveduto e scorretto.L’Europa, scrive Nicolas Baverez, giornalista di “Le Figaro”, si trova in prima linea nella resistenza al populismo, che si nutre alle mammelle dell’esclusione, dell’insicurezza e della perdita di’identità.E in Europa cosa sta avvenendo?La Germania per resistere al populismo si affida ad Angela Merkel, giunta al suo quarto eventuale mandato elettorale: una conservatrice illuminata, un’europeista di lungo corso, una governante seria. Non è poco, ma non basta.La Francia punta su Fillon: un Trump più sobrio e compassato, un opportunistico tradizionalista in campo etico-religioso, un ammiratore di Putin, un nostalgico della virilità politica e del nazionalismo, un politico capace di rompere le uova nel paniere a Marine Le Pen (Raphaël Glucksmann, scrittore).Sempre a detta di Glucksmannn la sinistra non sa come reagire, è debole, inconsistente, si accontenta di difendere lo status quo e denunciare le derive degli altri.In Italia la sinistra ha tentato e sta tentando la strada di un certo rinnovamento, ma si sta scontrando con tutti coloro che difendono appunto lo status quo, vuoi sotto le bandiere di una sinistra decrepita e passatista (D’Alema, Bersani e c. che difendono i loro fallimenti spacciandoli per trionfi), vuoi scimmiottando i populisti stranieri (la Lega Nord che guarda a Trump e Le Pen tradendo persino la sua identità nordista a favore di un nazionalismo improvvisato), vuoi cavalcando strumentalmente l’antipolitica (la foga grillina che porta alla vecchia deriva del tanto peggio tanto meglio, proponendo amministratori locali incompetenti e pasticcioni. «Se quei pasticci li avesse fatti il Pd, li avremmo massacrati» ammette Grillo nel chiuso del suo movimento a proposito dei tristi biglietti da visita di Virginia Raggi), vuoi facendo il verso a Fillon (Berlusconi che esce dal frigo per rinverdire il suo intramontabile narcisismo e/o difendere, come ha sempre fatto, i suoi interessi personali e aziendali).Probabilmente il socialista francese Manuel Valls sta facendo un pensierino al percorso renziano, ma si scontra da subito col continuismo di Francois Hollande (il nulla seduto all’Eliseo).E allora? Siamo nella cacca. Speriamo di non esserci ancora di più il 05 dicembre 2016.