I taxi di combattimento

La sbornia liberista, se mai era cominciata, ora è finita. I taxisti, a loro modo, ne redigono il certificato di morte. Non vogliono concorrenti, pretendono la protezione delle loro licenze e del relativo avviamento. Sostituiscono al liberismo il corporativismo. Ci puzza di… Non è un caso che al loro fianco siano scesi concretamente i nostalgici del regime fascista e virtualmente gli odierni populisti. Non è un caso che la violenza stia caratterizzando le proteste: quando ci si mette in una certa logica conflittuale, si può arrivare anche alla violenza.

Le altre forme di trasporto pubblico non di linea vengono esorcizzate e criminalizzate, si chiamino Ncc (servizio di noleggio con conducente), car sharing (auto condivisa), uber (collegamento diretto passeggeri ed autisti): entriamo in un sistema di vero e proprio “protettorato tassinaro”. Bisogna sforzarsi di capire e di fare un quadro della situazione.

Il servizio di noleggio con conducente si rivolge all’utenza specifica che avanza, presso la rimessa, apposita richiesta per una determinata prestazione a tempo e/o viaggio. Lo stazionamento dei mezzi avviene generalmente presso rimesse o presso i pontili di attracco. La sede del vettore e la rimessa devono essere situate, in generale, nel territorio dell’ente che ha rilasciato l’autorizzazione. Nel servizio di noleggio con conducente esercitato a mezzo di autovetture è spesso vietata la sosta in posteggio di stazionamento su suolo pubblico negli ambiti territoriali ove sia esercito il servizio di taxi. A differenza dei taxi, che sostano su aree pubbliche specificatamente segnalate, si rivolgono ad un’utenza indifferenziata e non sono obbligati a svolgere la corsa all’interno del solo comprensorio, ma possono svolgere il servizio su tutto il territorio Nazionale ed Internazionale a livello Europeo. Il servizio pubblico non di linea, denominato “N.C.C.”, si basa propriamente su di un accordo cliente-fornitore, con cui vengono pattuiti le modalità di svolgimento del servizio, la data e l’orario, l’importo ecc. La prestazione del servizio, pertanto, non è obbligatoria, ma si basa sul raggiungimento, o meno, di un accordo in forma privata, mediante comunicazione a mezzo telefonico, cartaceo, postale od elettronico (internet, email, website, etc).

Il car sharing (dall’inglese auto condivisa o condivisione dell’automobile) è un servizio che permette di utilizzare un’automobile su prenotazione, prelevandola e riportandola in un parcheggio, e pagando in ragione dell’utilizzo fatto. Questo servizio viene utilizzato all’interno di politiche di mobilità sostenibile, per favorire il passaggio dal possesso del mezzo all’uso dello stesso (cioè all’accesso al servizio di mobilità), in modo da consentire di rinunciare all’automobile privata ma non alla flessibilità delle proprie esigenze di mobilità. L’auto, in questo modo, passa dall’ambito dei beni di consumo a quello dei servizi. Tipicamente si tratta di un servizio commerciale erogato da apposite aziende, spesso con l’appoggio di associazioni ambientaliste ed enti locali. Il car sharing si distingue dal car pooling: in quest’ultimo modello più persone viaggiano insieme nella stessa auto, che normalmente è di proprietà di uno dei viaggiatori, e dividono tra loro le spese di viaggio e manutenzione. Il car sharing, invece, può essere assimilato a un autonoleggio a ore con automobili parcheggiate in più punti della città. È inoltre emersa una ulteriore variante del car sharing: il “car sharing peer-to-peer“, che prevede l’uso di auto condivise non appartenenti ad una flotta dedicata (come nel car sharing tradizionale), ma appartenenti agli stessi membri della comunità iscritta al servizio; in quest’ultimo caso, quindi, il car sharing è assimilabile (non ad un noleggio a ore bensì) ad una multiproprietà del veicolo.

Si parla tanto di Uber:  è un’azienda con sede a San Francisco (USA) che fornisce un servizio di trasporto automobilistico privato attraverso un’applicazione software mobile (app) che mette in collegamento diretto passeggeri e autisti. La società è presente in decine di città in tutto il mondo. Le auto possono essere prenotate con l’invio di un messaggio di testo o usando l’applicazione mobile, tramite la quale i clienti possono inoltre tenere traccia in tempo reale della posizione dell’auto prenotata

C’è di mezzo la globalizzazione. Purtroppo ha voluto dire mettere anche i lavoratori in competizione fra di loro: alle dipendenze dei tanto odiati colossi aziendali stranieri lavorano persone che hanno i loro sacrosanti diritti. E poi ci sono anche i diritti degli utenti, dei potenziali passeggeri: avere un servizio alle migliori condizioni possibili, in un quadro tariffario equo e trasparente .

C’è di mezzo anche l’Europa che, fino ad ora, non ha condiviso, l’atteggiamento troppo tenero dell’Italia verso gli interessi dei taxisti e la rigidità verso l’Ncc. Il mondo è piccolo e non finisce a Roma laddove i tassinari hanno scatenato un putiferio.

Vorrei chiedere a Pierluigi Bersani, che si è messo in cattedra per farci la lezione su cosa significhi essere di sinistra, come la metterebbe con i taxisti, dopo essere stato parecchi anni or sono fautore della lenzuolata di liberalizzazioni. Vada lui a mediare con questi inviperiti soggetti, trovi lui una soluzione.

Bersanate a parte, il problema esiste. A chiacchiere è facile coniugare   diritti e mercato, in concreto è difficilissimo. È la sfida riformista. Questione di regole per tutti, su cui discutere, trattare, ricercare pazientemente accordi sindacali. I dilaganti e debordanti sinistrorsi tacciono, preferiscono guerreggiare con Matteo Renzi.

Il problema non sta tanto nelle bombe carta, nelle vetrine infrante, nei tafferugli con la polizia: roba condannabile senza alcuna esitazione.

Non è nemmeno riconducibile ad un mero rinvio (ha effettivamente un significato irritante ed è stato la causa contingente che ha scatenato la rabbia dei taxisti) effettuato per prendere tempo in funzione di trovare nuove e definitive regole.

Il punto politico è questo: hanno ragione i taxisti a pretendere un riconoscimento ante litteram dei loro spazi di attività? Bisogna rispondere. Domanda difficile a risposta articolata e complessa. Io ammetto di non averla. Non so se ce l’abbia l’attuale governo. Spero di sì. Certamente non ce l’ha chi cavalca la protesta o chi le strizza l’occhio e tanto meno i puritani dell’estrema sinistra. Buon lavoro!

