Qui si fa l’Europa o si muore

Chi diceva che la Brexit avrebbe aperto inesorabilmente la strada al tentativo di disintegrare l’Europa, aveva visto giusto. Si sta profilando un uscita totale, contrattata a suon di ricatti da una Gran Bretagna in retromarcia dalla globalizzazione: di questo assetto punterebbe a salvare, per ora solo a livello di minaccia (un attrattivo paradiso tributario ai confini della Ue), il difetto più grave, il privilegio feudale-fiscale del turbo capitalismo, causa primaria di disuguaglianze e impoverimento del ceto medio. Siamo ben oltre il tatcherismo, si intravede una sorta di guerra fredda non più tra Usa e Russia, ma tra Gran Bretagna (appoggiata da Trump) ed Europa (divisa, litigiosa, zavorrata).Questo approccio duro alla Brexit da una parte sta dando un ulteriore “la” a tutti i movimenti e gli Stati populisticamente euroscettici rafforzandone il consenso e rendendo legittime le loro aspirazioni; dall’altra sta dando a Trump, sul piatto d’argento anglosassone, una occasione e una sponda cavalcabili fino al punto da spingerlo a lavorare per la fine dell’Europa, offrendo a Londra, in quanto secessionista, un rapporto privilegiato a condizioni di favore, auspicando che gli altri Stati europei seguano il virtuoso esempio inglese, rimettendo financo in discussione la Nato e chiedendo di conseguenza ai partner europei di provvedere progressivamente, nella maggior autonomia possibile, all’autodifesa e alla sicurezza. Le due conseguenze suddette (euroscetticismo e asse GB-USA) si sostengono reciprocamente in un inquietante connubio antieuropeo condito dall’antiglobalizzazione, dal populismo, dal nazionalismo e dal protezionismo. Come acutamente sostiene Corrado Augias, “la desinenza in ‘ismo’ indica l’esasperazione di un fenomeno o un’ideologia che portata al suo estremo genera disastri.E l’Europa? Non trova di meglio che litigare al suo interno. Il punto dolente, a cui tutte le schermaglie sono riconducibili, può essere individuato nel trattato del 2012 che imprigiona l’eurozona in una trappola mortifera, costringendo gli Stati membri alla cosiddetta politica dell’austerità, vale a dire una politica restrittivamente volta alle esigenze di quadratura dei bilanci e di riduzione del debito pubblico, che impedisce di investire sul futuro e di imprimere le giuste spinte alla sviluppo dell’economia e dell’occupazione. Il fiscal compact rischia di essere la cura che ammazza l’ammalato, costringendolo a dimagrire, indebolendo il suo organismo e finendo col rendere letale l’intervento sanitario: l’operazione è riuscita, ma l’ammalato è morto.L’Italia è sotto stretta osservazione da parte dei “sanitari europei”, viene pressata affinché rientri nei parametri: questi signori (sappiamo bene a quale area geografica appartengono) continuano imperterriti a chiedere sacrifici a chi non li può fare, pena un progressivo ristagno dell’economia con tutte le conseguenze del caso. Non c’è verso di ragionare: bisogna osservare le regole che vengono prima dell’Europa, degli Stati e dei cittadini. Una mentalità tipicamente tedesca, che, se fosse stata applicata con simile severità alla Germania del dopoguerra, l’avrebbe relegata per secoli nel sottoscala del mondo. Ma sono passati più di settant’anni e chi ha avuto ha avuto…Tutta la vita politica europea gira attorno a questo nodo, senza alcun impegno serio di affrontarlo e scioglierlo. Anche il rinnovo della Presidenza del Parlamento di Strasburgo poteva essere l’occasione per segnare la contrapposizione fra due diverse impostazioni finora nascoste sotto la finta copertura della grande coalizione tra le due principali famiglie europee, i socialisti e i popolari, in nome della resistenza verso l’antieuropeismo, senza capire che l’equivoco accordo, che lascia irrisolto il problema di fondo “austerità-sviluppo”, finisce proprio col fare il gioco del populismo antieuropeista. Si è preferito volare basso con accordicchi spartitori: presidenze, vicepresidenze, commissioni etc. etc. Vizi, che, portati in sede Ue, suonano ancor più beffardamente a squalifica della politica intesa in senso lato.Angela Merkel fa la voce grossa con Trump affermando che”noi europei siamo padroni del nostro destino”, salvo cedere regolarmente il pallino ai suoi connazionali e colleghi di partito più inflessibili in materia di fiscal compact con tutto quel che segue, disposta a sacrificare tatticamente la grande coalizione in Germania ed in Europa (ma forse tutto il mal non vien per nuocere, come diremo fra poco).In Francia non si ha il coraggio di reagire alle imposizioni nord-europee e si preferisce fare un penoso balletto di contorno alla Germania. Anche le prossime elezioni presidenziali si profilano nel senso di una difesa acritica dei meccanismi europei, rischiando un perfetto assist ai populisti della Le Pen.In Italia l’uscita, seppur momentanea (?), di scena di Matteo Renzi – non certo compensata dalla salita alla presidenza del Parlamento dell’italiano e popolare (nel senso di partito) Antonio Tajani, un berlusconiano camuffato, che nel suo sito web personale non cita Forza Italia e non fa alcun cenno al Cavaliere a cui tutto deve – ha significato un passo indietro rispetto alle spinte impresse alla politica italiana in ambito europeo volte ad ottenere flessibilità (in materia di conti), sostegno (in materia di immigrazione) e rispetto (in materia di classe dirigente). Non è un caso che all’indomani della sconfitta renziana al referendum (è stata concessa solo una pausa natalizia) dalla Commissione europea siano arrivati all’Italia degli out-out in materia di deficit con decise richieste di ridimensionamento della politica di bilancio recentemente approvata. Persino sul presunto inquinamento delle auto Fca è scoppiata una vera guerra diplomatica tra Germania (scottata dallo scandalo dieselgate della Ww) e Italia, nella quale si è inserita la Commissione di Bruxelles schierandosi di fatto con i tedeschi. Cosa può fare una superficiale croce su uno strumentale No…E i socialisti europei? Un giorno sembrano capire (Sigmar Gabriel, leader della Spd) che l’intransigenza tedesca sulla linea del rigorismo contabile rischia di avere effetti disgreganti sui Paesi dell’Unione perché favorisce il successo elettorale di quei movimenti che puntano al collasso della costruzione continentale: sembrerebbe farsi cioè strada l’orientamento di accantonare le grandi coalizioni in Germania e in sede Europea, reagendo politicamente all’insopportabile arroganza dei tolemaici dell’austerità. Il giorno successivo, forse dopo aver fatto i conti con una debolezza elettorale notevole, i socialisti si ricredono e ripiombano nella logica del compromesso, cercando magari di spostarlo più a loro favore in termini di poltrone. I democratici italiani, facenti parte della famiglia socialista, hanno giocato un ruolo di spinta, seppure talora in stile “gianburraschesco”, ma ora il Pd ha perso peso e considerazione.Chi ha la forza morale, il coraggio istituzionale e l’equilibrio esperienziale per affrontare il nodo rigore/sviluppo è il Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, il quale riesce a dipanare la matassa ingarbugliata, prospettando candidamente che Bruxelles sia rigorosa a trecentosessanta gradi: «Il rigore non può valere solo per i conti pubblici, ma anche sugli altri parametri che la stessa Unione si è data, a cominciare dalle misure per la ripresa economica, il rilancio dell’occupazione e l’accoglienza dei rifugiati». Ci sono altre infrazioni infatti che a Bruxelles passano sotto silenzio: il surplus commerciale della Germania, il rifiuto dell’ala dura della Ue di farsi carico delle quote di immigrati, il piano Juncker per il rilancio economico che non trova i necessari e reali finanziamenti.A livello mondiale, come scrive Federico Rampini, assistiamo ad un capovolgimento senza precedenti: i cinesi sono liberisti mentre gli occidentali, capeggiati dal pokerista Donald, denunciano la globalizzazione.Allora paradossalmente non rimane che sperare in Trump, ma esattamente in senso opposto alle sue imminenti direttive presidenziali: forse farà (ri)nascere per reazione un po’ di orgoglio europeo.”E non finirà qui” gongolava Donald Trump dalle dune della Scozia dove ha aspettato giocando a golf l’esito del referendum britannico, assaporando l’euro-harakiri britannico come l’auspicio del proprio possibile trionfo in America dopo sei mesi». Ed è stato un facile auto-profeta. Sulle ali del successo continuerà a tendere trappole mortali all’Europa? Sembra proprio di sì.Alle sciocche dichiarazioni trumpiane dell’immediato dopo-Brexit ci fu la “gustosa”reazione di base degli scozzesi, i quali non sopportarono le parole demagogiche e le strumentalizzazioni di Trump. Nel pub di John Muir a Edimburgo, quando Trump è apparso in tv, tutti i clienti si avvicinarono allo schermo. Poi, tutti assieme, cominciarono a urlargli insulti di ogni genere, il cui meno offensivo fu senz’altro pig, porco. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere… Consiglierei a Juncker di riunire la Commissione europea in quel pub di Edimburgo. Chissà che gli scozzesi, interessati ad entrare nella Ue, non sappiano darle una benefica sferzata.

