Il macabro balletto pre-elettorale

Se il 2016 lo possiamo archiviare come anno del referendum – a livello europeo la Brexit e altri referendum sparsi qua e là e di cui ormai si perde il conto, a livello italiano la bocciatura delle riforme costituzionali, con tutte le conseguenze che non si sono ancora potute valutare appieno – il 2017 rischia di essere l’anno elettorale per eccellenza, certamente in Germania, in Francia e in Olanda, probabilmente in Italia.Le consultazioni elettorali, quelle referendarie in particolare, ma anche quelle politiche, non esauriscono la sostanza della democrazia, ne sono semmai solo una episodica verifica e come tali vanno vissute. C’è invece ormai la tendenza a considerarle il perno attorno a cui gira la politica con l’effetto di drogarle, facendone una questione di vita o di morte, e di svuotare la vera vita democratica ridotta a mera presa d’atto dei risultati delle urne.L’Europa è ferma in attesa dei risultati delle elezioni in Francia e Germania, l’Italia è in surplace per l’incerta ma frenetica attesa di aprire le urne.Nel nostro Paese si vorrebbe addirittura andare a votare senza una vera e propria legge elettorale: l’importante è votare, votare subito, poi si vedrà.Questo è un atteggiamento democraticamente puerile, istituzionalmente scorretto, politicamente fazioso, culturalmente sbagliato.Non si vuole infatti ricorrere alle urne per rafforzare le istituzioni con un mandato rinnovato e chiaro, ma si tenta disperatamente di lucrare qualche punto di percentuale in più dal clima di incertezza e di sfiducia regnante. Non si desidera recepire la volontà popolare ma pressarla e/o fuorviarla con una rissa propagandistica continuata. Non si pensa ad un dibattito serrato e sereno, ma si punta allo scontro demagogico cavalcando il malcontento. In una situazione del genere le elezioni rischiano di essere inesorabilmente truccate, non da brogli, ma dalla stessa discussione che ne costituisce la premessa.I movimenti populisti (Lega, FdI e M5S) soffiano sul fuoco e pretendono una corsia preferenziale verso le urne a costo di arrivarci con un sistema elettorale disomogeneo e raffazzonato. Berlusconi, con quel che gli rimane di partito, è preoccupato soprattutto di difendere il suo impero aziendale e quindi non pigia sull’acceleratore e punta, in tempi ragionevoli, ad ottenere un legge elettorale proporzionale che consenta a Forza Italia di giocare in proprio, prima durante e dopo le elezioni. Matteo Renzi vuole bruciare le tappe in funzione di una pronta rivincita, sacrificando ad essa la vita del governo Gentiloni ed il congresso del partito democratico, rispolverando provocatoriamente una legge elettorale di qualche tempo fa (molto meglio forse di quelle successive).Tutti quindi vorrebbero andare velocemente alle elezioni, ma faticano a trovare la quadra, anche perché il capo dello Stato non si lascerà pressare più di tanto, intendendo salvaguardare la capacità delle Istituzioni di far fronte alle emergenze e ponendo allo scioglimento del Parlamento la condizione di aver approvata una legge elettorale seria, armonica sulle due Camere, in linee con le pronunce della Corte Costituzionale, capace di garantire rappresentanza e governabilità.Il rischio è di continuare per mesi in questo balletto pre-elettorale senza costrutto, tra simulazioni dei vari sistemi elettorali, in una gara a chi è più favorevole alle urne, in un clima di incertezza, tenendo il governo a bagnomaria, beffeggiando Gentiloni nel suo imbarazzo tra la continuità governativa rispetto a Renzi e il rischio di governare a dispetto di Renzi.Forse anche Sergio Mattarella dovrà ricredersi e rassegnarsi ad uno scioglimento ravvicinato delle Camere, facendo magari una forzatura costituzionale e sparando in faccia ai partiti una legge elettorale (lui se ne intende…): prendere o lasciare alla faccia della moral suasion .A complicare ulteriormente le cose ci si mettono anche i tre referendum in materia di lavoro promossi dalla CGIL, che potrebbero influire non poco sul calendario della politica italiana.Non ricordo quale illustre personaggio sostenesse che la democrazia non si rivela tanto nel voto quanto nel dopo-voto (cito a senso). Forse mai come in questo momento storico questa opinione merita considerazione. In Italia (con licenza parlando) ad ogni pisciata di cane si vorrebbero indire elezioni.Quando entrò in vigore l’iva fece un certo scalpore l’introduzione di un documento strano, la cosiddetta autofattura, che in certi casi il compratore si vedeva costretto ad emettere al posto del venditore. Un mio simpatico interlocutore, impressionato da questa novità legislativa, quando mi poneva un problema in materia di imposta sul valore aggiunto, finiva col chiedermi in ogni caso: «Co’ disol dotôr, ag fämmiä n’autofatura?». Oggi, politicamente parlando, di fronte a qualsiasi problema potremmo chiederci: «Fämmiä gli elession?».

Il mal di voucher

Il dibattito politico di fine anno 2016 è all’insegna della demagogia: tre i punti d’attacco, la demonizzazione dei voucher, l’elogio della povertà, le banche da salvare, tre aspetti della solita menata di chi gioca a fare l’anticapitalista in un sistema capitalista.Maurizio Landini, battagliero leader della Fiom, grida allo sfruttamento dei lavoratori che avverrebbe tramite l’utilizzo dei voucher. Sul piano della previsione normativa i voucher sono strumenti atti a dare copertura legale ed assicurativa a rapporti di lavoro, che per la loro provvisorietà, frammentarietà e brevità, non potrebbero avere un riconoscimento contrattuale vero e proprio e che quindi, in mancanza di questo strumento, rischierebbero di rimanere a livello di lavoro nero. Tutto qui. Se esistono abusi, così come purtroppo esistono in tutte le fattispecie di contratto, vanno perseguiti e puniti adeguatamente. Se la norma presenta qualche elemento di ambiguità e/o di genericità, va risistemata e puntualizzata. Tutto qui.Sinceramente non vede lo sfruttamento del proletariato o del precariato. Vedo un tentativo di adeguare i rapporti di lavoro ad un mercato che per sbloccarsi ha da una parte bisogno di investimenti pubblici e privati, dall’altra di certezza, semplicità e chiarezza procedurale e burocratica, dall’altro ancora di flessibilità.Si scontrano sostanzialmente due modi di intendere una politica di sinistra: demonizzare le esigenze delle imprese (discorso di cui sopra), riportandole alla mera volontà di speculare sul lavoro, mettendo argini ad un fiume in secca; cercare di fare scendere a valle l’acqua dalle sorgenti per renderla utilizzabile correndo qualche rischio di inquinamento o di deviazione. Il sindacato, non tutto ma in gran parte, tende a difendere i virtuali diritti di chi non ha la possibilità di accedere al diritto di base, quello di poter lavorare. Se un disoccupato trova l’opportunità di lavorare alla luce del sole per dieci giorni con tanto di voucher, perché gli dobbiamo togliere questa possibilità buttandolo nel lavoro nero o addirittura facendo rientrare in qualche modo quella modesta ma aggiuntiva domanda di lavoro nei rapporti già in essere, magari a vantaggio di chi ha già un’occupazione. A chi può nutrirsi solo di un pezzo di pane, non regaliamo una diatriba sulla necessità di fare pasti completi ed equilibrati!Beppe Grillo invece fa l’elogio della follia pauperista facendo gli auguri di Natale con un breve testo di Goffredo Parise: «Noi non consumiamo soltanto in modo ossessivo: noi ci comportiamo come degli affamati nevrotici che si gettano sul cibo in modo nauseante». Se Grillo vuole rubare il mestiere a papa Francesco sarebbe consigliabile che, prima di pontificare, facesse qualche approfondimento e magari andasse a rileggere quanto diceva papa Giovanni XXIII a proposito dell’assurdità di proporre la dottrina cristiana a chi non ha niente da mangiare (prima bisogna sfamarlo e poi se ne potrà parlare…). Se per caso vuole fare rientrare dalla finestra le ideologie finalmente uscite dalla porta, devo ammettere che fra Grillo e Marx preferisco Marx, pur considerando i tremendi disastri che il comunismo ha combinato e che stiamo ancora scontando. A sconfiggere il capitalismo non c’è riuscito Marx o meglio i rivoluzionari che a lui facevano riferimento, immaginiamoci, pur con tutto il rispetto, se ci potrà riuscire Grillo… Se il comico miliardario vuole parlare ai ricchi come lui, per rendersi credibile dovrebbe donare tutto ai poveri e poi potrà fustigare i nevrotici del cibo. Al riguardo ritengo assai più credibile madre Teresa di Calcutta.Poi arrivano i giustizieri da salotto, quelli che si scandalizzano per i miliardari salvataggi bancari paragonati agli scarsi fondi per la lotta alla povertà. A parte il fatto che non si possono mettere a confronto fondi investiti in una banca (che non dovrebbero essere a fondo perduto) coi sostegni a chi si trova in povertà assoluta (oneri sociali a carico del bilancio statale), resta il problema di un sistema in cui le banche, come tutte le imprese, possono andare in fallimento e lo Stato deve valutare se intervenire per salvarle e per evitare ripercussioni sistemiche o se lasciar fare, lasciar passare…Bisognava controllare prima? Certamente! E allora? Quando molte banche erano sotto il controllo della politica rappresentavano l’orto clientelare dei partiti. Oggi è rimasto l’orto clientelare affidato ai manager che ne combinano di tutti i colori. I politici almeno ogni cinque anni (anche meno) rispondevano (?) all’elettorato; i manager fanno come i campioni di calcio, i quali, se la squadra retrocede, trovano subito da giocare in un’altra disposta a pagarli anche di più. È il capitalismo! Un sistema migliore non esiste. Perfettamente inutile rituffarsi nel mare delle ideologie. Molto meglio provare con tanta pazienza a migliorare il sistema senza furbizie dialettiche e senza demagogia. Qualcuno dirà che sono diventato un uomo di destra. Di subire simili sommarie squalifiche è successo a personaggi ben più importanti di me. Successe prima ai socialisti ad opera dei comunisti, poi venne il turno dei comunisti (revisionisti berlingueriani) ad opera dei brigatisti. Non sono mai stato né socialista, né comunista. Lasciamo stare le ideologie e puntiamo sulle idee.Durante il periodo in cui prestavo servizio volontario in una cooperativa sociale, mi capitava quasi tutti i giorni di andare in banca per depositare gli striminziti incassi. Incontravo spesso un caro e simpatico amico che, vedendomi bazzicare un po’ troppo nei pressi degli istituti di credito, si preoccupò e trovò il coraggio di chiedermi in un dialetto molto stretto ed eloquente: «Mora, cò sit dvintè un capitalista?».