 

 

 

 

 

 

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Vestivamo alla “piddina”

La spaccatura all’interno del PD, indipendentemente da come andrà a finire (una vera e propria scissione, una convivenza in camere separate, una riconciliazione dopo la scazzottata), si inserisce in modo sconvolgente nel vivo della storia politica collettiva, ma anche in quella individuale. Il dibattito, durante l’assemblea nazionale del 19 febbraio, ha toccato infatti i nervi scoperti delle esperienze passate: non è un caso se gli interventi più apprezzabili e calorosi sono stati proprio quelli dei testimoni più sinceri e credibili della storia che, volenti o nolenti, sta a monte di questo partito.

Ammetto di essermi commosso ascoltando Piero Fassino, Walter Veltroni e Franco Marini: epigoni di un modo “caldo” di fare politica, che non garantiva successi e risultati, ma la buona fede e il coraggio di battaglie fatte sulla scorta di valori e ideali.

Non è questione di nostalgia. È solo doveroso omaggio alla memoria storica da cui abbiamo ancora tanto da imparare. Voglio fare quindi un tuffo del tutto personale in questi ricordi, chiamandoli anche per nome e cognome.

Torno, a metà degli anni sessanta, sui banchi di scuola. Con un mio compagno di classe, Mario Tanzi, l’amicizia andava oltre il sano cameratismo scolastico per allargarsi al dialogo umano, culturale e politico. Io cattolico e democristiano, lui non cattolico e comunista: di fronte alla realtà incandescente di quegli anni riuscivamo, pur partendo da culture e sensibilità diverse, a trovare un fervido terreno d’incontro, un punto di convergenza in base ai valori che ci ispiravano (la giustizia sociale, l’attenzione alle classi popolari, la laicità della politica, etc.). Ci scambiavamo esperienze, idee, ansie, preoccupazioni, dubbi e certezze. Eravamo in anticipo di dieci anni rispetto al compromesso storico. Ci ritrovammo dopo alcuni anni, impegnati entrambi nel movimento cooperativo, lui quello di matrice socialista, io quello di ispirazione cristiana: il dialogo riprendeva con una immediatezza sorprendente e con affascinante fluidità. Poi arrivammo quasi a lavorare insieme a servizio delle cooperative, prescindendo dagli schemi, che, nel nostro piccolo, eravamo stati capaci di superare coraggiosamente e, oserei dire, pionieristicamente. Quando si costituì il partito democratico andai a quelle esperienze di quarant’anni prima e mi dissi: per me e Tanzi la fusione arrivava in ritardo, meglio tardi che mai!

Poi ci sono i ricordi più strettamente politici. Nella mia vita ho cercato di esprimere l’anelito alla vera politica, aderendo all’azione della sinistra cattolica all’interno della D. C., in un impegno nel territorio, nelle sezioni di partito, nel consiglio di quartiere, laddove il dialogo col PCI si faceva sui bisogni della gente, delle persone, laddove si condividevano modeste ma significative responsabilità di governo locale, laddove la discussione, partendo dalle grandi idealità, si calava a contatto con il popolo. Quante serate impiegate a redigere documenti comuni sulle problematiche vive (l’emarginazione, la scuola elementare, l’inquinamento, la viabilità), in un clima costruttivo (ci si credeva veramente), in un rapporto di reciproca fiducia (ci si guardava in faccia prescindendo dalle tessere di partito). Mi sia permessa una caustica riflessione: forse costruivamo dal basso, senza saperlo, il vero partito democratico, molto più di quanto abbiano fatto i leader nel 2007 e soprattutto molto più di quanto stiano facendo alcuni fra quelli attuali, che rischiano di buttare a mare anche la nostra storia, confondendo ancora una volta gli ideali con le ideologie e i valori con le proprie incallite posizioni.

Ho avuto l’onore di essere allora presidente del quartiere Molinetto (io democristiano sostenuto anche dai comunisti) in un’esperienza positiva, indimenticabile, autenticamente democratica. Ricordo con grande commozione il carissimo amico Walter Torelli, scomparso da diversi anni, comunista convinto, col quale collaborai in un rapporto esemplare, sfociato in un’amicizia, che partiva dall’istituzione (quartiere) per proseguire nel dibattito fra i partiti, per arrivare alla condivisione culturale ed ideale di obiettivi al servizio della gente.

Mi sento in dovere di ripensare con gratitudine a quando Torelli, a nome del Pci, mi dichiarò la sua totale disponibilità ad appoggiare la mia candidatura a presidente di quartiere: la cosa mi riempì di orgoglio e soddisfazione. Riuscimmo infatti a collaborare in modo molto costruttivo.

Tutta la mia militanza politica e partitica è stata caratterizzata da questa convinta e costante ricerca del dialogo, a volte tutt’altro che facile, a volte aspro e serrato, ma sempre rivolto al servizio della popolazione in nome dei valori condivisi.

Durante le animate ed approfondite discussioni con questi carissimi amici, uomini di rara coerenza etica e politica, agli inizi degli anni novanta si constatava come alla politica stesse sfuggendo l’anima, come se ne stessero andando i valori e rischiasse di rimanerci solo la “bottega” ed al cittadino non restasse che scegliere il “negozio” in cui acquistare il prodotto adatto alla propria “pancia”. Fummo facili profeti.

Non serve aggiungere altro. Penso di avere già chiarito a sufficienza il mio pensiero in ordine alla politica attuale ed al PD. Ho chiamato, mi piace farlo sempre, le persone con nome e cognome. Lo faccio anche per i protagonisti di questa penosa contingenza politica. Senza esagerare, credo che i D’Alema e i Bersani non solo stiano tradendo la loro eredità culturale e politica, ma stiano sottovalutando, con la loro insulsa presunzione, una piccola grande storia in cui mi sento personalmente coinvolto assieme ai citati amici. Non ho la tessera del PD, ma sappiano che qui è in gioco molto di più.

 

Il diavolo finisce per abituarsi all’acqua santa e viceversa

Un titolo de la Repubblica su un articolo di Vittorio Zucconi recitava nei giorni scorsi: “Ma per i grandi giornali che ‘svelano’ il Potere è una nuova primavera”. Il titolo, riferito alle vicende del dopo Trump, insospettisce non poco e lascia intendere che in America da parte della carta stampata   più che la verità si potrebbe cercare un ritorno di business: ben venga Trump coi suoi casini che ci fanno fare i soldini.

Oltre al solito rischio “del trumpismo dell’anitrumpismo”, un’aggressione continua contro il neopresidente può essere un boomerang: lui lo ha capito e sta al gioco trasformando le conferenze stampa in veri e propri match da consumarsi davanti al popolo.

