Diritti: toccata e fuga della democrazia

Alla sacrosanta ansia di vedere finalmente riconosciuti dalla legge alcuni diritti fondamentali della persona fa riscontro una scarsa attenzione mista a paure ancestrali e tatticismi strumentali da parte del Parlamento e delle forze politiche: in mezzo, bisogna ammetterlo, un po’ per necessità un po’ per esagerazione, ci sta un confuso panorama, talora caratterizzato da pericolose fughe in avanti, che finisce inopinatamente col ritardare ulteriormente l’intervento del legislatore.

È il caso dei bimbi figli di due papà, nati con l’utero in affitto e riconosciuti tali da certi magistrati in vena di sentenze creative. Queste spinte giudiziarie possono avere il sotterraneo e provocatorio intento di smuovere l’inerzia del Parlamento, ma possono finire col creare un clima sbagliato in cui si può avere la sensazione che qualcuno stia cercando di esagerare, abusando dei diritti prima ancora che vengano legalmente riconosciuti.

Il panorama è piuttosto complesso: si va dalle nozze gay alla maternità surrogata, dalla fecondazione in vitro al suicidio assistito, dal testamento biologico all’eutanasia vera e propria.

Il nostro Paese è assai limitato su queste materie: anche i più critici osservatori del Renzismo devono ammettere tuttavia che, nel campo dei diritti civili, i pochi passi avanti fatti (unioni civili e non solo…) sono merito di questo tanto bistrattato governo.

Se i diritti non vanno alla persona, la persona va ai diritti. E allora ecco un vero e proprio pendolarismo, messo in atto da chi si può permettere di aggirare l’ostacolo approdando in quegli Stati in cui la legislazione è molto più “permissiva”. In questi giorni sono state pubblicate vere e proprie mappe geografiche dei diritti civili, entro cui muoversi alla ricerca, in certi casi drammatica, di uno sbocco positivo alle proprie esigenze vitali.

Perché il legislatore italiano fa tanta fatica ad affrontare positivamente queste delicate ma imprescindibili materie? Domanda legittima per rispondere alla quale è necessario sprofondare in una storia fatta di scarsa laicità della politica, dovuta soprattutto ad una scelta strategica errata del PCI, che barattò, in un impossibile ed assurdo compromesso con la Chiesa e con l’elettorato cattolico, la rinuncia ai diritti civili in cambio di attenzione e appoggio sui diritti sociali (l’interclassismo DC però coprì questo campo) e sulla possibilità (ben presto rivelatasi illusoria) di partecipare al governo del Paese. Persino in vista del divorzio si replicò questo schema che venne definitivamente (?) sconfitto. Rimase tuttavia sulla politica italiana il riflesso di questa laicità condizionata, che permane tuttora, nonostante l’atteggiamento assai meno invasivo del Vaticano in clima bergogliano.

Stringi stringi il dibattito parlamentare resta imprigionato fra il bigottismo leale delle Paola Binetti, il puritanesimo strumentale delle Eugenia Roccella, il “crociatismo” populistico della Lega, il solito contrattualistico approccio dei berlusconiani, i tentennamenti pseudo-coscienziosi dei piddini e il velleitarismo dei grillini. Ne sortisce, in Parlamento, un diluvio di bozze, di emendamenti, di discussioni sterili e inconcludenti. A livello giudiziario un maldestro tentativo di coprire gli spazi vuoti. A livello popolare una sostanziale indifferenza all’insegna “dell’ognuno si tenga i suoi problemi, ché io ne ho già abbastanza dei miei”. Il permanente e coraggioso occhio vigile dei radicali non riesce a tener viva l’attenzione nemmeno trasgredendo con l’adozione e l’appoggio di iniziative ai limiti della legalità.

A proposito di Eugenia Roccella, deputata e allora sottosegretaria al Welfare nel governo Berlusconi, che si schierò, a fini meramente demagogici, contro la sentenza sull’interruzione dei trattamenti sanitari a Eluana Englaro, dirò che, durante la mia breve frequentazione di una casa di riposo in cui era ricoverata mia sorella, di fronte a certi drammatici casi di sopravvivenza forzata, mi venne spontaneo esclamare ripetutamente, rivolto alle operatrici impegnate in queste pratiche assistenziali e alle prese con difficoltà enormi: «Andate a chiamare Eugenia Roccella, lei sì che se ne intende e vi può aiutare…». Mi guardavano e non capivano. Forse pensavano che l’ambiente mi stesse contagiando.

Le persone più gravemente malate di quella casa di riposo saranno probabilmente nel frattempo decedute, ma Eugenia Roccella è ancora lì sui banchi parlamentari a pontificare ed a sparare cazzate sul testamento biologico: «È una legge ideologica, che apre all’eutanasia. L’alimentazione artificiale serve a mantenere in vita chiunque, non è una terapia. Se gliel’avessero tolta, Fabo avrebbe potuto morire anche in Italia». Andasse a quel paese, lei e tutte le Roccelle del mondo!