Il “trampusto” inquietante

La scena politica mondiale termina il 2017 con un malinconico e nostalgico addio a Barak Obama, mentre il sipario che si apre sul 2018 ha tutto il sapore di un inquietante salto nel buio trumpiano.Ho imparato, da fin troppo tempo, a non inserire alcun elemento di tifoseria nelle mie opzioni politiche. Ho nutrito grande fiducia e speranza verso la presidenza americana di Obama e valuto molto positivamente il suo operato, che non considero solo alla luce dei risultati immediati, ma di alcune direzione innovative tracciate: basti pensare al disgelo dei rapporti con Cuba, all’apertura di dialogo con l’Iran, al coinvolgente ma rispettoso confronto con l’Unione Europea, alle aperture sociali nella politica interna, all’approccio non bellicista verso le dirompenti questioni internazionali. Credo che Obama passerà alla storia più per le cose non fatte ma che avrebbe voluto fare, piuttosto che dei risultati concreti raggiunti. La storia ha tempi lunghi e chi semina molto spesso non raccoglie. La consapevolezza del pesante ruolo degli USA sullo scacchiere internazionale non gli ha impedito di impostare la sua presidenza all’insegna del dialogo e del confronto rispettoso con gli amici e con gli avversari. Se Obama ha seminato, c’è il rischio che chi viene dopo di lui spazzi via tutto (l’emblematico orto di Michelle consegnato alla improbabile giardiniera Melania).La valutazione positiva di questi otto anni di Obama viene purtroppo oltremodo accentuata dalle prospettive molto preoccupanti riguardo al suo successore, quel Donald Trump che fa letteralmente tremare le vene ai polsi.La politica ridotta ad affarismo e populismo combinati in una miscela incredibilmente pericolosa e antistorica: ambiente messo nelle mani dei petrolieri, asse privilegiato con Putin, provocatoria sottovalutazione del ruolo cinese, netta presa di distanza verso l’Europa, isolazionismo politico, protezionismo economico, chiusura a livello delle migrazioni. Se qualche commentatore sostiene che la presidenza Obama sia stata un bel libro dei sogni, la presidenza Trump si profila come un ben triste risveglio al suono ripetitivo di tutti i peggiori “ismi” della storia.Sembra quasi che il presidente uscente voglia segnare con alcune forti prese di posizione una preventiva discontinuità rispetto alle prevedibili mosse del suo successore, rendendogli la vita difficile, ponendolo di fronte a situazioni da cui sia assai problematico tornare indietro: l’atteggiamento finalmente deciso e chiaro a livello Onu nei rapporti israelo-palestinesi, contrario a nuovi insediamenti degli ebrei in casa degli arabi e all’occupazione perpetua dei territori e favorevole alla soluzione dei “due Stati”; il divieto delle trivellazioni petrolifere in ampi tratti delle coste americane a coronamento di un lungo impegno sul cambiamento climatico; nuove sanzioni economiche e operazioni di rappresaglia contro l’invadenza russa a subdolo sostegno di Trump durante l’ultima campagna elettorale negli USA. Si pensi che Igor Sechin, plenipotenziario della compagnia petrolifera russa Rosneft, ex collega di Putin nel Kgb e poi suo braccio destro al Cremino, diventato il boiardo più potente della Russia, è grande amico di Rex Tillerson, il boss di Exxon Mobil, scelto da Trump come segretario di Stato.In questi, ma anche in altri atti e pronunciamenti, si legge la chiara volontà di Obama di segnare un confine, una linea di demarcazione, lasciando a Trump la responsabilità di invertire la tendenza. La dichiarazione inerente la sua virtuale vittoria qualora fosse stata possibile una seconda ricandidatura, la sovraesposizione mediatica di sua moglie Michelle, la sua tendenza finale a esporre senza ritegno il proprio pensiero sono tutte evidenti intenzioni di influenzare il giudizio della storia nel senso di dare l’idea di una tempestiva e netta presa di distanza rispetto all’imminente ciclone Trump. Se non è una dimostrazione personale di fair play, né di maturità democratica per gli USA, è almeno la finale rivendicazione di una diversità, la voglia di uscire a testa alta e la estrema, quasi disperata, volontà di porre qualche limite invalicabile all’invadenza del tykoon.Qualcuno reagisce superficialmente alla paradossale scelta elettorale americana facendone ricadere sugli statunitensi gli effetti: della serie “si arrangeranno…”. Ci arrangeremo tutti, anche senza averlo votato. Lui, che ha raccolto consensi promettendo una reazionaria rivisitazione della globalizzazione, ci obbligherà a fare i conti con lo spettro globalizzante della sua cattiva politica.Se è vero, come ha detto Obama l’indomani della vittoria elettorale di Trump, che il sole continuerà comunque a sorgere, sull’alba dei prossimi anni incombe la fitta nebbia del trumpismo. Sì perché oltretutto Trump non è un fenomeno isolato, ma causa/effetto di un movimento che trova seguaci, imitatori e collaboratori sparsi in tutto il pianeta.Se tra il dire e il fare di Obama ci sono stati di mezzo tanti mari contrari, temo che tra il dire e il fare di Trump possano esserci tanti venti favorevoli.Un bagno di (in)sano pessimismo ci prepara al 2017: buon anno!