Mi sembra in atto un accanimento in base al quale Trump, a seconda dei giorni, sarebbe un traditore in combutta col nemico, un bugiardo che dichiara A per poi fare B, un incapace che sbaglia tutte le mosse, un incoerente che cambia opinione ad ogni piè sospinto, un affarista in conflitto d’interessi, un clientelare a cominciare dallo spazio concesso ai suoi famigliari, un presidente spendaccione, costoso e lussuoso che batte di gran lunga tutti i predecessori i quali al suo confronto sono dei monaci francescani, un sovversivo rispetto agli equilibri mondiali, un razzista, che butta fuori tutti gli immigrati a suon di imponenti rastrellamenti, che chiude le frontiere vietando gli ingressi per decreto e alzando veri e propri muri di protezione, un populista che disprezza le istituzioni, un incantatore di serpenti che somministra falsità a tutto spiano, un machista che tratta le donne come giocattoli a sfondo sessuale,   un antieuropeista che se ne frega altamente dei suoi storici alleati, un menefreghista rispetto alle questioni ambientali affrontate col taglio del petroliere, un nazi-fascista nel cui pantheon trovano posto Julius Evola, Oswald Spengler, Gabriele D’Annunzio e Benito Mussolini, un nazionalista che pensa solo ed esclusivamente agli Usa, un protezionista che vuol mettere in ginocchio i rapporti commerciali fra le nazioni, un disfattista che vuole distruggere tutto quanto fatto dai suoi predecessori.

Sono convinto che purtroppo ci sia molta verità in questo scandaloso affresco emergente dal giornalismo di denuncia: probabilmente c’è in atto una vera e propria gara a scoprire gli altari trumpiani, da cui esce un assetto presidenziale tragicomico.

Portando alle estreme conseguenze il discorso, bisognerebbe immediatamente assoldare qualcuno per farlo fuori alla svelta, prima che, come teme l’attrice statunitense Meryl Streep, il suo catastrofico istinto di vendetta non ci porti a una guerra nucleare. Queste scorciatoie però funzionano sempre in senso inverso: vengono fatti fuori gli innovatori di segno opposto rispetto a quello di Trump, che avrà lunga vita e non avrà nulla da temere a livello di attentati o roba del genere (intendiamoci, meglio così).

Pare quasi che gran parte degli Americani si vogliano sgravare la coscienza dal grave peccato di averlo prima irriso, poi sottovalutato e poi, alla fine, votato. Sta diventando un esercizio retorico, un ritornello di comodo, un antifona laica che finirà col vittimizzarlo per poi rafforzarlo e radicarlo nella mentalità della gente.

Non credo ai giudici-giustizieri ed ai giornalist-salvatori della patria americana e del mondo intero. Certo, il terzo e quarto potere possono e devono bilanciare il primo e il secondo, già di per sé molto concentrati nelle mani di un uomo solo al comando, ancor più pericolosi se quell’uomo al comando non dà sufficienti garanzie di rispetto costituzionale e democratico.

Donald Trump può contare su una minoranza silenziosa che lo ha votato e che lo ammira: attenzione a non far aumentare il suo consenso, anche perché con le arie che tirano ci vuol poco a ricondurre ogni e qualsiasi contrarietà ad uno scontro epico tra il folle e paradossale nuovismo contro l’implacabile e velenosa autodifesa dell’establishment.

Poche, precise, circostanziate, documentate e gravi contestazioni: così può essere contrastato Trump a livello mediatico e davanti alla pubblica opinione. Politicamente parlando occorre che i democratici riprendano con grande pazienza e rinnovata credibilità il discorso, sfruttando gli spazi istituzionali non per fare una polemica distruttiva ed ostruzionistica, ma un’opposizione palpabile e complessiva. In campo culturale bisogna costruire un discorso alternativo che non snobbi, ma accetti le sfide: non è tempo di presuntuose primazìe di pensiero, ma di serie ed accessibili proposte costruttive.

Altrimenti succederà che con l’andare del tempo questo refrain dei grandi giornali perderà progressivamente forza, i servizi segreti torneranno sotto il pieno controllo della nuova presidenza, gli staff di governo e di gabinetto si assesteranno, il partito repubblicano chinerà il capo verso il nuovo estemporaneo leader, le istituzioni politiche si svuoteranno o si accoderanno, la magistratura verrà ricondotta alla ragion di stato, gli uomini e le donne di cultura si limiteranno a sfogare elitariamente le loro contrarietà intellettuali, le proteste di piazza si spegneranno, gli scandali si placheranno, la realpolitik internazionale prenderà il posto dei conflitti ideologici e geografici, il grande capitale si riposizionerà frettolosamente, gli ambienti economici legheranno l’asino dove vuole il padrone.

La storia dei regimi insegna che la partenza è generalmente avvenuta cavalcando lo scontento, la paura, la protesta generalizzata della gente. L’opposizione si è gradualmente divisa nella tattica e affievolita nei toni. I vari poteri si sono gradualmente adeguati. Il consenso è aumentato. Il mondo si è limitato a guardare. Gli intellettuali si sono massicciamente allineati. La politica e le sue istituzioni hanno perso mordente. I poteri economici hanno sfruttato l’onda, etc. etc.

È pur vero che le situazioni dovrebbero essere cambiate, ma non ne sono poi così sicuro…

Scissione a babbo morto

Nella diatriba in atto all’interno del partito democratico, per tempestiva iniziativa della magistratura, rischia di giocare un ruolo importante il padre di Matteo Renzi. Tutti i commentatori si esercitano nel definire la probabile scissione Pd: qualcuno la chiama “frattura di calendario” considerato che tutto sembra ruotare intorno alla data del congresso e delle elezioni politiche; altri “scontro di potere” perché non emergono motivazioni politiche di fondo ma solo preoccupazioni in vista soprattutto dei seggi parlamentari in palio alla prossima consultazione elettorale; altri ancora la considerano un duello personale tra leader o capi-corrente alla spasmodica ricerca di rivincite; quasi tutti una sciagurata esercitazione pseudo-identitaria alla faccia dei problemi del Paese. Adesso siamo arrivati alla iettatoria “scissione a babbo morto”.

Temo che il veleno nella coda ce lo abbia messo la magistratura “inventando” il reato di traffico di influenze ed appioppandolo addosso al “babbo”. C’é in atto, è inutile nasconderlo, un regolamento di conti fra una larga fetta di magistrati e Matteo Renzi, colpevole di avere varato o messo in cantiere alcune riforme piuttosto fastidiose per i giudici (riduzione ferie, responsabilità, pensionamenti abbreviati, etc.): punture di spillo che tuttavia li hanno irritati non poco. Era quindi prevedibile che, prima o dopo, gliela facessero pagare cara ed ecco spuntare l’occasione propizia. L’ex-premier, già indebolito dall’insuccesso referendario, dalla levata di scudi della sua minoranza interna, dai tanti che opportunisticamente hanno cominciato a prendere le distanze non appena intravista la possibilità di una sua caduta, può essere in odore di spallata decisiva verso il baratro della irrilevanza.