Mo va a cägar…

Sono stato per anni all’interno della Democrazia Cristiana in posizione di minoranza: aderivo alla corrente di sinistra, sindacal-aclista di Forze Nuove, e quindi non mi fa certo impressione l’asprezza del confronto interno al partito Democratico. Quel che trovo insopportabile e censurabile è la velleitaria scarsità degli argomenti della cosiddetta sinistra dem, che si atteggia al nuovo che avanza mettendo in mostra leader da museo, non per l’età ma per le enormi responsabilità riguardo al passato e per il vuoto pneumatico delle loro proposte attuali.Mi riferisco, tanto per non fare nomi, a Pier Luigi Bersani ed alle sue sparate a vanvera, oscillanti fra la puzza di muffa del vetero-comunismo mai sufficientemente digerito e il penoso imbellettamento di una generazione politica che ha fatto disastri ed inesorabilmente il suo tempo e che dovrebbe avere il buongusto di togliersi dai piedi (Massimo Cacciari docet).Invece eccolo lì a pontificare con un accanimento che di terapeutico ha ben poco. Egli mette nel frullatore tutti i luoghi comuni della critica alla sinistra italiana, europea e mondiale e ne tira fuori l’auspicio di un giovane Prodi alla cui ricerca si starebbe impegnando, dando peraltro il ben servito frettoloso al suo amico Roberto Speranza che da tempo scalpita in panchina.La crisi del ceto medio, le scorie velenose della globalizzazione, le disuguaglianze galoppanti, il ciclo tecnologico che toglie lavoro, la riscoperta dei valori protettivi della sinistra, più Stato e meno mercato, abbandono dell’establishment, il ritorno ai diritti del lavoro troppo umiliati, inversione a U rispetto alla vocazione maggioritaria del PD, rilancio del welfare, fine del personalismo leaderistico: questi gli ingredienti della ricetta di Bersani, che gioca a fare il sociologo, toglie il mestiere ai sindacalisti, si pavoneggia ad economista di grido, si lascia andare alla politologia spicciola.Tutto meno che la politica: ho provato a mettere in corrispondenza parallela il contenuto delle due interviste ospitate da la Repubblica, quella a Matteo Renzi e quella a Bersani. La prima discutibilissima (mancherebbe altro…), ma abbastanza concreta ed auto-critica, la seconda vuota ed auto-celebrativa.Bersani dice di essere preoccupato per l’inseguimento di Renzi al centro che non esiste più e lui rincorre una sinistra parolaia ed anacronistica, candidandosi forse a coagulare il sangue sparso nelle storiche emorragie di un massimalismo di sinistra andato tranquillamente a passeggio con i poteri più retrivi, clientelari e sconclusionati (MPS docet), burocratizzato negli enti locali (emilia-romagna e non solo), appiattito sui sindacati (CGIL), imborghesito nei salotti buoni.A proposito di salotti buoni, il mio carissimo amico Walter Torelli, comunista tutto d’un pezzo, durante una delle solite chiacchierate, mi chiese, dal momento che mi sapeva piuttosto informato sulla cronaca politica, di riferirgli dell’episodio relativo a Massimo D’Alema, il quale, in occasione di una sua presenza in un salotto romano, rimbrottò vivacemente il cane di casa che gli era montato sulle scarpe. Ammise snobisticamente che gli erano costate una grossa cifra. L’amico Walter, dopo avermi confessato tutta la sua indignazione, disse con tanta convinzione: «Lé óra chi vagon a ca tùtti». Sono sicuro che lo ripeterebbe di fronte alle più recenti prese di posizione di D’Alema e c., stizzose, altezzose, insopportabili ed incoerenti. Sì, caro Walter avevi ragione tu…e non eri certo un qualunquista di destra.Se Matteo Renzi fa fatica ad interpretare una sinistra moderna ed efficace, Pier Luigi Bersani non fa fatica, proprio non è in grado di candidarsi alla leadership del PD (abbia tale partito una vocazione maggioritaria o una tendenza al rassemblement della incasinata galassia sinistrorsa).Checché ne dicano Bersani e i suoi pochi amici (contano forse ancora qualcosa a livello di iscritti, ma tendono a zero a livello elettorale), a Renzi non c’è alternativa: non so se sia un bene o un male, ma è così. Ma forse a questi signori, che lo sanno benissimo, interessa solo difendere una posizione di potere che in uno scontro duro verrebbe messa in discussione prima a livello di partito e poi a livello delle urne: meglio quindi guadagnare tempo, indebolire la segreteria del partito, arrivare alle elezioni con una legge non troppo drastica, riaprire un’ interminabile avventura ulivista, andare indietro insomma facendo finta di andare avanti.Se devo essere sincero in merito a questi signori la penso esattamente come Roberto Giachetti quando ha detto la verità indirizzando alla minoranza dem una colorita espressione, “avete la faccia come il culo”.Ricordate il film “Bianco, rosso e Verdone” in cui il pedante e pignolo protagonista, lo stressante Furio, telefona al servizio meteorologico al fine di avere informazioni utili per mettersi in viaggio a ragion veduta. Copre l’interlocutore di tali e tante sciocche e assurde domande che, ad un certo punto, questi sbotta alla grande: «Mo va a cagär…». Chissà perché mi è venuta in mente questa gag leggendo l’intervista a Bersani?