Forze dell’ordine e debolezze del disordine

Mio padre mi ha insegnato a diffidare delle collettive momentanee e facili esaltazioni così come delle condanne sbrigative e sommarie: ragionare con la propria testa senza venderla all’ammasso, ascoltare con le proprie orecchie, parlare con la propria bocca. Cerco di mettere in pratica questi consigli anche nelle situazioni più difficili e delicate.Mi riferisco al coro di esaltazione per il comportamento degli agenti di polizia che, a Sesto San Giovanni, hanno diligentemente fermato e controllato un elemento sospetto, hanno reagito prontamente ai suoi spari e quindi hanno involontariamente eliminato un pericoloso terrorista islamico in fuga, responsabile della strage di Berlino e che avrebbe presumibilmente potuto reiterare i suoi attacchi.Coraggio, tempestività, prontezza, freddezza, professionalità: onore al merito e capisco come l’onore possa assumere la valenza di sollievo quando il merito è quello di averci difeso da un pazzo scatenato vocato fanaticamente a seminare morte e terrore.Lasciamo perdere se sia stato opportuno o meno rivelare il nome di questi due agenti: probabilmente lo si è fatto per dare ad essi il giusto riconoscimento pubblico, facendo prevalere l’opportunità del compiacimento sulla necessità del riserbo cautelativo e protettivo. Mi rimetto alla valutazione dei massimi responsabili dell’ordine pubblico e della lotta al terrorismo e non mi associo alle sottigliezze mediatiche.Lasciamo stare la forzata, esagerata ed esaltante ricaduta dell’episodico successo sul sistema di controllo territoriale, anche se ammetto al riguardo una probabile superiorità del nostro Paese rispetto ai sovrastimati partner europei.Mi permetto invece di allargare il discorso sul ruolo e il comportamento delle forze di polizia ed al loro trattamento economico e normativo.Innanzitutto sarebbe cosa buona rivedere e sistemare l’inquadramento e la remunerazione di questi operatori che svolgono una funzione importante e rischiosa al nostro servizio: credo non sia il caso di risparmiare nei loro confronti, senza tuttavia sorvolare sugli sprechi che sono in agguato anche in questo settore della pubblica amministrazione.Poi viene il problema del loro comportamento, della loro guida e del loro coordinamento. Non si possono dimenticare e tacere abusi, atteggiamenti gratuitamente violenti, eccessi colposi, reazioni spropositate, esibizionismi politici di un certo tipo, pestaggi, spedizioni punitive, coperture omertose, depistaggi e via discorrendo. Per queste eccezioni (?) ci sono responsabilità a tutti i livelli, che purtroppo non vengono mai scoperte e punite ma maldestramente giustificate o silenziate.Ho sempre riscontrato come ci siano due pesi e due misure nel comportamento in occasione di scontri per manifestazioni politiche rispetto ai disordini negli stadi, nella lotta alla microcriminalità rispetto alla macrodelinquenza, nella lotta contro il microspaccio di stupefacenti rispetto alle mafie che ne detengono il monopolio, nel controllo pesante sulle prostitute rispetto ai loro sfruttatori e carnefici. Mano dura coi piccoli e soprattutto con il ribellismo sociale, mano leggera con i grandi e con la delinquenza di livello e più nascosta.Non è il caso di insistere con esempi che disturbano e mettono in crisi la credibilità del sistema.Andiamo quindi adagio nella generalizzata esaltazione: onore al merito, ma senza dimenticare il resto. Soprattutto non sopporto la strisciante mentalità da sbrigativi giustizieri del giorno e della notte: non abbiamo bisogno di sceriffi tuttofare, di protagonismi da telefilm, ma di servitori dello Stato a tutela della nostra sicurezza.Non so perché, ma i ministri degli Interni mi lasciano sempre perplesso: credo siano oggettivamente impossibilitati a svolgere quella funzione di indirizzo che sarebbe loro richiesta davanti alle sfuggenti autorità di polizia, carabinieri e guardia di finanza.Se devo essere sincero non nutro alcuna fiducia nei vari capi e generali: troppe storiche infedeltà condizionano il giudizio, troppe mele marce promosse per non essere rimosse, troppi fili pericolosi con i poteri mafiosi, troppe opacità nei rapporti con la delinquenza organizzata, troppe simpatie destrorse, troppe mentalità squadristiche.Credo che chi è impegnato in prima linea nel mantenimento dell’ordine e nella lotta alla delinquenza meriti tutta la collaborazione che spesso non viene concessa. Fiducia e stima vengono dopo e faccio molta più fatica a concederla.

Istigazione al grillismo e al razzismo

Ho la quasi certezza che la stella cometa di Beppe Grillo non diventerà stella cadente per effetto delle sbruffonate di Federico Pizzarotti, l’odiato sindaco di Parma, né per i pasticci combinati da Virginia Raggi, la tollerata sindaca di Roma, ma soffrirà qualche annebbiamento a causa dei fumi neri sprigionatisi dalle risposte assurde alle detonazioni del terrorismo islamico e soprattutto a causa dell’atteggiamento che, una forza politica o antipolitica che sia, dovrà pur tenere nei confronti del fenomeno migratorio.Finora il M5S ha trovato non poche difficoltà nel calare le proprie carte sui tavoli delle amministrazioni comunali, creando confusione, dissensi, delusioni che per ora non sembrano aver intaccato la marcia elettorale trionfale (staremo comunque a vedere fin dove si spingerà l’affaire Raggi e c. e fino a quando resisterà la pazienza dell’elettorato grillino).Fin che si scherza si scherza, ma col nervo scoperto di immigrazione e terrorismo non è consentito giochicchiare allo scaricabarile. Le contraddizioni in materia sono già ripetutamente emerse: oltre agli ignobili connubi con i partiti xenofobi e razzisti a livello europeo (giustificati dalla necessità di fare gruppo in qualche modo a livello del parlamento di Strasburgo), ci fu nel 2014 la proposta grillina dell’abolizione del reato di immigrazione clandestina; non se ne fece nulla in quanto Grillo e Casaleggio senior si opposero con argomentazioni molto prosaiche, sostenendo cioè che se il M5S avesse insistito su quella proposta avrebbe ottenuto, a livello di riscontro elettorale, percentuali da zero virgola.Poi arrivò un post mandato in rete per chiedere le dimissioni di Ignazio Marino da sindaco della capitale: paventava una Roma sommersa da “topi, spazzatura e clandestini”, sfornando un elenco che la diceva lunga sulla considerazione grillina verso gli immigrati.Il 23 dicembre scorso, sull’onda emotiva dell’attentato al mercatino di Berlino, della conseguente straziante morte di una nostra connazionale, della sparatoria a Sesto San Giovanni tra due agenti di polizia e il terrorista tunisino ricercato, è apparso sul blog di Beppe Grillo un post in cui si chiedeva il rimpatrio immediato di tutti gli immigrati irregolari e la sospensione del trattato di Schengen con la chiusura delle frontiere in caso di attentati in Europa.Frasi demenziali ad effetto che accarezzano la pancia dei cittadini e che fanno cadere la maschera davanti alla quale ci si chiede se i cinque stelle siano di destra o di sinistra, antipolitici o populisti, e via discorrendo. Sembra si sia scatenata una certa dissidenza sul Grillo anti-migranti, ma non mi faccio soverchie illusioni: il M5S è Grillo, il resto è pura tappezzeria di contorno.Sarei invece curioso di valutare a caldo la reazione dei cittadini-elettori, ma anche qui non mi illudo, perché le opinioni istintive della gente sono facilmente immaginabili: la politica però non le dovrebbe assecondare o addirittura istigare, ma dovrebbe contenerle e tradurle almeno in scelte razionali, possibili ed eticamente ammissibili.La discussione sui problemi dell’immigrazione continua ad essere fondata su dati falsi: non è vero che l’Europa e l’Italia rischino di essere invasi da una marea di disgraziati (siamo a livello di percentuali da prefisso telefonico calcolate sulla popolazione totale); i rimpatri immediati e totali, oltre che ingiusti, non sono possibili per difficoltà obiettive interne all’Italia, all’Europa e nei confronti dei Paesi da cui provengono gli immigrati stessi; non è vero che la presenza sul nostro territorio di questi lavoratori comporti un danno erariale (il saldo è positivo); è destituito di fondamento pensare che gli immigrati rubino il posto di lavoro agli italiani (si inseriscono su fasce lavorative scoperte e guai se non ci fossero queste persone disposte a lavori umili, a parte il fatto che spesso vengono mal remunerate se non addirittura sfruttate e trattate come bestie); è vomitevole ritenere che i diritti di queste persone debbano essere inferiori ai nostri (chi l’ha detto, dove è scritto… Diritto alla casa… Ma se li facciamo dormire ammassati in locali affittati loro a prezzi speculativi e spesso in condizioni malsane!?); è una fandonia, smentita dai dati statistici, quella di collegare la recrudescenza delinquenziale alla presenza sul nostro territorio degli immigrati (siamo abbastanza delinquenti noi e non abbiamo niente da invidiare a nessuno); la facile equazione immigrati uguale terroristi è la solita e storica menata che ha coperto la xenofobia ed il razzismo di tutti i tempi.Il M5S si guarda bene dallo scoprire questi altarini, non gli conviene, è meglio puntare tutto sul vomito elettorale. Attenzione però, perché in tutte gli andamenti c’è un punto di rottura.Dare la colpa delle disgrazie capitoline di Virginia Raggi a Matteo Renzi, il quale avrebbe scatenato un attacco mediatico contro i grillini? A parte l’assurda pretesa di essere trattati con i guanti, di avere carezze a fronte di ceffoni, mi sembra un discorso infantile, come Adamo ed Eva, bravi e buoni, che danno la colpa dei loro errori al serpente, malizioso e cattivo. Certo l’elettore medio è meno acuto di Dio, ma qualcosa dovrà pur capire…Andare a braccetto con Matteo Salvini inserendosi a pieno titolo nell’onda populista? Mi pare una scelta azzardata, una rincorsa a chi la spara più grossa, una bolla scopertamente demagogica che, prima o poi, è destinata a scoppiare. È stuzzicante salire su una mongolfiera, si gode un panorama stupendo, ma prima o poi bisogna scendere…Se non ci fossero di mezzo l’Europa che annaspa nei problemi, le vittime del terrorismo che non si contano, gli immigrati che vivono e muoiono disperati, i romani che non sanno più a chi rivolgersi, ci sarebbe solo da mettersi sulla riva del fiume ad aspettare il cadavere di Di Maio, Di Battista, Fico e c.Grillo no, manderà tutti tempestivamente affanculo.