La giustizia, come si suol dire, farà il suo corso, ma intanto la sputtanata c’è tutta. Sembra quasi che alle critiche dell’ex-giudice (meglio sarebbe dire giudice prestato alla politica, dal momento che si è messo solo in aspettativa) Michele Emiliano, il più vivace fra gli oppositori dentro il Pd,   definito in modo pittoresco da Francesco Merlo su la Repubblica quale “mangiafuoco bulimico e demo-populista”,   faccia riscontro un filone di indagini sugli appalti pubblici Consip. Da una parte un importante esponente del partito che non esita vergognosamente a definire Renzi e i renziani come amici   dei petrolieri, dei banchieri, dei finanzieri, insomma dei poteri forti; dall’altra le inchieste giudiziarie che si avvicinano a Renzi, tramite Luca Lotti prima e il “babbo” poi, ipotizzando un suo coinvolgimento di sponda (?) nel fenomeno di commistione tra politica ed affari.

Così Renzi, oltre ad essere definito ironicamente (vado sempre a prestito dal Francesco Merlo) “furia di provincia, ambizione della modernità e del marketing, angelo della storia, rottamatore del pianto, promotore di sbadigli”, potrà aggiungere, nel suo cursus honorum, l’etichetta di “trafficante d’influenze per interposta persona”.

Un non-motivo in più per spaccare il Partito democratico. Che Renzi desse fastidio a molta gente, lo avevo capito. Che abbia tatticamente sbagliato a mettersi contro a troppa gente, dai sindacati ai massimalisti della sinistra, da certa intellighenzia alla magistratura, dagli insegnanti agli studenti, dai dipendenti pubblici ai giornalisti, è altrettanto innegabile. Che non abbia la pazienza del vero politico e l’abilità strategica del tessitore è ammissibile. Ha dato un bello scrollone alla pianta e dai rami è venuto giù di tutto, ma qualcosa di pesante (forse sarebbe meglio dire di pedante) gli è caduto sulla testa.

Guardando in Tv i suoi oppositori abbracciati, Michele Emiliano, Roberto Speranza, Enrico Rossi, che giocano a fare i leader alternativi senza averne, pur facendo la loro sommatoria, carisma e capacità, mi sono chiesto: questo sarebbe il nuovo Pd, la nuova sinistra che intende riprendere in mano il Paese dei maltrattati di sistema? Ma fatemi il piacere… Oppure, lasciamo stare queste candidature di seconda fila, di bandierina e andiamo alle eminenze grigie: saranno i Bersani e i D’Alema (per dirla con Francesco Merlo, “i vecchietti sdentati, arzilli e vincenti, evasi dalla casa di riposo”) a proiettare la sinistra italiana nel futuro? Ma fatemi il piacere…

All’inizio degli anni novanta (si sono celebrate proprio in questi giorni le nozze d’argento con la prima scrematura di tangentopoli) tanto andò la magistratura contro il lardo della corruzione che ci regalò Berlusconi.   Vuoi vedere che oggi tanto andrà contro Renzi che ci regalerà la torta di Luigi Di Maio o comunque ci metterà sopra la ciliegiona? Auguri!

Il torto e la ragione

Della diatriba sui conti pubblici italiani e del conseguente continuo tormentone nei rapporti con l’Unione Europea voglio cogliere l’essenza, ponendomi un quesito: ha ragione la Ue a tormentarci sul debito e sul deficit richiamandoci rigorosamente agli impegni assunti o ha ragione l’Italia a chiedere maggiore flessibilità al fine di crescere e così migliorare i propri conti.

Per rispondere a questa domanda vado a prestito da un episodio accadutomi durante la mia lunga esperienza professionale. Era stato fatto un pignoramento a carico di un artigiano-collaboratore di una cooperativa: era pieno di debiti e faticava a pagarli al punto che un creditore parti in quarta intendendo sequestrargli il compenso che percepiva. La cooperativa da me assistita si recò all’udienza davanti al pretore per sapere come si sarebbe dovuta comportare, esprimendo nell’occasione seria preoccupazione per il rapporto che rischiava di essere compromesso. Il giudice, dopo avere attentamente ascoltato le parti, si rivolse al legale che difendeva gli interessi dei creditori insoddisfatti e gli disse con molta franchezza: «Se questo artigiano, sequestrandogli tutto il compenso, non lo fate mangiare e non gli consentite di continuare la sua attività, sarà ben difficile che possa pagare i debiti. Quindi riformulatemi le vostre richieste nei limiti di una ragionevole parte degli emolumenti».

Che il debito pubblico italiano sia enorme è cosa indiscutibile. Gli esperti sostengono, guardando il grafico del suo andamento nel tempo, che sia esploso durante gli anni del consociativismo: i partiti chiedevano e i governi concedevano con eccessiva facilità. Penso non sia giusto giudicare così sbrigativamente quel periodo storico che consentì comunque alla società italiana di contrastare il terrorismo e di fare notevoli passi avanti. Tuttavia occorre riflettere sul dato dell’esplosione del debito pubblico anche e soprattutto per verificare se questo indebitamento sia servito a migliorare le condizioni di vita dei cittadini o se sia andato sprecato nel calderone di una spesa pubblica senza controllo. Ma non è questo il discorso attuale. Il debito quindi c’è, ma per pagarlo, o almeno riportarlo a livelli accettabili rispetto alla ricchezza prodotta nel Paese (il Pil), bisogna che l’Italia sia messa in grado di crescere nella sua economia altrimenti…

Né più né meno il discorso di buon senso del pretore di cui sopra. Anche lui, codice alla mano, avrebbe potuto consentire il pignoramento totale (tra l’altro il pignorato non era un lavoratore dipendente, ma un artigiano imprenditore), ma superò col ragionamento la regola. I parametri europei quindi non andrebbero applicati ragionieristicamente, ma politicamente calati in un contesto problematico ed in continua evoluzione (immigrazione, terremoti, contingenze varie).