Parchè il banchi, at capì…

Banche sull’orlo del precipizio? Risparmiatori gabbati? Governi inetti? Banchieri disonesti o incapaci? Politica succube della finanza? Finanza impoverita dalla politica? Europa pronta a farci le pulci sulle nostre banche e a sorvolare su quelle degli Stati europei considerati forti? È giusto salvare le banche utilizzando fondi pubblici? Il sistema di controllo sugli istituti di credito ha funzionato? Tutti quesiti all’ordine del giorno, con la solita aggiunta di enfasi e l’induzione al panico che i media usano quando vogliono creare audience in materia economica. Basti pensare che quando le borse registrano andamenti negativi si parla di “bruciatura di miliardi di euro di capitale”, mentre quando volano, la parola stessa lo dice, creano solo l’illusione di miliardi di euro. Nessuno spiega che trattasi di ipotesi virtuali con la speculazione in agguato e i reali andamenti economici solo sullo sfondo. Ma torniamo alle banche.Parecchio tempo fa mi raccontavano di un incontro informale tra amministratori pubblici della provincia di Parma: un pianto cinese sulle difficoltà finanziarie dei comuni e sulle ristrettezze delle loro comunità. Ad un certo punto uno dei partecipanti sbottò e cominciò ad esprimersi in dialetto, adottando uno spontaneo e simpatico intercalare, scaricando colpe a più non posso sul sistema bancario reo di compromettere sul nascere ogni e qualsiasi intento di ripresa: «Parchè il banchi, ät capi…» diceva a raffica e giù accuse agli istituti di credito. A volte la politica tende a scaricare sue responsabilità su altri soggetti, ma è pur vero che i detentori del potere finanziario tendono a condizionare scorrettamente la politica, magari dopo avere creato disastri (gli esempi sono numerosi a tutti i livelli, Vaticano compreso). Succede in Europa, in Italia, a Parma.Le difficoltà presenti nel sistema bancario italiano sono note: la presenza nei bilanci delle banche di crediti deteriorati, vale a dire di difficile recupero a causa dell’annosa crisi economica che ha investito soprattutto alcuni settori; la debolezza del capitale e la necessità del rafforzamento richiesto a gran voce in tutte le sedi competenti; l’alta esposizione bancaria verso i titoli del debito pubblico; la debolezza strutturale di molti istituti di credito per i quali sono necessarie cure dimagranti a livello di costi e di sportelli in eccesso e processi di ristrutturazione societaria e aziendale. Queste croniche deficienze bancarie hanno già creato e continuano a creare enormi contraccolpi sui soci finanziatori, frenano la concessione del credito alle imprese, tengono col fiato sospeso i mercati finanziari, creano grossi problemi ai governanti italiani alla spasmodica ricerca di eccezioni alle regole, vale a dire di flessibilità nella loro applicazione e di straordinarie possibilità di intervento pubblico. Le banche in buona sostanza hanno poco capitale e molte sofferenze, oltretutto non sempre sono state gestite con la necessaria correttezza e con la dovuta professionalità, in troppi casi hanno prevalso conflitti d’interesse, decisioni clientelari, controlli leggeri.Il forte deterioramento dei crediti bancari italiani non è giustificato solo dall’andamento economico generale particolarmente negativo nel nostro Paese. Alcuni pensano male e, come al solito, probabilmente indovinano: dipende, dicono, dall’alto tasso di clientelismo annidato nella gestione del credito bancario. Non mi illudo che la commissione d’indagine varata dal Parlamento sulle magagne delle banche e sul comportamento dei banchieri possa chiarire granchè. Staremo a vedere…Mi è capitato poche volte, a titolo professionale, di seguire pratiche per la concessione di crediti alle imprese: ho tuttavia sempre trovato un atteggiamento bancario estremamente rigoroso, un sistema istruttorio rigido, una eccessiva pretesa di garanzie reali e/o personali, una pignola valutazione dei progetti a monte delle richieste di finanziamento. Forse c’erano due pesi e due misure, forse anche le garanzie reali si sono sciolte come neve al sole, forse qualcuno ha giocato sporco sul fronte bancario e anche su quello imprenditoriale. Sul punto della correttezza e professionalità dei banchieri italiani vorrei spendere due parole per andare (quasi) controcorrente: un tempo ormai abbastanza lontano gli amministratori di parecchie banche erano di diretta nomina partitica, i loro comportamenti erano ovviamente e direttamente influenzati dalle forze politiche, la clientela poteva essere all’ordine del giorno, ma prima o poi questi signori rispondevano politicamente alla matrice elettorale da cui provenivano. Oggi i banchieri non rispondono più a nessuno: ai soci? alla Consob? alla Banca d’Italia? alla Bce? ai mercati? alla magistratura? A tutti e a nessuno! Aggiungiamoci il peggioramento del quadro etico complessivo e allora…forse andava meglio quando andava peggio. Fuori la politica dalle banche, si disse. Sì, fuori la politica e dentro? Il sistema delle fondazioni, il sistema cooperativo, il sistema capitalistico puro non hanno offerto un quadro alternativo di riferimento attendibile e tranquillizzante. Fatto sta che le banche italiane vantano crediti, in misura molto significativa e pesante, verso realtà imprenditoriali tutt’altro che solvibili.Una seconda questione riguarda il comportamento dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni: perché ci si è intestarditi a non intervenire a sostegno delle banche nel periodo in cui gli altri paesi europei, Germania in testa, lo hanno fatto, enfatizzando quella salute bancaria che col tempo si è rivelata assai precaria. Forse, coi fondi pubblici, eravamo troppo esposti su altri fronti (pensioni etc.); forse non avevamo quel minimo di credibilità che ce lo potesse consentire (eravamo già troppo derogati); forse qualcuno non è stato troppo lungimirante e ha operato scelte di mera sopravvivenza (adesso può essere facile dirlo). Abbiamo perso il treno dell’aiuto alle banche quando era relativamente più facile salirci sopra (ora il biglietto è salato, soprattutto per azionisti e obbligazionisti degli istituti di credito). È pur vero che, se il governo italiano fosse intervenuto negli anni scorsi, si sarebbe gridato allo scandalo: si chiedono sacrifici ai poveri per dare aiuto ai ricchi. Discorso che, qua e là, viene fatto, non senza qualche obiettiva validità, anche oggi. Bisogna pur chiarire che il sostegno alle banche in difficoltà non comporta da parte dell’erario un esborso a fondo perduto, è una sorta di investimento ad alto rischio che crea problemi di liquidità ma sul momento non di compatibilità economica.Come al solito tocca a Mario Draghi togliere le castagne dal fuoco: il presidente Bce opera con impareggiabile tempismo, con la solita prudenza e con perfetta consapevolezza del proprio ruolo. Innanzitutto ha detto che il nodo da affrontare è quello della redditività del sistema creditizio: le banche cioè devono essere gestite con criteri economici e, se lo spread fra tassi attivi e passivi tende a ridursi, sarà un oculato e assennato allargamento dei cordoni della borsa a garantire maggiori ricavi complessivi. Ma il presidente della Bce ha anche affermato che a Francoforte non esiste più alcun tabù su un eventuale intervento pubblico a sostegno delle banche in difficoltà. È una misura molto utile finché è gestita nel rispetto delle regole europee, che prevedono tutta la flessibilità necessaria per gestire circostanze d’emergenza e la montagna di crediti deteriorati, e negoziata con la Commisione Ue. L’importante è agire più in fretta che si può per far sì che le misure di politica monetaria si trasmettano meglio all’economia reale.Meno male che c’è Draghi! Riesce ad aiutare l’Italia senza favoritismi; non difende a spada tratta la Bce e tanto meno il proprio ruolo all’interno della stessa, ma addirittura auspica l’istituzione di un ministro del Tesoro europeo che ridimensionerebbe il ruolo politico di supplenza svolto dalla Banca Centrale; crede nell’Europa federale ed è convinto del ruolo preminente della politica e delle istituzioni politiche rispetto alla finanza; sostiene, nei limiti delle sue possibilità, una linea creditizia espansiva a favore della ripresa economica.«Parchè il banchi, ät capi…». «Sì, mo Draghi…».