Parole, parole, parole…

È brutto e doloroso doverlo ammettere proprio durante i giorni natalizi grondanti pace, ma le dichiarazioni dei musulmani cosiddetti moderati suonano stucchevoli e poco credibili. La loro asserita distinzione rispetto alla violenza terroristica appare reiteratamente scontata ma inefficace. Eppure anche loro piangono innumerevoli vittime, davanti alle quali magari noi sorvoliamo egoisticamente. Tuttavia rimane l’impressione di una presa di distanza insoddisfacente, di un taglio tutto sommato relativo, del permanere di una riserva mentale, una sorta di “fratelli che sbagliano, ma…”, forse una inclinazione a “comprendere” le ragioni dei terroristi.Facendo un ardito parallelo con il fenomeno del brigatismo rosso e con l’atteggiamento di equidistanza assunto da intellettuali e militanti di sinistra nei confronti di esso, sarebbe una vera sciagura se in campo musulmano si arrivasse a parafrasare l’ambigua formula adottata nei confronti delle Brigate Rosse, trasformandola in un “né con la società occidentale né con i terroristi islamici”. Troppa comprensione arriva alla giustificazione, dice un proverbio francese: non si può negare il rischio che gli islamici moderati comprendano troppo bene i loro correligionari fanatici arrivando a giustificare tacitamente e indirettamente coloro che terrorizzano il mondo atteggiandosi magari ad angeli vendicatori di un passato di sfruttamento coloniale e di un presente dissacrante dei costumi individuali e sociali.Francamente non sono in grado di stabilire se l’album di famiglia (leggi Corano) sia sgombro da ogni e qualsiasi richiamo equivoco. Prendo per buono quanto molti teologi e studiosi di religione affermano, vale a dire che nel Corano ci sarebbe, come nei “libri” delle altre religioni, solo qualche possibilità di equivoco superabile in una visione del messaggio emergente dal testo complessivamente considerato (è utile al riguardo, senza rivendicare primazie e senza dimenticare errori enormi commessi dai cristiani e dalle loro Chiese, ricordare che il dato caratteristico della fede cristiana è quello di non essere fondata sul “libro”, ma su una persona, Gesù, Dio fatto carne, che non ha scritto regole, non ha fatto proclami, ha semplicemente vissuto da uomo-Dio e i Vangeli raccontano proprio in modo asciutto questa esistenza a cui fare riferimento).Allora la palla passa a coloro che sono deputati all’interpretazione ufficiale delle scritture islamiche: gli Imam. Qui, mi spiace dirlo, casca l’asino. Il loro comportamento non è certamente inattaccabile: parecchi sono i casi di Imam in odore di favoreggiamento o almeno di comportamento omertoso. Intorno alle moschee tira un’aria piuttosto equivoca, per non parlare delle carceri che si dimostrano autentiche palestre di avviamento alla lotta terroristica con la tacita compiacenza di Imam che sembrano giocare col fuoco dell’indottrinamento. Per stessa ammissione dei musulmani praticanti ci sarebbero degli Imam inneggianti alla violenza, che (bontà loro) le comunità islamiche presenti sul territorio sarebbero pronte a denunciare. Lo facciano in fretta e a tappeto, altrimenti perdono credibilità la loro buona fede e la loro volontà di distinguersi drasticamente.Nel giorno della festa di Santo Stefano, protomartire della fede cristiana, viene spontaneo auspicare che, una volta per tutte, si cessi di equivocare sul concetto di martirio: non è martire chi è disposto a sacrificare la propria vita per toglierla agli altri, ma chi è disposto a morire per garantire la vita agli altri. Non si può transigere, non è possibile tentennare, non è ammissibile alcuna giustificazione (né storica, né sociologica, né economica, né religiosa) per il terrorismo di qualsiasi matrice sedicente religiosa, non è consentito confondere il fanatismo religioso con la testimonianza della propria fede.Ma c’è qualcosa di più che andrebbe fatto. Occorre che la prassi religiosa islamica superi certi tabù, si apra alla società moderna, al dialogo: in estrema sintesi bisogna che i musulmani capiscano che “il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”, si carichino dell’enorme responsabilità che grava su di loro, abbandonino veramente e non a parole l’integralismo religioso e puntino ad integrarsi nella cultura della società che li ospita, cogliendo le opportunità che vengono loro offerte senza rinchiudersi nei recinti dove può regnare la confusione tra chi vuole (giustamente) solo difendere il diritto alla propria specificità di fede e chi vuole (fanaticamente) combattere la fede altrui.Nel giorno in cui si sono celebrati a Sulmona i funerali di Fabrizia Di Lorenzo, vittima dell’attentato al mercatino di Berlino, letteralmente maciullata dal camion lanciato a tutta velocità sulla gente da un pazzo scatenato in nome del dio della morte, una giovane donna oltretutto con mentalità aperta verso gli immigrati, senza alcuna prevenzione verso i musulmani, bisogna che tutti disinfettiamo le coscienze: se, cristianamente parlando, anche di fronte agli atti barbarici di terrorismo islamico devo porgere l’altra guancia, se devo chiedere perdono per tanti comportamenti sbagliati passati e presenti riconducibili a chi professa la religione cristiana, sul piano umano, civile e religioso devo pretendere che nessuno resti inerte di fronte ai macellai di sedicente ispirazione islamica.Non dobbiamo cadere nella trappola degli opposti radicalismi, della reciprocità per cui al dente dell’attentato si debba rispondere con il dente dell’espulsione generalizzata o della chiusura ermetica, della logica della decimazione riveduta e (s)corretta. Sarebbe il disastro totale e finale a cui puntano i terroristi islamici. Davanti a tante vittime innocenti forse viene spontaneo provare a livello di subconscio un senso di repulsione, un desiderio di vendetta. Dobbiamo togliere dalle nostre menti questi assurdi pensieri, non dobbiamo dare il minimo ascolto a questi insani propositi, ma possiamo chiedere ai nostri fratelli di fede musulmana (uso volutamente il termine fede e non quello di religione) che alle parole di condanna facciano seguire i fatti, prima che i fatti smentiscano le parole e la Parola.