Oltretutto sarebbe opportuno che chi fa la faccia feroce con gli Stati in difficoltà si ricordasse di rappresentare uno Stato che si è trovato in passato in gravissime difficoltà ed è stato aiutato: mi riferisco alla Germania nel secondo dopo-guerra e all’atto della riunificazione tra est e ovest. Se gli Stati Uniti e i Paesi vittoriosi della guerra si fossero comportati con la severità che oggi la Germania adotta verso i suoi attuali partner, probabilmente dopo oltre settant’anni i tedeschi starebbero ancora pagando i danni e i debiti relativi e forse della riunificazione non se ne sarebbe fatto nulla. Ma la memoria fa difetto, è corta…Come si ricorderà anche il Vangelo contiene una parabola al riguardo: quel tale che, dopo aver ottenuto con suppliche il condono dei suoi enormi debiti, incontra un suo piccolo debitore e lo vuol strozzare se non pagherà immediatamente.

Ciò non toglie che l’Italia debba mettere ordine nei propri conti con una gestione oculata a livello di entrate e di uscite. E qui viene il bello. Meno tasse o più tasse. Meno spese e più investimenti. Meno sprechi e più produttività. Sacrifici ed equità. Lacrime e sangue.

Il commento lo lascio fare a mio padre. Non era un economista, non era un sociologo, non era un uomo erudito e colto. Politicamente parlando aderiva al partito del buon senso, rifuggiva da ogni e qualsiasi faziosità, amava ragionare con la propria testa, sapeva ascoltare ma non rinunciava alle proprie profonde convinzioni mentre rispettava quelle altrui. Volete una estrema sintesi di tutto cio? Eccola! Anche oggi, riflettendo ad alta voce di fronte alle difficoltà economiche dello Stato italiano direbbe: «Se tutti i paghison e i fisson col c’lè giust, as podriss där d’al polastor ai gat…».

 

Dilettanti allo sbaraglio

Non ho mai avuto una considerazione ragguardevole per il dilettantismo, in nessun campo: sono un incallito perfezionista e da me stesso, prima che dagli altri, ho sempre preteso preparazione e professionalità. Atteggiamento che costa insoddisfazione al limite della frustrazione, ma che comporta anche una spinta a migliorarsi con studio, dedizione ed impegno.Delle caratteristiche negative del nuovo presidente americano Donald Trump (sono tante e pericolosissime), quella che più mi infastidisce e mi preoccupa è proprio il dilettantismo dell’approccio e il pressappochismo delle scelte. In meno di due mesi è già dovuto ripetutamente tornare sulle nomine a livello governativo e a livello del suo staff: nomine di primaria importanza, non certo l’ultimo usciere della Casa Bianca; dimissioni e sostituzioni, rassegnate ed effettuate per motivi gravi o gravissimi, non certo per malattia o motivi personali.Il precariato però non è limitato alla dirigenza, ma si estende anche alle linee di fondo della presidenza: da un giorno all’altro cambiano gli umori, i proclami si rincorrono, i voltafaccia non si contano, su argomenti di fondamentale importanza per gli USA e per il mondo intero. Sì, perché continuo a sentire troppe persone che sussurrano: «Gli americani l’hanno voluto, adesso se lo tengano e si arrangino». No, purtroppo ci arrangiamo tutti, perché, oggi più che mai, le decisioni di questo livello e tenore si ripercuotono sull’intero pianeta, sugli equilibri internazionali, sulle politiche di tutti i settori e di tutte le nazioni. Non illudiamoci sull’impostazione isolazionista e protezionista che, a stretto rigore, dovrebbe liberarci dalla morsa statunitense: sarà ancor peggio perché al danno si aggiungerà la beffa.Quando lo si vede in televisione si ha la sensazione di uno capitato lì per caso, che gioca a fare il presidente, che non si rende conto di quel che sta facendo, che spara cazzate a raffica, che dice tutto e il contrario di tutto. Con Trump la politica non è populistica, ma analfabetica. È la risposta altolocata, gratificante ed alienante alla presuntuosa e crassa ignoranza della gente.Ho sempre preferito avere a che fare con un soggetto cattivo ma intelligente e colto piuttosto che con un soggetto buono ma ignorante e stupido: col primo si riesce comunque a trovare un modus vivendi, con il secondo è una tragedia (Trump oltretutto faccio fatica a considerarlo un buono, ma il concetto penso sia comunque chiaro).In questi giorni mi è venuto spontaneo fare un azzardato e paradossale parallelo con la sindacatura di Virginia Raggi: stesso discorso. Ne ha combinate e ne sta combinando tali e tante da rimanere sbalorditi. Senza entrare nel merito, si resta basiti di fronte alle giravolte di persone e idee che si svolgono intorno a questa assurda pavoncella. Qualcuno dice che sia in balia dei poteri forti, ma, secondo me, più che in balia dell’establishment credo sia vittima di se stessa e della sua totale incapacità.I Romani l’hanno voluta e adesso se la tengano e si arrangino. No, siamo alle solite. Ce la teniamo tutti, perché non è l’amministratrice della bocciofila, ma la sindaca della capitale d’Italia. Qualcun altro, giocando al tanto peggio tanto meglio, si consola sperando che sia l’inizio del prematuro tramonto del grillismo (dell’uomo qualunque riveduto e (s)corretto). Ho i miei dubbi, perché può finire come a scuola, quando un allievo studioso viene interrogato assieme ad uno o più compagni impreparati: non fa bella figura, ma viene coinvolto in una sputtanata generale e soffre anche lui del nervosismo dell’insegnante, anche perché costretto ad un superlavoro in conseguenza delle domande irrisolte che gli si girano tutte addosso.I balordi creano solo disastri per tutti. Molti li assolvono o li giustificano guardando ai guasti creati prima di loro: ammesso e non concesso che sia così, anche questa finisce con l’essere un ben magra consolazione.Spesso ricorro agli aneddoti paterni per spiegarmi meglio. A mio padre piaceva molto questo: durante una partita di calcio un giocatore si avvicinò all’arbitro che stava facendone obiettivamente di tutti i colori. Gli chiese sommessamente e paradossalmente: «El gnu chi lù cme lù o ag la mandè la federassion (Lei è stato inviato ad arbitrare questa partita dalla Federazione o è venuto qui spontaneamente, di sua iniziativa?)». Si beccò due anni di squalifica.Dopo esserci chiesti chi ci abbia mandato questi assurdi personaggi, avremo come risposta una squalifica: ce la beccheremo tutti e temo per ben oltre due anni.