Chi fa la spia…

Non sono appassionato di cinema; è uno dei miei tanti buchi culturali, forse il più clamoroso. Per i film di spionaggio inoltre ho sempre avuto una sorta di ripulsa aprioristica: non ci si capisce dentro niente, i colpi di scena si susseguono senza filo logico, la trama è fine a se stessa.È quindi doppiamente normale che le attuali vicende spionistiche, in cui sembriamo immersi, mi siano piuttosto indifferenti e fastidiose. Mi riferisco agli hacker russi che sembra abbiano messo a soqquadro gli equilibri internazionali intrufolandosi addirittura nella recente campagna elettorale americana e strizzando l’occhio a Donald Trump. Penso al fenomeno delle cyberspie, che mette in bilico tutta la credibilità del sistema informatico su cui viaggiamo e che in Italia, come spesso accade, si tinge di massoneria e di poteri occulti. Faccio riferimento al datagate americano e al fenomeno WikiLeaks con la divulgazione a livello mondiale di segreti e relativa messa a soqquadro di tante (in)certezze negli assetti di potere a livello mondiale.Si ha la sensazione che esista una realtà virtuale sovrapposta e/o infiltrata rispetto a quella reale e non si riesce a capire in quale delle due noi effettivamente viviamo e ci muoviamo con la rischiosa conseguenza di veder precarizzati continuamente giudizi e comportamenti nostri e altrui.Le spie da che mondo è mondo ci sono sempre state, ne abbiamo fatto esperienza diretta a partire dalle primissime esperienze scolastiche, durante le quali a volte ci trovavamo di fronte ai voltafaccia di coetanei ritenuti amici ma pronti a tradire per ingraziarsi il maestro e la maestra di turno.Solo una volta mio padre si prese la libertà di esprimere il suo dissenso rispetto al mio maestro di 4° e 5° elementare (persona che peraltro ricordo con tanto affetto e riconoscenza). Riferivo in famiglia, come sono soliti fare i bambini, che il maestro chiamava alla lavagna un alunno per segnare i nomi dei compagni buoni e cattivi, si diceva e si scriveva proprio così, vale a dire per segnalare chi, magari durante la momentanea assenza del maestro, si comportava in modo più o meno indisciplinato. Era una prassi decisamente discutibile sul piano etico, educativo ed umano e mio padre, senza dirlo apertamente e, quindi, senza censurare direttamente la caduta di stile del maestro (peraltro bravo, aperto e moderno), mi consigliò, in modo pacato ma convincente, di opporre, nel caso mi fosse rivolto l’invito, il mio rifiuto a contribuire a quella sciocca schedatura spionistica dei compagni di classe. Rispondi educatamente così: “Signor maestro Le chiedo di poter rimanere al mio posto e, se possibile, di non avere questo incarico”. Si trattava di una piccola, bella e buona, obiezione di coscienza, volta ad evitare confusione di ruoli, a rispettare la dignità degli altri ragazzi, a rifiutare ogni e qualsiasi tentazione per forme più o meno velate di delazione e di spionaggio. Capii abbastanza bene il suggerimento paterno e non mancai di metterlo in pratica alla prima occasione: il maestro, persona molta intelligente, girò in positivo il rifiuto di fronte alla classe, quasi sicuramente capì che non si trattava di farina del mio sacco, trovò subito chi era disposto a sostituirmi, assorbì, è il caso di dire in modo magistrale, il colpo che non gli bastò per interrompere una prassi piuttosto generale ma non per questo meno sbagliata e insulsa, probabilmente rifletté sull’accaduto: il risultato era stato raggiunto. Da mio padre s’intende.Archiviato questo significativo ricordo della mia infanzia mi trasferisco in periodo più avanzato ed in ambito molto diverso: i rapporti tra politica e servizi segreti. Due sono i riferimenti semplici al limite dell’ovvietà che mi orientano. Da una parte il grande giornalista, prestato per un certo periodo alla politica, Gugliemo Zucconi, che, con la sua simpatica verve ironica, sosteneva come in Italia avessimo l’ardire di pretendere “i servizi segreti pubblici”. Dall’altra il grande statista Aldo Moro, il quale a chi gli chiedeva un giudizio sul nostro ed altrui sistema di intelligence, rispondeva laconicamente che le spie servono anche se sono le peggiori persone esistenti sulla faccia della terra.Quindi è inutile nasconderlo: siamo alle prese con un male necessario, l’importante però sarebbe evitare che questo male, anziché allontanarne altri ben più gravi (guerre, conflitti e drammi vari) ci porti a vita apparente e morte clinica.Credo sia questo il limite invalicabile e irrinunciabile da mettere alle spie di ogni tempo, ordine e grado. Imparare a convivere con una malattia non vuol dire non curarsi, non premunirsi, non combatterla.Tanto per essere chiaro ed estremamente attuale, qual è la differenza tra Obama e Trump di fronte al fenomeno dello spionaggio. Obama non ha mai detto: «Chi fa la spia non è figlio di Maria, non è figlio di Gesù, quando muore va laggiù…». Ha tuttavia cercato di controllare se non governare il fenomeno. Trump rischia di essere invece talmente funzionale al fenomeno da esserne un frutto proibito e pertanto un fruitore inaffidabile.Come un politico di alto livello riesca a conciliare una certa etica di comportamento con l’accettazione dello spionaggio quale presupposto di governo è un discorso molto delicato che lascio alla coscienza degli interessati. Resta tuttavia, leggendo le cronache (non si sa fino a qual punto attendibili o romanzesche) delle vicende relative alla matassa ingarbugliata dei fili segreti del potere, un senso di profondo disagio che minimalizza o addirittura annulla la voglia di combattere per un mondo migliore. Se è vero che Julian Assange non ci aiuterà a capire il mondo e a migliorarlo, altrettanto vero è che non possiamo mettere la testa nella sabbia. E allora? Auguri e figli di ambo i sessi, con la speranza che non diventino mai le spie dei loro simili, ma che siano la spia della voglia di cambiare il mondo.

Il demonio esiste!?