La più grande provocazione della storia

Cerco di stare in linea con il messaggio natalizio che va controcorrente (cosa c’è più controcorrente di un Dio che si fa uomo) e voglio di seguito sviluppare, parafrasare e, in un certo senso, politicizzare la riflessione che ho inviato ad alcuni amici.Il Natale se non è profondo è solo un’occasione per intristirci e demoralizzarci.In esso si scontra la grandezza di Dio che si fa piccolezza con la nostra piccolezza (direi nullità…) che vuol farsi grandezza (che becco di ferro abbiamo!): un incrocio pericoloso da cui si esce solo rinunciando alle nostre mire, altrimenti è veramente triste vivere un Natale che rischia di sprofondarci e lasciarci nel nostro nulla (da cui emergono rimpianti, rimorsi, ricordi: tutto pieno di tristezza).Una bella provocazione per tutti, ma soprattutto per i potenti della terra (si ritengano o siano ritenuti tali). In particolare vorrei indirizzarla a due personaggi inquietanti sullo scenario mondiale: Trump e Putin, i due contemporanei, emblematici Re di ingiustizia e di guerra. Sulla loro sanguinosa scia camminano e si lasciano trascinare in molti, tutti coloro che, a livello di vertice ma anche di base, amano il percorso facile del potere a tutti i costi.Coloro che hanno accolto Gesù hanno saputo fare un percorso diverso, a rovescio.Giovanni Battista nella sua radicalità ha capito e si è fatto da parte.Imparino da lui tutti gli integralisti religiosi (islamici, ma non solo islamici) che pensano di dar lode a Dio imponendo i dogmi e le regole, mettendoli prima delle persone umane e caricandoli sulle loro spalle, quanti giudicano in base alle loro bigotte classifiche, quanti obiettano più per proprio comodo religioso che per umana solidarietà .Lui, dopo aver pagato di persona, si è eclissato lasciando la parola e la testimonianza a chi la sapeva molto più lunga; troppi pontificano, squalificano, condannano ritenendo di avere la verità in tasca.Maria ha accettato di “sputtanarsi” pur di partorire questo bambino speciale.Penso sia il più moderno appello alla maternità e paternità responsabili, al rispetto della vita partendo dalla coscienza delle persone e non prevaricandola con assurdi, freddi e rigidi precetti. Maria non ha fatto chiacchiere inutili, si è rimboccata le maniche, ha pedalato, alla faccia di quanti si riempiono continuamente e chiccamente la bocca di famiglia, pensando di difenderla con i proclami e i divieti.Elisabetta si è fidata di una gravidanza sui generis e di una cuginetta che diceva cose grandi.Da queste due donne e madri tutte speciali viene un perentorio invito al rispetto della dignità e del ruolo femminili in tutte le Chiese e le società. Da queste due coraggiose protagoniste (non spettatrici) della venuta di Gesù in terra si ricava la convinzione che le religioni e gli ordinamenti statuali saranno sempre carenti e deficitari se non sapranno aprirsi e conformarsi alla ricchezza dei valori della donna. Violenza, terrorismo, guerre, cattiverie varie aspettano di essere redente anche e soprattutto dal contributo delle donne.Giuseppe ha rinunciato al suo maschilismo pur di far parte di questa strana famiglia di Nazaret.Un eloquente messaggio a tutti gli uomini che si sentono padroni delle donne, a tutti coloro che abusano, sfruttano, strumentalizzano, disprezzano, discriminano sessualmente altre persone.I pastori sono usciti dalle loro tane fatte di sporcizia, isolamento e condanna pur di curiosare su cosa stava accadendo.Il loro gioioso coinvolgimento è un monito contro ogni e qualsiasi emarginazione operata sulla base di etnia, razza, religione, condizione sociale.I Magi hanno messo la loro  fantascienza a servizio di un Dio lontano mille miglia dalla loro impostazione.Un segno di forte riconciliazione con tutti gli estranei alle nostre culture, ai nostri schemi, ai nostri modelli, al nostro modo di vivere.Anna e Simeone si sono accontentati di provare il brivido della salvezza agognata.Una piena e totale riabilitazione per le persone anziane che riescono a coniugare una fervida speranza sulla base dei loro collaudati valori con il sano realismo frutto della loro esperienza.Poi alla fine della vicenda umana di Gesù sarà più o meno la stessa cosa: al posto di Elisabetta ci sarà Maria Maddalena che si fiderà di un uomo talmente straordinario  nei confronti delle donne da non poter essere che Dio; al posto dei pastori il ladrone capace di accettare la sua punizione e di metterla nelle mani di un Innocente, di affidarsi alla pazienza infinita di uno che sa morire in silenzio senza curarsi dei vomitevoli oltraggi di chi non sa quel che fa; al posto di Erode un centurione romano che sa stupirsi di fronte a quanto sta avvenendo e lo ammette candidamente a costo di fare la figura del credulone.Come si può facilmente arguire, Natale e Pasqua sono le due facce della stessa medaglia cristiana. In mezzo ci stanno i pastori (lerci soggetti), i lebbrosi (gli impuri), le prostitute (donnacce da disprezzare), i pubblicani (squallidi ladri in doppiopetto di allora), l’adultera (una donna da lapidare), la samaritana (una irregolare per antonomasia), i ciechi (tenuti ai margini della società), i poveracci, gli scartati, gli ultimi della pista, i ruderi dell’umanità.Poi c’erano gli scribi, i farisei, i leviti, le brave persone. Gesù si è schierato apertamente fregandosene altamente della Chiesa di allora.In mezzo ci sta la Chiesa di oggi con le sue contraddizioni (non me ne scandalizzo), con la presunzione di salvare gli uomini a suon di regole e precetti (mi danno molto fastidio). Faccio una “faziosa” ma significativa esemplificazione: niente pillole del giorno dopo (per la verità nemmeno quelle del giorno prima), niente aborto volontario nemmeno nei casi più estremi di violenza subita, niente eutanasia nemmeno nei casi di malati terminali con le loro sofferenze atroci. Gesù non era uno scienziato, non era un teologo, non era un prete e su questi temi eticamente sensibili, su questi argomenti caldi, sui cosiddetti principi irrinunciabili (quante rinunce alla carità ha fatto la Chiesa nei secoli…) non ha detto niente.In compenso ha narrato la parabola del Padre misericordioso, la più eloquente sull’atteggiamento divino nei confronti della creatura umana. Provo a mettere al posto del figlio prodigo un malato terminale (il caso più clamoroso che in un certo senso li riassume tutti). Non ce la fa più a sopportare il dolore, è disperato, non trova più la forza di vivere e dice fra sé: «Voglio tornare da mio padre, perché non riesco più ad andare avanti così…». Il padre commosso lo accoglierà a braccia aperte e gli dirà: «Ti aspettavo, ho visto che non riuscivi più a reggere la situazione e hai fatto bene a tornare, è tutto finito, ora sei con me e voglio che tu sia felice con me, non ci lasceremo più…». Ci sarà anche il figlio rompicoglioni che insorgerà e protesterà: «Ma tu non ci hai insegnato che la vita è sacra e che solo tu ce la puoi dare e togliere…». E allora il padre ribatterà: « Tu hai fatto tutto quel che potevi per alleviare le sofferenze di questo tuo fratello? Questo era il tuo compito. Tocca a me giudicare se questo tuo fratello non riusciva più umanamente a vivere, solo io posso capirlo perché ho sofferto con lui e per lui e ora lo prendo con me nella vita eterna che gli ho conquistato sulla Croce». E si farà festa…Urge schierarsi intanto che siamo ancora in tempo e non è detto che si debba stare sempre dalla parte del manico ecclesiale (io preferisco farmi male con la lama evangelica).Non sono sicuro di riuscirci, non so se fare riferimento ai pastori per uscire dalle schifezze della mia vita; se pensare a Giuseppe per capire che il sesso è qualcosa di molto  grande; se guardare ai Magi per ridimensionare le mie spinte pseudoculturali;  se affidarmi a Maria per smettere di voler sapere e capire tutto perché basta e avanza credere a Dio; se consolarmi come il ladrone nell’ultima fase della mia vita.Certamente non voglio fare la parte del figlio benpensante e voglio mettermi accanto a tutti quei personaggi evangelici che ho citato e che hanno capito che quell’uomo nato in una stalla e morto sulla croce era Dio. Il resto viene (dovrebbe) venire da sé.