Forti coi deboli e…

Ammetto di essere molto più preoccupato, oserei dire sconvolto, dalla morte del giovane di Lavagna, suicidatosi per la vergogna di essere stato beccato in possesso di una piccola quantità di droga ultraleggera, che non dalle contorsioni politico-identitarie di Pierluigi Bersani ed ancor meno da quelle di Massimo D’Alema alla sola ricerca di un improbabile ritorno in pista.L’improvviso gesto estremo di questo ragazzo ci interpella su diversi piani: della cultura, della politica, dell’ordine pubblico.Ci sarebbe materia per un trattato interdisciplinare, ma mi limito a tre brevi riflessioni.La prima: la mentalità borghese con il suo perbenismo, radicato e annidato anche nelle famiglie, vince sempre. Si ritiene infamante avere un figlio in odore di droga, si teme di essere rifiutati dalla società al punto da togliersi la vita. Riflettano coloro che culturalmente si riempiono la bocca del concetto di rispetto della vita e capiscano che la vita non si difende rispettando asetticamente i principi, ma sostanzialmente le persone. Se non partiamo dalla persona creiamo inevitabilmente dei capri espiatori.La seconda: le forze dell’ordine devono smetterla di massacrare moralmente e materialmente gli anelli deboli delle catene criminose e mafiose. È inaccettabile, comodo e stupido combattere la piaga della droga partendo dalle vittime e non dai carnefici, trincerandosi dietro l’alibi delle procedure di legge. Nel caso in questione la Guardia di Finanza sarebbe intervenuta su sollecitazione dei genitori, disperati perché non riuscivano ad affrontare la situazione del figlio, finito in un giro assai pericoloso e da cui è difficile uscire. Probabilmente i genitori (il mestiere più difficile che esista) si sono fatti prendere dal panico; probabilmente i finanzieri, che avevano già sentore che davanti a quella scuola (presidi e insegnanti, altri mestieri improbi) girasse la droga, sono entrati in azione con la delicatezza di un elefante in un negozio di cristalleria; si è creato un corto circuito in cui ci ha lasciato le penne un giovane che si faceva delle canne. Mi chiedo tante cose. I genitori prima di arrivare a denunciare il proprio figlio (extrema ratio) non potevano chiedere aiuto a qualche altra istituzione o figura competente? Non mi sembra che questo loro figlio fosse talmente assuefatto alla droga da essere in pericolo di vita o da richiedere interventi così drastici. La scuola, che, come pare, sapeva di questi traffici, non poteva fare qualcosa di più che passare parola alla polizia? Non c’era qualche ulteriore tentativo educativo da operare con molta pazienza e discrezione? Il terreno è minato, ma proprio perché minato deve essere sondato con cautela e attenzione. E vengo alle forze dell’ordine. Era proprio necessario entrare a gamba tesa senza prima informarsi meglio e dialogare con famiglia e insegnanti? Si sono (in buona fede non lo discuto) improvvisati nel ruolo di salvatori della patria, senza averne sensibilità, competenza, esperienza e preparazione? Che bisogno c’era di effettuare con tanta solerzia e immediatezza una perquisizione domiciliare, che avrebbe comunque portato ad un risultato scontato e risibile? Cosa pensavano di trovare il magazzino centrale della droga immessa nel mercato italiano? Speravano che questo ragazzo li potesse condurre a chissà quali ulteriori sviluppi nella battaglia contro il narcotraffico? Anche per loro non dovrebbe valere il buon senso? Non si poteva, trattandosi di un minore, usare più prudenza, rinviando ulteriori eventuali provvedimenti ad un momento successivo, magari dopo aver sentito un parere del magistrato competente o di un esperto in materia o addirittura di entrambi? Cosa sarebbe successo di grave se l’intervento fosse proseguito con un dialogo in separata sede con i genitori del ragazzo, impiegando gli psicologi, ammesso e non concesso che servano a qualcosa, prima di certi interventi e non dopo i suicidi. Non sarebbe stato opportuno fare degli appostamenti in modo da capire se effettivamente ci fosse sotto un traffico e per risalire ai responsabili di alto livello? Si dirà: senno di poi, intellettualismo da parte di chi è fuori della mischia. Può darsi, ma proseguo. Perché non viene riservato il pugno duro ai veri narcotrafficanti ed a quanti tengono i fili di questo mercato internazionale e nazionale. La risposta alle precedenti domande è complessa e delicata, quella a quest’ultima, a mio giudizio è semplice. Se si toccano nel vivo i vertici di questa criminalità si rischia grosso da tutti i punti di vista, perché questi soggetti, secondo me perfettamente conosciuti dalle polizie di mezzo mondo, non scherzano e impiegano un minuto secondo a far fuori chiunque osi disturbarli. Un motivo in più per concentrare le energie e il coraggio in tale direzione. D’altra parte il comportamento altalenante delle forze dell’ordine evidenzia altre contraddizioni in altri comparti: ad esempio, molta tolleranza verso la violenza da stadio e molto implacabile interventismo sulla violenza nei conflitti sociali; molto accanimento sui tossicodipendenti ed assai meno attenzione al bullismo dilagante. Ho la netta impressione che il “manganello” abbia le sue “preferenze”.La terza riflessione: la politica faccia il suo mestiere, vale a dire leggi e provvedimenti che cerchino di affrontare un problema enorme, non con dogmatismo ma con pragmatismo, non sbandierando princìpi ma affrontando la realtà. È ora di legalizzare l’uso terapeutico di alcune sostanze stupefacenti e di depenalizzare e liberalizzare il ricorso alle cosiddette droghe leggere. Sempre meglio la concretezza del male minore piuttosto della virtualità del bene maggiore.In conclusione credo che il suicidio di questo fragile ragazzino rappresenti una sconfitta per lo Stato, per tutti i suoi servitori, per tutti gli educatori e per l’intera società molto più dell’evasione dal carcere di un ergastolano pluriomicida. Si dirà: non si poteva fare diversamente, bisognava intervenire, la legge doveva fare il suo corso. La madre del ragazzo suicida durante il funerale ha detto nobili, commoventi e stimolanti parole. So di dirla grossa, ma, con tutto il rispetto possibile e immaginabile per le persone coinvolte, mi chiedo: non sarà che il suicidio di questo ragazzino trasgressivo, invece che mettere a soqquadro la coscienza di tutti, finirà col tranquillizzarla? Facciamo una straziante lamentazione, “ ‘na béla cridäda” sui giovani d’oggi, sulle loro debolezze, sulle loro smanie di autonomia, una convincente pontificata sulla lotta alla droga senza eccezione e senza deroga alcuna e poi…tutti innocenti, tutti assolti, tutti come prima.Forse sarebbe il caso di andare tutti a farci benedire! Possibilmente da un prete che assomigli al mio amico Luciano Scaccaglia.