Sono passati parecchi anni da una sera in cui volli leggere la ricostruzione, così come pubblicata dai giornali ed emergente dagli atti processuali, dell’orrendo delitto di Novi Ligure: l’uccisione a coltellate, da parte di Erika (16 anni) e del fidanzato Omar (17 anni), della madre della ragazza e del fratello di 11 anni, un piano criminale in cui era prevista anche la soppressione del padre di Erika.Ad un certo punto dovetti interrompere la lettura: emergevano elementi di tale ferocia da sconvolgere anche il più imperturbabile appassionato di racconti horror e io non ero e non sono imperturbabile e tanto meno amante dell’horror.La crudeltà totalmente immotivata, la bestiale violenza omicida ridotta a mero esercizio della propria (im)maturità, l’efferata uccisione dei propri famigliari considerata come rimozione di una pietra d’inciampo: cosa può succedere nell’animo di adolescenti per portarli a simili catastrofi umane?Sono le domande che anche in questi giorni mi sono rifatto leggendo le cronache del delitto di Pontelagorino, una frazione di Codigoro (Ferrara): un ragazzo di 16 anni, con l’attiva complicità di un amico di 17 anni, massacra i suoi genitori e confessa, senza una lacrima, senza un rimorso, di avere pianificato ed eseguito questo duplice omicidio forse perché infastidito dai ricorrenti rimproveri per il suo scarso impegno scolastico e la sua vuota adolescenza. Emergono quindi motivazioni risibili, molto simili rispetto a quelle presenti nel caso di Novi Ligure.Forse sarebbe opportuno fare silenzio, non cercare spiegazioni, provare solamente grande pietà senza imbarcarsi in giudizi temerari.Allora come ora invece mi sono dato due (non) risposte, legate tra di loro: una di carattere religioso e una di tipo etico. Non sono un fanatico portato a drammatizzare e schematizzare la lotta fra il bene e il male, ma davanti a questi fatti ammetto di pensare con una certa insistenza alla presenza del demonio, che approfitta della debolezza di certi soggetti arrivando ad impersonificarsi in essi e ad agire con una forza distruttiva arginabile solo a monte e non a valle. La seconda risposta, causa/effetto rispetto alla prima, mi porta a ritenere che nel vuoto assoluto valoriale e ideale un adolescente possa rischiare di essere posseduto dal demonio ed essere sopraffatto da vampate maligne di ribellione estrema contro chi simboleggia le regole di vita e magari osa ricordargliele.L’elemento che rende più umanamente inspiegabile questi comportamenti delittuosi, non è tuttavia tanto la crudeltà (un dato presente in molte vicende umane personali e collettive), non è tanto la futilità dei motivi scatenanti, né la giovane età dei protagonisti, né i legami stretti con i destinatari della violenza, ma l’ostentata indifferenza del dopo-delitto (vanno in discoteca, a giocare, a scherzare al bar, restano nel loro squallido ambiente giovanile), che si accompagna alla mancanza di rimorso e di ravvedimento (all’atto della confessione del delitto stesso). È vero che nella coscienza di un individuo non si riesce a leggere, ma tutto lascia pensare alla mancanza di coscienza (qualcuno dice mancanza del senso di colpa). Se un uomo è senza coscienza, non è una bestia perché gli rimane l’intelligenza, è un demonio. È questo che mi induce a considerare demoniaci questi comportamenti, non in senso figurato ma in senso proprio.Il recupero è sempre possibile e deve essere tentato. «È come se si stessero svegliando solo adesso dopo un lungo letargo. Intorpiditi, scarsamente reattivi. Stanno realizzando in questi momenti quello che hanno fatto ed è per loro sconvolgente. Non toccano cibo e trascorrono le ore senza dire una parola, tra lacrime e sguardi persi nel nulla», li descrive così chi ha avuto modo di interagire con questi ragazzi all’interno del centro di prima accoglienza del carcere minorile. Speriamo siano i primi segni di ravvedimento e non la pura presa d’atto di un totale fallimento, come guardarsi allo specchio e scoprirsi irrimediabilmente mostro, il che potrebbe preludere persino ad un suicidio, dramma nel dramma.Il cammino per il recupero di questi soggetti si presenta molto arduo: qualcuno sostiene che l’unica medicina efficace sia il lavoro, un lavoro duro, faticoso, non una tortura ma nemmeno un breve stage pseudo-professionale. Creare la coscienza in un individuo è molto più difficile che aiutarlo a pulirla, se esiste.La psicologia, la sociologia, la scienza medica possono trovare per questi episodi tante motivazioni sociali, familiari, ambientali, educative: le conosco, le rispetto, ma non mi convincono. Queste analisi possono servire a responsabilizzare tutti coloro che operano a contatto con i giovani. Ho letto le reazioni del gruppo a cui questi due giovani appartenevano: uno squallore la loro impostazione di vita, senza valori, senza riferimenti al di là di play-station, coca cola, sigarette e qualche canna, ragazze che si accostano, si frequentano e si cambiano come se fossero felpe da riciclare (o corpi da bruciare dopo l’uso). Uno di loro ha così commentato l’accaduto con la voce tremante: «Ci chiamano ragazzi terribili, ma non sapevamo niente, quei due non ci hanno mai detto cosa avevano deciso di fare. Io, se me lo avessero confidato, avrei detto di lasciar perdere, lo giuro». Non hanno capito niente della gravità del fatto, forse non sono in grado di capire e questo allarga a dismisura il problema.La barista del piccolo circolo frequentato da questi ragazzi dice: «Sono mamma anch’io, questo era il loro bar, li conosco tutti bene. Ma cosa hanno dentro davvero i ragazzi, chi lo sa?».Non lo so nemmeno io, rimane comunque un comportamento che temo possa essere riconducibile direttamente al demonio (se la vogliamo dire in senso laico, al gusto di fare il male per il male).Racconta Vittorino Andreoli, il noto esperto e studioso di psichiatria criminale, di avere avuto un importante e toccante incontro con papa Paolo VI, durante il quale avranno sicuramente parlato non di meteorologia ma di rapporto tra scienza e religione nel campo della psichiatria e dello studio dei comportamenti delinquenziali. Al termine del colloquio il pontefice lo accompagnò gentilmente all’uscita, gli strinse calorosamente la mano e gli disse, con quel tono a metà tra il deciso e il delicato, tipico di questo incommensurabile papa: «Si ricordi comunque, professore, che il demonio esiste!».Il caso vuole che il vangelo di domani, domenica, presenti Gesù, ad opera di Giovanni Battista, come “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”. Scrive p. Ermes Ronchi a commento: «Toglie il peccato del mondo, il peccato al singolare, non i mille gesti sbagliati con cui continuamente laceriamo il tessuto del mondo, ne sfilacciamo la bellezza. Ma il peccato profondo, la radice malata che inquina tutto. In una parola il disamore. Che è indifferenza, violenza, menzogna, chiusure, fratture, vite spente…».Gira e rigira, sì tutto serve, la sociologia, la criminologia, la psicologia, la psichiatria (ho letto gli esperti: bravissimi…), ma niente risolve. Che risolve tutto è un Agnello, un Dio, scrive sempre p. Ronchi, “che non si impone, si propone, che non può, non vuole far paura a nessuno”.Ho cominciato la mia riflessione con una disperata ammissione di presenza maligna, la termino con la delicata “rivoluzione della tenerezza” di Dio in Gesù Cristo (papa Francesco).C’era una volta una mamma con suo figlio, un bellissimo bambino che cresceva tra le amorevoli cure della sua mamma. Il bambino divenne presto ragazzo ma crescendo diventò cattivo. Il ragazzo diventò uomo ed era sempre più cattivo; cominciò a rubare ed un giorno commise l’atto più crudele, uccise! Nella disperazione della mamma, l’uomo continuò così per diversi anni, finché un giorno, dopo aver ucciso un uomo, fu arrestato.Per la sua cattiveria e per i suoi crimini fu condannato a morte. La notte prima dell’esecuzione, gli apparve in sogno il diavolo, che gli propose un patto. “Posso renderti la libertà ma tu devi fare una cosa per me, disse il diavolo, devi portarmi il cuore di tua madre”. L’uomo rimase per un secondo muto, poi accettò e, uscito di prigione grazie al patto appena fatto, andò a casa della madre. Non disse nulla, non esitò, estrasse il coltello ed uccise la madre. Avvolse il cuore in un fazzoletto e cominciò a correre verso l’appuntamento con il diavolo. Cominciò a piovere e l’uomo correva sempre più forte. Ad un tratto inciampò, cadde a terra! ed il cuore uscì fuori dal fazzoletto rotolando nel fango.L’uomo stava per rialzarsi, quando il cuore della mamma, pieno di fango, lo guardò e gli disse: “Ti sei fatto male figlio mio?”.Nunzia Di Gianni, la madre che osava rimproverare il figlio sfaticato, all’atto della propria uccisione, non ha potuto comportarsi come la mamma della commovente leggenda: è stata massacrata non dal figlio, ma da un amico del figlio, uno strano e paradossale sicario. Chissà che in futuro il figlio…e sua madre…Ma il Vangelo non è una leggenda e tutto ritorna a pieno titolo alla Croce di Cristo: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. E lo diceva sul serio, per quelli che lo stavano crocifiggendo, ma anche per tutti i loro successori (in un certo senso mi ci sento dentro pure io), anche per i due massacratori di Codigoro.