L’angelico diesel del Senato

Il clima politico italiano è molto avvelenato: alle obiettive difficoltà, alle drammatiche contingenze, alle notevoli incertezze e alle discutibili e censurabili vicende si aggiunge una gratuita cattiveria dovuta all’assedio giuridico al limite della barbarie, all’accanimento dei media al limite della calunnia, alla macchina del fango che sta colpendo ad alzo zero con effetto boomerang sugli stessi promotori delle iniziative più spregiudicate. Tutto ciò ha poco a che fare con lo scontro politico: sulla mancanza di laurea di una ministra si imbastisce una assurda telenovela; dalla frase oltre le righe di un ministro si arriva alle minacce di morte per suo figlio; vengono sbattuti in prima pagina gli avvisi di garanzia notificati a mezzo stampa; le insinuazioni si sprecano; gli attacchi, in un crescendo rossiniano, spargono malignità un giorno sì e l’altro pure. Se questo, come sembra, è anche uno dei risultati del No al referendum (non del referendum in sé), sono sempre più contento di aver votato Sì.Questo marasma oltretutto rischia di fare il gioco dei veri colpevoli di gravi comportamenti, che alla fine riescono a nascondersi agevolmente in questa nebbiosa atmosfera da caccia alle streghe.A maggior ragione ho letto quindi con interesse un dossier giornalistico in materia politica, per la precisione in materia di “chi lavora nelle Camere”: pur con qualche inevitabile accentuazione polemica e provocatoria, viene riportato il clima al giudizio sui parlamentari nel loro effettivo modo di lavorare. Quasi una boccata d’ossigeno nel rovinoso dibattito: c’è chi ne esce bene e chi ne esce male o addirittura malissimo, ma il tutto almeno su dati obiettivi riguardanti il funzionamento delle nostre istituzioni.Quando mi capita di pensare al duro lavoro di Parlamentare (ho avuto l’opportunità di conoscere alcune persone che hanno svolto o svolgono questo ruolo), so di viaggiare in controtendenza, considerando con grande rispetto questo importante servizio che Paolo VI considerava la più alta forma di carità cristiana, mentre molti pensano (e non sempre purtroppo sbagliano…) ad un esercito di opportunisti, profittatori, sanguisughe, alla ricerca di benefici economici spropositati o almeno sproporzionati rispetto al lavoro svolto.L’ultimo affondo qualunquista arriva a prevedere che la durata della legislatura, messa in forse dal trambusto post-referendario, dalle smanie populiste di molti e dalla giustificata, comprensibile ma forse esagerata smania di rivincita di Matteo Renzi, arriverà almeno fino a settembre 2017, non tanto per la “cocciutaggine” istituzionale di Sergio Mattarella, né per la sovrapposizione di continue emergenze europee e mondiali, ma per l’ostruzionistica manovra dilatoria che mirerebbe a questo termine minimo per far scattare in capo ai parlamentari novelli il diritto al minimo della pensione. Non voglio credere a questi miseri calcoli di bottega, ho troppo rispetto per l’istituzione parlamentare e per chi in essa opera per lasciarmi coinvolgere in queste insinuazioni.Per quanto riguarda il numero dei parlamentari ho anch’io da tempo il forte dubbio che sia eccessivo: la dimensione quantitativa delle due Camere era stata concepita in un momento storico, diverso dall’attuale, in cui prevaleva il bisogno di ripristinare la democrazia e quindi di capillarizzare e rinsaldare i legami tra elettori ed eletti. Oggi la rappresentanza, la conoscenza e la comunicazione avvengono con altri criteri, gli schemi lavorativi sono cambiati, i rapporti, almeno in teoria, sono resi più facili e alla portata di tutti.Nella mia mentalità non ho mai dato troppa importanza al trattamento economico riservato a deputati e senatori, ritenendo che debba essere dignitosamente adeguato alle loro responsabilità ed al loro impegno. Per tutti coloro che rivestono cariche pubbliche deve valere il presupposto di poter contare su un corrispettivo che, senza scadere nel privilegio, li metta al riparo dalle inevitabili tentazioni a livello di concussione, di comportamenti clientelari, dell’affarismo in genere. Non credo che qualitativamente e quantitativamente la lotta agli sprechi trovi il suo punto decisivo nei costi della politica, anche se il buon esempio non guasta mai e la trasparenza e la correttezza dovrebbero mettere in grado i cittadini di effettuare un sano calcolo di costi/benefici anche per il funzionamento delle istituzioni democratiche senza indulgere a pericolose e fuorvianti generalizzazioni.Ecco perché, pur nella relativa attendibilità dei parametri utilizzabili, ma nella forte valenza delle elaborazioni peraltro abbastanza sofisticate e credibili (fare il deputato o il senatore non è come lavorare ad una catena di montaggio), è da considerare seriamente il dossier che il settimanale “L’ Espresso” ha pubblicato sulla produttività dei parlamentari.Al di là della scontata ma eloquente contrapposizione tra politici e politicanti, al di là dei numeri che in certi casi assumono un rilievo sconvolgente (si pensi all’assenteismo piuttosto pesante ed esteso che viaggia su percentuali vergognose per arrivare ad un caso limite dello 0,84 per cento di presenze), al di là del fatto che non basti la pura presenza in aula e/o in commissione e nemmeno l’intervento diretto nel dibattito, leggendo magari un asettico compitino, per misurare la produttività di un parlamentare (non è sufficiente quindi timbrare il cartellino), dall’inchiesta di cui sopra emergono dati interessanti ottenuti in base ad un mix di parametri che finalmente arriva a premiare chi svolge realmente la funzione legislativa (non si deve dimenticare infatti che il prodotto principale, ancorché non esclusivo, della “fabbrica parlamentare” sono le leggi) con riguardo soprattutto alla funzione di relatore dei provvedimenti di legge (in particolare quelli di emanazione governativa che rappresentano l’80 per cento dell’intera produzione legislativa).Mi sono sempre chiesto se forse i parlamentari non facciano di tutto meno che preoccuparsi di fare buone leggi (riunioni infinite di partito, viaggi, missioni, etc. etc.). Questa indagine riporta finalmente il lavoro parlamentare alla propria essenza istituzionale e lo misura sulla base dei risultati legislativi ottenuti.In queste articolate e diversificate classifiche emerge, oserei dire giganteggia, la figura di un senatore di prima nomina (un peone quindi), il quale, pur ricoprendo un solo incarico presidenziale a livello di commissioni (Commissione Contenziosa, un organo di garanzia che non offre le opportunità politiche delle commissioni di merito), sbaraglia tutto il campo, anche dei potenti (quelli che parlano a raffica nelle televisioni e si atteggiano a protagonisti della vita politica), potendo vantare di partecipare a ben sei commissioni, di essere stato relatore a ventidue provvedimenti, di essere stato firmatario di sedici proposte di legge e cofirmatario di altre duecento, senza peraltro dimenticare di essere un parmigiano verace e quindi riuscendo a far approvare da Palazzo Madama il disegno di legge che finanzia annualmente il Festival Verdi, di essere stato un punto di riferimento importante e concreto dell’attività di governo senza farne parte direttamente.Si tratta del senatore Giorgio Pagliari, docente di diritto amministrativo all’Università di Parma, avvocato, amministratore di importanti enti pubblici, ex consigliere comunale ed ex assessore provinciale in quel di Parma, dove solo la miopia e la burocrazia dei bersaniani di turno lo ha stoppato nella trionfale scalata come sindaco al comune di Parma compiendo il “capolavoro” di spianare, nell’ormai lontano 2012, la strada al grillismo regalando un insperato successo al tanto discusso Federico Pizzarotti.Non so fino a qual punto Pagliari sia catalogabile come catto-renziano della prima ora (così lo definisce, peraltro bonariamente, Susanna Turco su L’Espresso): questa definizione nasce probabilmente dal contributo dato sul tema delle unioni civili, in cui è stato l’ala “laica” dei cattolici; non è un renziano della prima ora, né come tale ha mai cercato di accreditarsi. Forse in Senato è considerato così perché, condividendo il merito, è stato chiamato più volte a difendere in aula la riforma costituzionale e la “buona scuola”, nonché a gestire la riforma della Pubblica Amministrazione. Una cosa è certa: che nelle commissioni importanti non è finito perché renziano, ma per le qualifiche professionali.Conosco e apprezzo la sua ispirazione cristiana temperata da un concetto laico della politica nel solco della tradizione dei migliori esponenti del cattolicesimo democratico; più volte ho ragionato con lui del significato culturale e della portata politica del cosiddetto renzismo di cui apprezza e condivide spinta innovatrice e concreta capacità di governo pur non sottovalutando limiti e difetti di questa nuova impostazione politica riscontrabili nella limitatezza quantitativa e qualitativa del gruppo dirigente ruotante attorno all’indiscutibile e carismatico leader e, quale causa/effetto di ciò, nell’insufficiente radicamento territoriale a livello di partito. Credo non sia possibile farlo rientrare nel cosiddetto “giglio magico”: non è nel suo stile aderire acriticamente ad un gruppo e quindi mi sembra che, pur alla luce delle precisazioni di cui sopra, la definizione di “renziano” gli possa stare un po’ stretta anche se affibbiata in contrapposizione a coloro che tardivamente sono saliti sul carro per avere benefici più che per portare contributi.Nel caso di Pagliari ciò che lo qualifica non è tanto l’appartenenza o meno ad un gruppo o ad una corrente di partito, ma il fatto che sia stato capace di tenere produttivi rapporti tra governo e parlamento in una benefica osmosi e in un periodo in cui sembra essere premiante la vuota e triviale polemica tra le stesse istituzioni.Giorgio Pagliari fa parte dei parlamentari che conosco e quindi non posso che testimoniare a suo favore a conferma degli eloquenti numeri della sua classifica. Una soddisfazione per lui, per il suo partito (Pd), per la sua città (Parma), per i suoi elettori ed estimatori (tanti), per chi crede nella politica alta (ha avuto maestri indimenticabili), per chi esige che in Parlamento trovino posto preparazione, professionalità, esperienza, sensibilità e forti legami col territorio.Va di moda parlar male dei politici, ci si diverte a trovarli in castagna, li si considera, nel migliore dei casi, un male necessario: non mi associo a questo rosario denigratorio, anche se non sono solito risparmiare critiche (a volte molto dure) a nessuno. Forse in buona parte dipende dall’esempio (a me ben noto prescindendo da “L’Espresso” talent scout) di questo senatore diesel, di questo secchione, di questo peone, che batte due a zero i potenti, i mestieranti, i capaci di tutto che finiscono per non essere buoni a nulla: mi consola e mi “costringe” alla fiducia verso la Politica (con la “p” maiuscola) .