La scaramuccia continua

La difficile e convulsa fase che sta vivendo il Partito democratico rispecchia indubbiamente la complessità della situazione politica italiana, europea e mondiale: alla mancanza dei punti di riferimento ideologici si aggiunge infatti la stizzosa liquidità dei rapporti a livello continentale e l’inquietante incognita degli equilibri internazionali.Tutto sembra messo in discussione dalla “sconvolgente” attualità dei fenomeni migratori e dall’impellente necessità di ripensare gli assetti economici coniugandoli con l’equità tra Stati, tra strati sociali, tra generazioni, tra consumi e investimenti, tra sviluppo e protezione ambientale, tra crescita e rigore, tra innovazione e conservazione, tra produzione e ridistribuzione.Da una parte abbiamo quindi l’oggettiva provocazione proveniente dall’enormità dei problemi, dall’altra la soggettiva reazione delle persone caratterizzata dalla paura e dall’angoscia per il nuovo che si impone disordinatamente: in mezzo la politica, alla ricerca di facili risposte a problemi difficili, scombussolata nei suoi schemi tradizionali, tentata dalle spinte populiste dell’antipolitica e da quelle revansciste del nazionalismo.Un partito, che voglia elaborare una strategia di fronte a tanta problematica materia, è destinato ad andare in crisi, a mettersi in discussione e quindi non mi scandalizzano affatto le discussioni animate all’interno del PD; mi stupirei del contrario.Di questo confronto aspro mi sorprendono e mi danno fastidio due elementi: l’estrema povertà dei contenuti da parte di chi critica a cui fa da ovvio controcanto una certa supponenza difensiva di chi è criticato.Nella mia vita ho fatto l’esperienza politica della Democrazia Cristiana di cui il PD rischia di avere tutti i difetti e ben pochi pregi. Anche in questo partito del passato, che, volenti o nolenti, ha fatto un pezzo di storia italiana, esistevano contrapposizioni al limite della rottura, divisioni politiche al limite della lacerazione, diversi richiami ideali al limite del conflitto; anche nella DC era forte la tentazione del potere e la spinta a farne il “perverso” cemento unificante; anche nella DC si vivevano contingenze che sembravano preludere a spaccature verticali insanabili; anche nella DC esistevano i personalismi e le conseguenti tentazioni di schiacciare in tal senso il correntismo interno.Poi però, quando tutto sembrava precipitare nel gorgo della “divisione”, il carisma dei leader, la forza dell’ispirazione di fondo, il senso di responsabilità, la capacità di mediazione, la visione strategica, la vocazione popolare riuscivano a fare sintesi e a tradurre lo scontro in alcune scelte di fondo unificanti e qualificanti.Nel partito democratico mancano queste capacità: prevale il tatticismo fine a se stesso. Chi critica non ha proposte sostanziali da mettere in campo e si rifugia dietro generiche e contraddittorie contestazioni di metodo, non ha visioni alternative e lascia trasparire solo l’intento di abbattere Renzi e il cosiddetto “renzismo”, per poi fare cosa non è dato capire.Certo l’impazienza renziana a volte non aiuta, certo la leaderizzazione troppo accentuata non agevola, la spasmodica ricerca del consenso può essere fuorviante, ma non sono elementi tali da giustificare questa insopportabile “scaramuccia continua”.I casi sono due: o questa contrapposizione così forte è suffragata da motivazioni profonde e sostanziali e allora non può che sfociare in una scissione, e sarebbe meglio farla senza trascinarsi in una inutile e sterile diatriba di copertura; oppure il conflitto è solo una questione riconducibile a scelte tattiche e allora deve rientrare nei limiti di un corretto dibattito senza ultimatum e ricatti.Propendo per la seconda ipotesi, anche se l’insistenza ad accentuare i toni della polemica rischia di scivolare sulla prima: la scissione fatta sul nulla, solo per dispetto verso Renzi. Quando sento esponenti della sinistra dem, o meglio dell’antirenzismo dem, liquidare gli ultimi tre anni di governo come una sorta di pedissequa ripetizione del berlusconismo, mi chiedo perché siano ancora nel partito. Quando si esprimono certe idee bisogna avere il coraggio e la lealtà di andarci fino in fondo, altrimenti è meglio tacere.Spero solo che la politica italiana non si riduca ad un barometro sul PD: si dividono? Stanno insieme? Fanno il congresso? Non lo fanno? Puntano alle elezioni? Fanno le primarie?Se questo deve essere il prezzo pagato all’ integrità di questo partito, ben venga una scissione. Vorrà dire che la cosiddetta sinistra estrema avrà un ulteriore segmento disgiuntivo, confermando la sua vocazione all’inutilità. Uno più, uno meno…