La pazienza che abbatte le staccionate

Il dopo-referendum ha costretto la politica italiana in uno striminzito recinto i lati della cui staccionata sono costituiti: dalla pronuncia della Corte Costituzionale sull’Italicum (24 gennaio 2017); dalla necessità, precedente e conseguente a tale sentenza, di varare una legge elettorale omogenea per i due rami del Parlamento, che possa garantire rappresentatività, governabilità e stabilità; dalla celebrazione dei due referendum in materia di lavoro (voucher e appalti) quale misera rimanenza di uno spropositato attacco sindacale (CGIL) al Jobs act; dalla insulsa e impossibile contingenza di coniugare una certa continuità nell’azione di governo (emergenze interne e internazionali) con la smania miracolistica di ricorrere alle urne per tastare il polso all’elettorato.Dentro questo recinto si è ficcato anche Matteo Renzi condizionato dalla bruciante sconfitta elettorale sulle riforme costituzionali, dalle estenuanti diatribe interne al suo partito, dalla voglia di frettoloso riscatto e sopratutto dalla volontà di risalire rapidamente in sella per proseguire un discorso riformatore avviato e precocemente interrotto.Il segretario Pd sta tentando di mettere assieme il doveroso appoggio al governo Gentiloni, che sta lavorando nel segno della continuità, con la spasmodica corsa alle elezioni, fattore di per sé automaticamente vocato alla discontinuità politica, la forte ripresa nell’azione politica del Partito democratico con una verifica interna che neutralizzi le divisioni nel bagno purificatore delle primarie. Una gara durissima al limite dell’impossibile, che, tra l’altro, richiederebbe doti politiche di mediazione che sinceramente fanno a pugni con il piglio decisionista di Renzi.In questo momento storico, se Renzi vuole provare ad essere uno statista e non solo un, seppur bravo, governante e ancor meno un semplice, seppur forte, segretario di partito, deve dare la precedenza ai tempi istituzionali senza farsi trascinare nella bagarre pre-elettorale. Lasci che il Parlamento, anche e soprattutto ad iniziativa costruttiva del PD, vari una seria legge elettorale, consenta al governo, appoggiandolo convintamente, di affrontare i numerosi nodi programmatici che ha di fronte (compreso il varo delle misure necessarie per disinnescare i referendum in materia di lavoro), permetta al Paese di presentarsi dignitosamente ed autorevolmente agli imminenti appuntamenti europei ed internazionali, lasci al Presidente della Repubblica la delicata decisione su quando eventualmente sciogliere anticipatamente le Camere.Quando la pazienza non è mero attendismo ma solerte e costruttiva azione preparatoria, occorre sforzarsi di portarla, senza paura di perdere il treno: meglio aspettare quello giusto che salire sul primo che passa rischiando di deragliare assieme ai troppi improvvisati macchinisti.Il tempo oltretutto potrebbe essergli utile per colmare le lacune del suo partito non solo con forti iniziative mediatiche e con un conflittuale rapporto con le minoranze: si preoccupi dell’ insufficiente legame col territorio, della scarsa attenzione alla dirigenza periferica, dell’ anemica vitalità politica nella base degli iscritti.Se fossi Renzi farei così. Non lo sono e chiedo scusa.

Fate come dico e non come faccio

Non entro nel merito dell’ammissibilità dei referendum promossi dalla CGIL in materia di riforma del lavoro. La Corte Costituzionale ha emesso l’ardua sentenza. Uno dei tre, ed è stato ammesso, riguarda la cancellazione dei voucher, l’eliminazione cioè del modo sbrigativo ma concreto di regolarizzare le prestazioni temporanee ed accessorie difficilmente inquadrabili nelle fattispecie contrattuali civilistiche, contributive e fiscali vigenti: si vorrebbero eliminare in quanto utilizzati per finalità molto differenti da quelle che il legislatore si era proposto.Il presidente dell’Inps, intervistato al riguardo afferma: «Dai nostri dati nell’ultimo anno la Cgil ha investito 750 mila euro in voucher; non si tratta quindi né solo di Bologna né solo di pensionati. Anche altri sindacati hanno massicciamente usato questi strumenti, ad esempio la Cisl ne ha utilizzati per un valore di 1 milione e mezzo di euro».Più avanti nel corso della medesima intervista Tullio Boeri si toglie un sassolino dalla scarpa della sua proposta di razionalizzazione del sistema contributivo e pensionistico e dichiara senza mezzi termini: «Abbiamo pronta una circolare che interviene sulle modalità di calcolo delle pensioni dei sindacalisti. Alla luce di una sentenza della Corte dei Conti possiamo intervenire per via amministrativa anche su prestazioni in essere ad ex-sindacalisti. Basta solo l’ok del ministero del Lavoro e partiamo. Oggi alcuni sindacalisti distaccati possono fare versamenti anche molto consistenti negli ultimi anni di Lavoro. E questi versamenti episodici hanno un impatto sulla pensione molto rilevante al contrario di quanto avviene per gli altri lavoratori. Questa prassi ha portato ad aumenti del trattamento fino al 60%. Sono coinvolte circa 40 persone già in pensione e 1400 sindacalisti in attività. Piccoli numeri, ma con un forte valore simbolico di equità».Di fronte a queste imbarazzanti situazioni sindacali, penso innanzitutto a Luigi Di Vittorio, a Fernando Santi ed altri storici sindacalisti non più in vita che si capovolgeranno nella loro tomba per lo sdegno, mentre quelli ancora in vita arrossiranno di vergogna.Un tempo ai sacerdoti che si comportavano male, pregiudicando la credibilità del contenuto delle loro prediche, si era soliti applicare il discutibile detto “Fate come dico e non come faccio”.Lo dobbiamo estendere anche ai sindacalisti? Sono quasi sicuro che dal coro dei lavoratori, iscritti e non iscritti al sindacato, verrebbe un Sì urlato a squarciagola.D’altra parte la mia modesta esperienza mi ha messo talora a confronto con sindacalisti prestati all’imprenditoria: peggio dei peggiori padroni!Discorso analogo per i sindacalisti prestati alla politica: incapaci di passare dall’interesse di parte a quello generale.Mi capitò diversi anni fa, nell’ambito della svolgimento della mia funzione a livello di un’organizzazione imprenditoriale, di partecipare alle trattative sindacali in rappresentanza delle cooperative agricole. Si discuteva il rinnovo del contratto di lavoro dei loro dipendenti. Dopo un mio intervento, peraltro piuttosto moderato e rispettoso della controparte, fui malamente apostrofato da un operaio agricolo che mi invitò provocatoriamente a togliermi la giacca e ad andare a lavorare con lui per capire la situazione. Non ci pensai un attimo e risposi: «Dal momento che lo stipendio non me lo paga lei e nemmeno il suo sindacato, tengo la giacca e continuo a fare il mio mestiere. Quanto alle sue reprimende demagogiche veda di riservarle ai suoi sindacalisti in giacca e cravatta…». Probabilmente se lo incontrassi oggi, con le arie che tirano, mi darebbe ragione.