Tornando ai discorsi seri, la legge sul biotestamento sarà nelle aule parlamentari il prossimo 13 marzo: ciò non vuol dire che il discorso si sbloccherà definitivamente. Speriamo in un rigurgito di senso di responsabilità e di coscienza democratica.

Se parliamo di coscienza democratica se ne vedono di tutti i colori. Le stranezze per la democrazia non so se siano il suo bello, ma sicuramente non mancano. Mi riferisco ad esempio al dibattito parlamentare in Gran Bretagna sulla brexit. Ebbene, il governo conservatore di Theresa May ha varato un certo percorso di uscita tendente a contrattare con l’Unione Europea la permanenza dei tre milioni di cittadini europei in territorio inglese a condizioni di ottenere analoghe garanzie per il milione di britannici residenti negli altri Paesi della Ue. Questa procedura compromissoria è stata ampiamente approvata dalla Camera dei Comuni, il rampo parlamentare di elezione popolare e democratica, mentre ha trovato un imprevisto alt nella Camera dei Lord, la camera alta del parlamento britannico, i cui membri non sono eletti bensì nominati, un’assemblea calata dall’alto, rimasuglio di una impostazione istituzionale monarchica e nobiliare. Ebbene i lord hanno votato contro con   ampio scarto. La baronessa laburista   Hayter ha così motivato il suo orientamento rivelatosi maggioritario: «Sarebbe disumano considerare gli Europei che vivono e lavorano tra noi alla stregua di merce di scambio nelle trattative». Un’autentica lezione di democrazia, di accoglienza, di rispetto per le minoranze, di europeismo. Non si sa come andrà a finire la questione specifica, peraltro di grande rilevanza internazionale. Ma l’episodio mi ha fatto riflettere. Ci voleva una baronessa inglese a spiegarci e ricordarci cos’è la democrazia?! Meditate parlamentari italiani, meditate…

La cavalcata delle Valchirie antirenziane

La vicenda giudiziaria che sta avvolgendo Matteo Renzi puzza di prefabbricato lontano un miglio. C’erano le avvisaglie da tempo al punto da far profetizzare a Stefano Folli, opinionista de la Repubblica, parecchio tempo fa, “l’avvio di una fase di ostilità i cui riflessi sono difficili da valutare oggi”. E proseguiva con “Il problema è: Renzi e il suo governo sono in grado di reggere una ripresa di iniziative giudiziarie ad ampio spettro? L’effetto destabilizzante di una tale offensiva non ha bisogno di essere illustrato”.

Ebbene potremmo dire che siamo arrivati al dunque: proprio nel momento di maggior debolezza renziana, dopo la sconfitta al referendum costituzionale, dopo le dimissioni da premier, dopo la spaccatura del partito democratico, dopo l’indizione di un congresso difficile e contrastato, ritornano a galla, con ulteriori elementi, tutti da valutare giudizialmente, ma comunque sbattuti in prima pagina, indagini – con il coinvolgimento, a diverso titolo, del padre, di uno stretto collaboratore nonché ministro e di alcuni amici di Renzi – inerenti un possibile inquinamento affaristico nelle procedure di assegnazione degli appalti da parte della Consip, la centrale unica degli acquisti delle Pubbliche amministrazioni, controllata dal Tesoro e protagonista della metà dello shopping di beni e servizi nel settore pubblico.

Il fatto insospettisce per la cronometrica dinamica innescata, per l’ovvia e immediata cavalcata delle Valchirie politiche nemiche, per il clamore mediatico abilmente confezionato, per il clima da spallata definitiva al tanto odiato personaggio, che ha osato rompere le uova in troppi panieri.

Renzi è indubbiamente stretto d’assedio da due punti di vista: giudiziario e politico.

Sul piano legale fa benissimo a rimettersi totalmente al corso della giustizia, a confermare piena fiducia nell’operato della magistratura, accantonando ogni e qualsiasi dubbio sul protagonismo dei giudici, senza cedere alla tentazione dell’asse antigiudiziario, senza ricadere minimamente nell’errore caratteristico del berlusconismo di cui porteremo le nefaste conseguenze per sempre.

Resta tuttavia, sul piano politico, il dubbio atroce, abilmente sollecitato e coltivato dagli antirenziani sparsi dappertutto, che possa essersi venuto a creare, direttamente o indirettamente, in capo a Matteo Renzi un ganglio affaristico condizionante certi importanti rapporti tra politica e mondo imprenditoriale. Questa situazione non so se sia affrontabile e dipanabile facendo solo ricorso al (giusto) garantismo universale o se necessiti di qualche altro intervento. E se sì, quale.

Occorre, a mio giudizio, fare una cospicua premessa. La Costituzione Italiana all’articolo 54 recita testualmente: «I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge». Siccome i costituenti erano bravi e lungimiranti, ma non capaci di fare miracoli, non potevano prevedere chi e come si sarebbe potuta operare una verifica al riguardo.