Dimissionite sub-acuta

Che in Italia stia montando un clima giudiziario da caccia alle streghe penso sia un dato oggettivamente fuori discussione. La Magistratura sta cavalcando la situazione di vuoto politico finendo, volontariamente o involontariamente, per colmarlo con la squalifica della classe politica: dopo di che avremo un deserto senza oasi, senza cammelli, senza cammellieri, in cui rischieremo di morire di sete.La nostra politica è indubbiamente malata di incapacità, di incoerenza e di corruzione, ma stiamo attenti a buttare a mare tutto, perché, come diceva Gianni Agnelli, a rifare una classe dirigente occorrono vent’anni. Sono passati dalla prima tangentopoli e non si è rifatto un bel niente: il renzismo, checché se ne dica, era un seppur pallido tentativo in tal senso ed è stato (per la verità non ancora completamente) buttato a mare proprio perché in molti hanno capito che l’aria stava cambiando pericolosamente e c’era il rischio di rimanere sepolti sotto le macerie. Meglio quindi difendere i ruderi.In questa battaglia la magistratura svolge un ruolo schizofrenico dando sistematicamente colpi anticorruzione al sistema e nello stesso tempo difendendolo corporativamente: non credo ci sia un disegno se non quello di mandare a dire che il sistema va cambiato, ma la magistratura non si tocca. Chi fa discorsi settari di questo genere mi fa paura…La politica però deve trovare un rigurgito di vitalità e di onestà intellettuale rispondendo per le rime. Come? Mi sembra superfluo dire che si deve smettere di rubare e di combinare casini: è il minimo. Ma occorre anche rispondere in modo adeguato ai provvedimenti giudiziari.Il garantismo è un punto imprescindibile, ma in questi ultimi giorni abbiamo avuto tre fatti che connotano in modo assai diversificato i rapporti tra politica e magistratura.Il sindaco di Milano Giuseppe Sala, di fronte ad una indagine che si riapre a suo carico, si autosospende in quello che molti hanno giudicato (me compreso) un eccesso di zelo o una excusatio non petita. Ha voluto innanzitutto sottolineare come bisogna farla finita con gli avvisi di garanzia a mezzo stampa; poi ha voluto capire su cosa fosse fondata questa nuova indagine e su quali ipotesi di reato. Fatte queste verifiche ha ritenuto in coscienza di ritornare al suo posto.La sindaca di Roma Virginia Raggi, sepolta sotto una valanga di vicende legalmente poco chiare e di personaggi chiacchierati e indagati (addirittura uno è stato arrestato), non ha ritenuto al momento di fare un passo indietro, è rimasta al suo posto nonostante il fuoco politico amico, nonostante le giornaliere complicazioni amministrative e legali, nonostante a suo carico si profilino all’orizzonte sviluppi poco simpatici.Il senatore Roberto Formigoni viene condannato dal tribunale di Milano (quindi in primo grado) a sei anni di reclusione e altrettanti di interdizione dai pubblici uffici per concorso in corruzione nel periodo in cui era presidente della Regione Lombardia. Gli vengono confiscati inoltre beni (case, denaro, auto e villa) per 6,6 milioni di euro. Decide di rimanere sul suo scranno di senatore e presidente di una commissione senatoriale.Non intendo sfrugugliare nella coscienza di questi personaggi, né ergermi a paladino dell’onestà altrui, voglio prescindere anche dalle mie simpatie personali e politiche. Mi sembra tuttavia che esista una gamma un po’ troppo diversificata in questi atteggiamenti: andiamo dalla miglior difesa che sarebbe l’attacco, al puro gioco di rimessa, al catenaccio difensivo. Tre tattiche molto diverse per tre situazioni diverse. Sarebbe forse il caso di trovare, più a livello di etica che di norme di legge, comportamenti omogenei che tengano conto comunque delle diverse situazioni.Non trovo nessuna soddisfazione nel vedere i politici sul banco degli imputati, ancor meno se rischiano seriamente il carcere. Del male altrui mi dispiaccio, non giudico e non condanno nessuno. Tuttavia un po’ più di dignità non guasterebbe: non si tratta di ammissione di colpa, ma di rispetto degli elettori e della fiducia che essi hanno espresso col voto. Il garantismo non si discute, non sono affetto da dimissionite acuta, resta tuttavia un serio e grave discorso di opportunità politica a salvaguardia della politica stessa.È stato chiesto a Roberto Formigoni come vivrà dopo i sequestri. Ha risposto con inutile sarcasmo: «Con poco, visto che da gennaio per un’altra vicenda mi hanno confiscato anche metà dello stipendio da senatore. Oltre ai cinque appartamenti a Lecco ereditati dai miei genitori nei quali vivono mia sorella e mio fratello. Vivrò con poco. Del resto, ho sempre fatto una vita morigerata».Non aggiungo commento!