Sbornia o alcolismo?

Quasi in contemporanea al nobile e affascinante discordo d’addio di Barack Obama, durante una trasmissione televisiva è stata riproposta la scena disgustosa nella quale Donald Trump ha ridicolizzato un giornalista portatore di handicap reo di avergli posto domande fastidiose. Non contento di essere caduto in questo penoso incidente, lo ha negato facendolo passare come una bufala ed allora è stato puntualmente smentito e la verità è venuta a galla in tutto il suo squallore.Di fronte a queste stomachevoli immagini, due autorevoli (?) giornalisti, Enrico Mentana e Marco Travaglio, si sono trovati d’accordo nel dare vita breve al neo presidente americano qualora prosegua in questo snocciolamento di cazzate giornaliere, che vanno, come portata politica, ben oltre la presa in giro di un handicappato per arrivare alla presa in giro di tutto il mondo trattato come un accozzaglia di minus habens.Non sono troppo convinto che Trump imploda velocemente: ormai in politica non si è perso solo il limite del buon senso, ma anche quello del buon gusto. Vorrei capire cosa passa nel cervello della minoranza (sic!) degli americani che lo ha votato. Possibile che un cittadino dello Stato democratico per eccellenza si lasci abbindolare da un simile squallido personaggio e decida di metterlo alla Casa Bianca? Possibile! E allora i casi sono due: o la democrazia americana è moribonda o gli Americani sono cretini. La verità sta nel fatto che la gente ha molti problemi (fin qui niente di nuovo, anzi in passato ne aveva di più), ma non trova punti di riferimento ideali e valoriali a cui fare riferimento per sperare in una loro soluzione. In mancanza di forti idealità, la politica non è riuscita a trasferirsi sul piano della concretezza programmatica ed ha preferito rifugiarsi nella personalizzazione e leaderizzazione. Questo meccanismo per la verità è da sempre un connotato caratteristico degli USA: legare le sorti del Paese a un personaggio politico è molto pericoloso, se si sbaglia è un disastro, non c’è bilanciamento di poteri che tenga. Questa volta gli americani l’hanno fatta grossa: sono andati al bar, hanno alzato il gomito e poi sono andati a votare.Buttare nella pattumiera la bussola della democrazia sta diventando un gioco piuttosto in voga in tutto il mondo e dappertutto emerge questa tendenza alla “goliardizzazione” della politica.Beppe Grillo in Italia sta diventando (forse lo era in partenza) il protagonista non tanto della cosiddetta antipolitica, ma della ridicolizzazione della politica. L’ultima vicenda del ricollocamento europeo dei suoi parlamentari ha segnato, per ora, il culmine di questo processo. Nigel Farage non va più bene perché ha ottenuto quel che voleva (la brexit) e allora dobbiamo cercare un altro partner, proviamo con i liberal-democratici (i più europeisti di tutti). Cosa ne dite? Smarrimento nelle file del movimento cinque stelle, ma la cosa passa. Non passa però con Alde il partito dei liberali europei, i quali rifiutano sdegnosamente questo strano apparentamento. E allora? Niente, ci (Grillo e Casaleggio) siamo sbagliati, torniamo all’Ukip, chiediamo scusa, paghiamo il disturbo e…come non detto. Tutta colpa dell’establishment europeo che ha paura di noi.Qualcuno, forse in vena di scherzare, vede in questi continui sbandamenti grillini il prezzo da pagare per passare dal libro dei sogni alla realtà politica e sostiene che chi bolla l’incoerenza vorrebbe inchiodare i 5stelle ai vizi originari impedendo loro un percorso di maturazione democratica. L’elogio dell’incoerenza virtuosa vista come stage per gli apprendisti stregoni dell’antipolitica. Follia della follia.Mi viene alla mente un carissimo e simpatico amico, il quale, di fronte ad un suo conoscente incappato nelle maglie della giustizia e messo in carcere per qualche giorno, se la cavò dicendogli a posteriori: «Nella vita bisogna provarle tutte, lei adesso ha vissuto anche questa esperienza…».A chi aveva espresso riserve Grillo ha personalmente inviato uno screenshot del regolamento firmato prima delle elezioni europee in cui si prevede che la decisione sulle strategie da adottare al Parlamento spettano solo al capo politico, che le sottopone alla ratifica della rete; la penale per chi non rispetta la linea è di 250mila euro.No mi sembra proprio il caso di un anti-politico alla disperata ricerca della politica, di un soggetto che sbagliando sta imparando.Possibile che un cittadino italiano si lasci abbindolare da un simile comico personaggio (per cortesia lasciamo stare il suo ideologo che c’entra come me) e decida di candidarlo (magari per interposta persona) a governare il Paese? Possibile!E allora i casi sono due: o la democrazia italiana è moribonda o gli Italiani sono cretini.Mi fermo. Preferisco girare la domanda: quali e quanti guasti ha combinato la classe politica italiana per averci portato ad ubriacarci al bar di Beppe Grillo? L’importante è che si tratti di una sbronza e non dell’inizio di una vera e propria dipendenza dall’alcool.Ricordiamoci di quella barzelletta che ha per protagonista il mitico Stopàj. È in autobus, piuttosto ubriaco, guarda attentamente una donna e le dice senza ritegno: «Sale che lè l’è brutta c’me la paura?!». «E lu l’è imbariägh cmé ‘na topa!» contrattacca la malcapitata. «Sì, mo a mi dmán la m’è pasäda…» conclude Stopaj.E a noi quando passerà la sbornia?