Raggi di luce grillina

In questi giorni ho ascoltato autorevoli (?) esponenti pentastellati accusare il PD di essere condizionato dalle sue divisioni interne. Mi sono detto: altro che divisioni dentro al M5S…non ci si capisce più niente! Mi riferisco, non solo ma soprattutto, al putiferio romano che continua e, francamente, comincia a stancare, non per colpa dei giornalisti che fanno (male) il loro mestiere, ma per le contraddizioni della giunta capitolina che rispecchiano perfettamente la confusione regnante nell’intero movimento di Grillo. Da tempo il leader ha perso il controllo della situazione e si vede. Poi sento le scandalizzate reazioni grilline all’infelice, ma veniale, titolo su “Libero” nei confronti di Virginia Raggi. A proposito di sessismo, la “patata bollente” di Vittorio Feltri non è niente in confronto al comportamento, risalente a circa tre anni fa, del parlamentare grillino Massimo Felice De Rosa verso le sue colleghe piddine in commissione Giustizia, di cui elogiò non tanto l’abilità oratoria, ma quella orale, dicendo loro: «Siete qui perché siete brave solo a fare i pompini». Niente in confronto agli insulti di Beppe Grillo verso la presidente della Camera Laura Boldrini: «Che fareste in auto con Boldrini?».Al di là del sessismo comunque esecrabile di Feltri il fatto curioso è che a Roma, a margine della prevista costruzione del nuovo stadio con una colossale speculazione edilizia dietro l’angolo, ci sta lasciando le penne l’assessore all’urbanistica Paolo Berdini, in bilico, non tanto per aver detto “la verità” su Virginia Raggi (quella politica intendo, il resto non mi interessa, sono “polizze sue”), ma per aver osato impattare la sfida dei costruttori, a suon di abbattimento di cubatura, davanti alla quale la Raggi e il suo movimento tentennano, perché le Olimpiadi si possono toccare, ma il tifo calcistico romano, ma soprattutto quello dei palazzinari, no. Allora anche il M5S ha imparato l’arte dell’amministrazione possibile? Mi sembra che abbia soprattutto imparato l’arte del compromesso con i tanto (giustamente) odiati poteri forti.Virginia Raggi oltre che dibattersi fra nomine, revoche, dimissioni, inchieste sui suoi assessori e collaboratori, cosa sta facendo? Ha richiamato all’ordine l’assessore Berdini affinché lavori invece di dare giudizi e fare polemiche: ma lei sta lavorando o sta giocando a fare il sindaco, come i bambini giocano a fare il piccolo chimico.Il grillino, Luigi Di Maio, che si è montato la testa e gioca anche lui a fare il leader del movimento, si lamenta perché i media sarebbero implacabilmente attenti e critici verso l’amministrazione Raggi. Pensavano di poter avere un rapporto idilliaco col sistema, loro che si candidano a rivoltarlo come un calzino, di avere baci e abbracci dopo aver seminato all’interno e all’esterno del movimento un vero e proprio odio contro il cosiddetto establishment? Ritenevano che tutto il loro fare politica potesse ricondursi a questo postulato dell’antisistema, per cui tutto va bene purché vada contro l’establishment, anche Trump in quanto ha picconato quello clintoniano, Putin dal momento che rompe le balle un po’ a tutti nel mondo, Farage perché vuole abbattere l’Europa? Della serie i nemici dei miei nemici sono miei amici. Il che non è molto distante dal “molti nemici, molto onore” di mussoliniana memoria.Altra lamentazione: le bufale sarebbero il grimaldello per far saltare il M5S. Ma se la politica grillina è una bufala continua? Ma se i blog pentastellati sono un caleidoscopio di contraddittorie bordate, sparate a vanvera contro tutto e tutti?Passi un movimento politico di cui è padrone, in tutti i sensi, un comico in vena di fare politica; passi che l’antipolitica possa essere un modo di fare politica; passi che gli esponenti di questo movimento siano impreparati, inesperti, incapaci come stanno ampiamente dimostrando; passi che il sistema debba guadarsi dalle proprie travi più che dalle pagliuzze dei grillini; passi che i disastri di Roma non siano stati opera dei pentastellati; passi che finora il grillismo abbia cercato di dare voce istituzionale alla rabbia popolare; passi che l’Europa debba darsi una bella regolata; passi tutto quel che volete. Ma arriverà pure il giorno in cui chi piccona, distrugge, abbatte, sarà chiamato a spiegare cosa propone in cambio, cosa è capace di costruire sulle macerie che continua a sbadilare.Bisogna che i grillini si rassegnino a questo esame-finestra. Grillo lo sa da tempo e cerca disperatamente di allontanare questo momento nel tempo, di giocare sempre di sponda, proprio come fanno i comici in teatro con qualcuno che gli deve fare da spalla. Mi sembra che anche per lui il tempo stia arrivando. A meno che non si illuda di entrare nel circo massimo succhiando le ruote di Trump e Putin. A volte basterebbe avere un po’ di senso della misura.

Un caffè a Sanremo e a Bologna

Da una parte l’apoteosi del Festival di Sanremo dall’altra la rivolta studentesca bolognese. Rivendico totale estraneità rispetto alla kermesse sanremese, non faccio parte dei dodici milioni di italiani che, poco o tanto, l’hanno seguito. Non per questo mi sento solo ed emarginato, anzi. Mi dà molto fastidio però l’autoreferenzialità della Rai che fino a prova contraria non appartiene solo a quei dodici milioni di telespettatori, ma a tutti i cittadini che pagano il canone.Rai news 24 ha trasmesso in diretta la conferenza stampa finale tenuta dai responsabili e conduttori di questa manifestazione (a proposito, che differenza di classe fra l’insopportabile Carlo Conti e l’inossidabile Pippo Baudo!): uno spazio eccessivo se paragonato a quello riservato col contagocce alle conferenze stampa del Presidente del Consiglio o di importanti esponenti politici (non c’è mai tempo, bisogna andare in pubblicità, c’è il rischio di scontentare qualcuno, etc. ). Mi sono ricordato di quanto mi disse al teatro Regio un mio carissimo amico impegnato in politica durante una serata inaugurale negli anni settanta, caratterizzata da proteste sociali fuori dal teatro: c’era un enorme schieramento di polizia a difesa del pubblico elegantissimo che entrava e verso il quale volavano uova marce, ortaggi vari, escrementi e rifiuti solidi e liquidi. Mi prese da parte e mi confidò: «Tanta polizia mobilitata in difesa e a protezione di “quattro cagone” che vengono qui a sfoggiare le loro toilette, mentre ai politici vogliono negare la scorta…sarà giusto?». Era infatti un periodo in cui andava di moda contestare l’impegno di uomini e mezzi a copertura degli esponenti di governo nel mirino della contestazione violenta.Tanto spazio, tanta considerazione, tanta reverenza ai cagoni esibitisi sul palcoscenico di Sanremo e tanto scetticismo verso la politica.Mio padre, che era un dissacratore nato, prevedeva, ai suoi tempi, che il popolino avrebbe facilmente osannato un divo dello spettacolo e probabilmente snobbato, se non pernacchiato, uno scienziato: il classico evento capace di distrarre l’opinione pubblica dai problemi reali, creando lo spazio per far passare sotto silenzio anche le più brutte situazioni. Diceva testualmente: «Se a Pärma a ven Sofia Loren, i fan i pugn pr’andärla a veddor; se ven Alexander Fleming ig scorezon adrè’…».Poi leggo in questi giorni di un revival della contestazione studentesca in quel di Bologna: disordini, manganellate, casini vari. Cerco di capire la motivazione: tutto contro i tondelli installati per i controlli all’ingresso alla biblioteca universitaria. Tutto lì? Sembrerebbe di sì. Se è così non mi ritrovo, nel modo più assoluto, nemmeno dalla parte di quegli scalmanati che giocano a fare i rivoluzionari. Non scomodiamo, per cortesia, il sessantotto, il settantasette: rischiamo di dare i numeri del lotto. Altra storia, altro clima, altri movimenti. E allora io alla fine dove mi colloco? Nella elite snobistica dei “né con Sanremo né con le proteste giovanili”? Nel salotto buono di mezzo? Nella vedovanza politica? Nel ricovero dei vecchi barbogi? Tra i nostalgici dell’ “andava meglio quando andava peggio”?Una mia carissima amica, quando parla di me dice: «Ennio? Scrive, scrive…». Lascia intendere che forse mi rifugio troppo in me stesso.Il grande Ermanno Olmi sostiene paradossalmente che vale più un caffè con gli amici della lettura di centinaia di libri. Sarà il caso che io legga e scriva un po’ meno e che stia più in compagnia con gli altri. Se non per condividere, almeno per capire e non solo per criticare.