Angeli e demoni

“Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi”. Queste sono le parole sui giovani italiani andati a lavorare all’estero, pronunciate dal ministro del lavoro Giuliano Poletti, che hanno scatenato una tempesta a livello mediatico, culminata in una mozione di sfiducia presentata da alcune forze di opposizione a livello parlamentare, accompagnata dal solito ricattino della sinistra dem (pronta a sfruttare l’occasione per la solita battaglia di retroguardia, questa volta sulla riforma del mercato del lavoro) e da una certa piccata reazione da parte dei giovani del partito democratico, forza politica a cui aderisce il ministro sotto pressione.Sarei curioso di capire bene cosa intendesse dire il ministro, il quale non ha spiegato i motivi di questa sparata, ma si è precipitato ad autosmentirsi e a scusarsi. Una semplice gaffe? La cosa non mi convince: tutti possiamo sbagliare ed esagerare nei nostri giudizi. A me capita spesso di esprimermi in modo provocatorio, finalizzato soprattutto a far emergere ed esplodere il dibattito su un problema reale che magari tende a rimanere sotto traccia. Da un ministro si pretenderebbe un certo senso di responsabilità, anche se su questo argomento non è il primo uomo di governo che interviene con espressioni piuttosto pesanti: dai “bamboccioni” di Tommaso Padoa Schioppa e Mario Monti agli “schizzinosi” di Elsa Fornero per finire coi “pistola” di Giuliano Poletti. Ho sempre pensato che in queste irridenti definizioni ci fosse una abbondante cucchiaiata di cattiveria senile, ma anche una punta di verità sociale. Sarebbe ora di rientrare dalle continue ed insistenti scorribande verbali di un linguaggio e di uno stile politici da caserma, ma certe puntate provocatorie non sono necessariamente da censurare, considerato il fatto che nel caso specifico chi finge di scandalizzarsi ne spara a raffica di tutti i colori.Giuliano Poletti prima di essere uomo di governo è uomo che conosce direttamente il mercato del lavoro per averlo vissuto sul fronte imprenditoriale di Legacoop, non è quindi uno sprovveduto e non mi sembra un vuoto fanfarone alla ricerca di effettacci mediatici.Desumo che volesse, seppur polemicamente e provocatoriamente, lanciare alcuni messaggi. Azzardo ipotesi.Forse intendeva dire che molti giovani latitano nelle università senza studiare e facendo spendere inutilmente un sacco di quattrini ai loro genitori? È vero, ho l’occasione di osservarli nelle loro abitudini goliardiche e sono portato a stupirmi dello spirito di sopportazione dei loro genitori (mio padre e mia madre se avessi menato il can per l’aia mi avrebbero immediatamente tagliato i viveri e costretto a cambiare registro).Forse intendeva dire che i giovani, anziché ripiegare sulle facili ricette dell’antipolitica e sui semplicistici No, sarebbe meglio che si impegnassero politicamente e costruttivamente, non per tornare al ’68 ma nemmeno per portare acqua al mulino populista.Forse intendeva dire che parecchi giovani non hanno alcuna capacità di adattamento al mercato del lavoro e rifuggono da certe mansioni di basso livello, non si adattano a profili professionali lontani dai loro titoli di studio, non accettano modalità, tempi e procedure di grande sacrificio, si adagiano sull’aiuto di genitori e nonni illudendosi e illudendoli sull’avvento di tempi migliori, non hanno la mentalità del lavoro che spesso occupa un posto secondario nella loro scala di valori, si intestardiscono su scelte scolastiche campate in aria preludio a sicure e scontate disoccupazioni intellettuali.Forse pensava che i giovani emigranti in cerca di lavoro non sono necessariamente migliori di quanti scelgono di rimanere in Italia, non sono tutti stacanovisti o vittime sacrificali o cervelli sopraffini, ma anche personaggi in cerca di fortuna, di lavoro leggero e di guadagno facile.Forse pensava che nell’era della globalizzazione dobbiamo rassegnarci a considerare normale una certa mobilità che vada al di là dei confini nazionali.Forse pensava che le generazioni passate (che oggi vengono considerate come privilegiate nelle loro certezze (?) pensionistiche), per arrivare a certi risultati sul piano professionale ed economico, si sono fatte “il mazzo”, hanno sgobbato ben più di quanto siano disposti a fare certi giovani d’oggi.Forse pensava che la nostra scuola (corporativamente impermeabile ad ogni e qualsiasi tentativo di riforma) e la nostra università (imprigionata in logiche baronali e massoniche) non riescono ad aprirsi a validi giovani docenti e ricercatori e non si raccordano col mercato del lavoro e i suoi andamenti, sfornando figure professionali senza possibilità di domanda, privilegiando profili didattici antiquati, selezionando gli allievi in modo sbrigativo e superficiale.Forse pensava che la crisi occupazionale non ha confini, è problema mondiale che risale alla crisi economica e alla necessità di lunghe e faticose conversioni produttive, che risente delle ristrettezze della finanza pubblica e dell’allungamento dell’età pensionistica, che soffre della messa in discussione a tutti i livelli del welfare, che dipende da enormi ritardi culturali e politici.Forse pensava che un ministro del lavoro non ha la bacchetta magica per creare nuovi posti di lavoro e che molto se non tutto dipende da nuovi investimenti produttivi a livello privato e pubblico e che il governo Renzi, che, pur con tutti i limiti, si stava impegnando in tal senso, è stato mandato a casa e chi l’ha mandato a casa soffia sul fuoco del malcontento giovanile.Forse pensava che i sindacati dei lavoratori dovrebbero fare la scelta dei giovani e non dei pensionati o degli occupati come, tutto sommato, dimostra l’insistenza nella difesa di certi totem del passato (vedi referendum per cancellare sostanzialmente gran parte dell’avviata riforma del lavoro, un ritorno al passato che non aiuterebbe minimamente i giovani in cerca di occupazione).Forse pensava che i problemi del lavoro non si risolvono cancellando i voucher e facendo gli schizzinosi sui diritti dei lavoratori, finendo col difendere chi il lavoro ce l’ha e ostacolando chi non ce l’ha.Forse pensava che in questo Paese bisogna smetterla di fare demagogia per affrontare concretamente i problemi, rimuovendo l’inefficienza e la clientela dalla pubblica amministrazione, promuovendo meccanismi di selezione e di carriera che premino il merito.In conclusione non credo che Giuliano Poletti sia il demone politico (affamatore del popolo giovanile) che si scontra con gli angeli (i giovani puri e belli cerca di lavoro) e che meriti di essere precipitato negli inferi da improvvisati redentori di facili costumi.Tuttavia, se voleva esprimere tutti questi legittimi dubbi e queste pertinenti opinioni, doveva essere più chiaro e trasparente a costo di dare le dimissioni o di avere la sfiducia del Parlamento, non su una frase più o meno maliziosa, ma su un discorso complessivo. A volte è meglio andare a casa nella chiarezza che rimanere in carica nell’equivoco ingoiando rospi assurdi.