Vizi privati pubbliche virtù

Ogni tanto, a livello di stampa, emergono incredibili dati su abusi, ingiustizie e privilegi nel settore del pubblico impiego. Il tempo di scandalizzarsi, gridare “basta” e poi tutto ritorna nella normalità.Non credo sia una questione legislativa: le leggi ci sono, ma non vengono applicate o vengono applicate in modo distorto o vengono apertamente violate.E i controlli? A parte la storica tendenza ad incappponirsi sulla pagliuzza formale lasciando correre la trave sostanziale, ho la netta sensazione che viaggino a scartamento ridotto rispetto a quanto viene fatto nel settore privato. Della serie cane non mangia cane.In questi giorni vengono pubblicati dati paradossali relativamente all’inchiesta sugli imboscati, coloro che riescono, grazie a certificati di inabilità e permessi, a evitare i lavori più faticosi o in orario disagiato. IL 12% dei dipendenti della sanità pubblica sono inidonei al lavoro per il quale sono stati assunti; il 13,5% dei dipendenti pubblici è beneficiario della legge 104 quanto a disabililità grave o a parentela con soggetti in tale situazione. Credo sia solo la punta dell’iceberg, non voglio generalizzare e tanto meno criminalizzare i dipendenti pubblici, ma le sacche di assenteismo, disimpegno, privilegio sono sicuramente molto grosse.E i sindacati? Qui si apre un discorso delicato: il corporativismo e il clientelismo li hanno imprigionati e coinvolti in una difesa di tutti e a tutti i costi, accettando una politica di bassi salari (giustificata da ragioni di carattere erariale) compensati da privilegi (apparentemente non costosi), ma in realtà a scapito del merito e della produttività.Mia sorella aveva riscontrato questa magagna dal fronte professionale e da quello amministrativo, in parole povere da dipendente pubblico e da pubblico amministratore. Mi raccontava un episodio piuttosto emblematico accaduto all’interno dell’amministrazione comunale parmense. Una mattina l’assessore al personale, senza preoccuparsi di presentarsi come tale, telefonò in un ufficio comunale per mettersi in contatto con un dipendente. In sua assenza rispose il commesso che spiegò come il collega fosse momentaneamente assente seppure regolarmente in servizio. L’assessore non indagò oltre e preannunciò una successiva chiamata. Il commesso diligentemente (?) si permise di consigliare la richiamata entro le 13,30 (l’orario d’ufficio scadeva alle 14,00) dicendo apertamente che dopo tale ora non avrebbe più trovato nessuno, perché tutti (o quasi) se ne andavano per tempo… L’assessore a quel punto si inorecchiò e rispose: «Bene, allora facciamo così: quando il suo collega rientra mi faccia chiamare…». «Chi devo dire?» chiese il commesso sentendosi rispondere seccamente: «L’assessore al personale!». La cosa si riseppe e non vi dico gli improperi che l’ingenuo commesso raccolse dai colleghi messi a nudo nella loro sommersa ed omertosa trasgressività.Giacché sono, come spesso mi accade in vena di ricordi famigliari, voglio riportare come rifletteva ad alta voce mio padre di fronte alle furbizie varie contro le casse pubbliche: «Se tutti i paghison e i fisson col c’lè giust, as podriss där d’al polastor ai gat…».

La scoperta degli altarini americani

Non vorrei essere troppo condizionato dalla nostalgia obamiana, ma aspetto con terrore l’inizio della presidenza americana di Donald Trump. Spero nel noto detto che dice: “A volte il diavolo è meno brutto di quanto si possa pensare”.È vero che, come sosteneva Aldo Moro, le spie sono i peggiori soggetti esistenti e quindi la Cia (altro non è che un covo di spioni) penso abbia un’attendibilità piuttosto limitata, tuttavia quanto emerge dal suo rapporto in ordine alle interferenze russe nella campagna elettorale statunitense aggiunge una luce sinistra alla imminente già preoccupante epopea trumpiana.Il presidente entrante considera questa indagine una caccia alle streghe e la vicenda viene da lui retrocessa a mera guerra tra spie che non avrebbe comunque influito sul voto.Ammettiamo pure che la questione sia così come la mette Trump. Resta comunque il dato inquietante – non tanto quello che i servizi segreti russi siano riusciti a trafugare le email al partito democratico (gli hackeraggi e i cyber-attacchi sono all’ordine del giorno a tutti i livelli), né che i russi avessero l’obiettivo di minare la fiducia dell’opinione pubblica americana nel processo elettorale democratico e di denigrare Hillary Clinton (tra nemici storici ci può stare anche il boicottaggio) – che è costituito dalle prove del coinvolgimento degli uomini di Putin per “pilotare” le elezioni Usa a favore di Trump e dal fatto che i servizi segreti americani abbiano intercettato diversi funzionari russi i quali hanno esultato per la vittoria del tycoon considerandola un successo geopolitico e congratulandosi al riguardo fra di loro.Donal Trump insomma piace molto alla Russia di Putin e a tutti i più retrivi e assurdi politici al di fuori degli Usa che lo attendono con ansia (Netanyahu in testa), più che agli americani i quali avrebbero una voglia matta di fare marcia indietro (le manifestazioni contrarie a Trump si sprecano anche se questo attivismo protestatario del poi avrebbe fatto meglio a sfogarsi nel voto elettorale del prima) e, sbollita la sbornia, rimpiangono già Barack Obama (i sondaggi danno ad Obama il massimo grado di approvazione dei presidenti in uscita) al punto da attaccarsi alle lacrime di Michelle (lei gode addirittura del favore di due americani su tre) come un bambino impaurito si attacca alla gonna della mamma. Strano Paese gli Usa, la più grande e contraddittoria democrazia che rischia di mettere la parola fine alla democrazia, elegge a presidente, con una netta minoranza di voti, un pazzo che vuol portare indietro le lancette della storia, un uomo che forse interpreta al meglio proprio tutte le contraddizioni di un popolo allo sbaraglio, un innovatore che mette al posto del tanto bistrattato establishment statale il suo entourage, che protegge i posti di lavoro a livello nazionale mettendo sul lastrico gli occupati o gli occupandi del resto del mondo, che lascia intendere di voler governare sulla base di un chiaro motto: ognuno per sé, Trump per tutti.Questa simpatia, peraltro comprensibile, di marca russa non è certo di buon auspicio per una cordiale intesa tra leader in cerca di pace, non è la premessa per un incipiente gentleman agreement fra le due superpotenze, ma, a mio giudizio, è la sconcertante base per un ignobile connubio tra due personaggi spregiudicati, capaci, con l’aiuto delle loro reciproche oligarchie e sull’onda dei poro populismi, di fare i propri sporchi e loschi affari, spartendosi il potere sulla pelle del mondo intero.Spero di sbagliarmi, ma considerata la storia, lo stile e il programma di questi leader, c’è di che essere molto preoccupati. Se la democrazia è appesa ai fili di Putin e Trump, non ci resta che sperare nella Cina, visto che l’Europa tende all’inesistenza. Oppure sperare che due soggetti in mega-conflitto di interessi possano perseguire l’interesse del mondo: il ragionamento che fecero gli Italiani dando fiducia a Berlusconi. Magari nel nuovo quadro internazionale tornerà ad essere protagonista anche lui: amico di Putin lo è, di Trump fa presto a diventarlo (la somiglianza persino fisica è sorprendente), e noi Italiani avremo un motivo in più per sperare: la speransa di mäl vesti, cha faga un bón invèron.