Vedo, quindi, sostanzialmente, due strade percorribili: una in salita e una in discesa. La prima, quella più impervia e difficile, consiste nel chiarire per filo e per segno, nei limiti del possibile, le situazioni, non tanto quelle oggetto di inchieste giudiziarie, ma quelle di base: quali rapporti esistevano con questi personaggi e questi mondi presi di mira dalle inchieste; quali precauzioni sono state adottate per evitare intromissioni e deviazioni; quali regole vigevano nei rapporti con i collaboratori più stretti e con la struttura burocratica del governo; c’erano e, se c’erano, quali sforzi si sono fatti per illuminare il più possibile le zone d’ombra che potevano e possono sussistere nei rapporti tra il governo del Paese e i più forti interessi economici. Domande tutt’altro che retoriche e scontate. Credo che i cittadini, al di là delle indotte tentazioni dell’anti-politica, abbiano il diritto-dovere e forse anche il desiderio di capire, prima di giudicare. Aiutiamoli a farlo.

Vengo alla seconda strada, quella in discesa, quella che taglierebbe la testa al toro, quella dell’aprire improvvisamente la porta quando in molti spingono per abbatterla. Farsi da parte in attesa che la magistratura chiarisca e ristabilisca la verità. Non un atto di resa, ma di rispetto verso i cittadini e le istituzioni. Si dirà che così facendo si finisce con l’ammettere errori od omissioni, col dare soddisfazione a chi aveva l’esclusivo intento di distruggere una prospettiva politica: può essere vero, ma sarebbe anche il modo per spostare (innalzare) il discorso dallo scontro politico avvelenato, dalla palude delle contestazioni reciproche al senso di responsabilità del mettere in primo piano gli interessi del Paese e le difficoltà che sta vivendo.

Sono personalmente un “dimissionista” spinto e quindi perfettamente consapevole di aggiungere e sovrapporre una mia predisposizione psicologica all’analisi obiettiva di una situazione delicata e complessa. D’altra parte ho affrontato con sano realismo il discorso in tutti i suoi possibili sbocchi.

Non nascondo di essere ancor più infastidito dal clima di grilloparlantismo che si è venuto a creare sull’operato del governo Renzi in questi tre anni: in troppi tranciano giudizi sommari, superficiali e parziali. In poche parole Renzi doveva fare tutto, presto e bene, mentre i suoi predecessori hanno fatto poco, spesso lentamente e talora male. Ma di questo, semmai, parleremo in una prossima ravvicinata occasione. Ad ogni giorno basta la sua pena.

Le ossessioni europee

Di fronte a un problema importante, delicato e complesso, come quello dei rapporti con l’Unione Europea, si stanno consolidando due atteggiamenti radicalmente negativi e pericolosi: da una parte l’ostilità dell’antieuropeismo sostanzialmente motivato dal vivere il legame con la Ue come una cappa burocratica opprimente; dall’altra la rassegnata e sofferta autocolpevolizzazione per i conti pubblici in disordine, soprattutto rispetto ai parametri fissati in sede europea.

A ben pensarci, sono le due facce della stessa medaglia, che ci confina ai margini della comunità europea col rischio di vivere fermi sulla soglia pronti ad uscire o ad essere buttati fuori.

In questo periodo, al di là del pilatesco “libro bianco” delle buone intenzioni di Jean-Claude Juncker, troppi personaggi, commissari, tecnici, economisti, quasi sempre in evidente contrasto fra di loro, ci offrono le loro ripetizioni dopo averci continuamente rimandato al prossimo e ravvicinato esame: chi muore rigoristicamente dalla voglia di bacchettarci, chi cerca flessibilisticamente e paternalisticamente di allungarci una mano, pochi rispettano i nostri problemi e le nostre capacità.

Tutto sommato penso a volte che il nostro obiettivo “sgarrare” rispetto ai parametri del debito pubblico e del deficit di bilancio sia non solo l’occasione per contenerci entro i limiti della convivenza economico-finanziaria, ma il pretesto (?) per giudicarci e relegarci nella fascia dei partner inaffidabili e pericolosi.

La nostra immediata e orgogliosa reazione dovrebbe essere quella che ci suggeriva spesso il presidente Sandro Pertini: l’Italia non è prima né seconda a nessuno! Poi però bisogna anche ammettere che chi è causa del suo mal deve piangere su se stesso.

Mi riferisco all’esito del recente referendum sulle riforme costituzionali. Ci eravamo faticosamente costruiti una certa e ragionata credibilità avviando un virtuoso percorso di rinnovamento strutturale del nostro Paese, dal mercato del lavoro alla pubblica amministrazione, dalla giustizia ai diritti individuali, dall’economia alle istituzioni. Lo abbiamo bruscamente e scriteriatamente interrotto e riprenderlo non sarà facile, pur con tutto il rispetto per Paolo Gentiloni ed il suo governo (che non è affatto una fotocopia del precedente).

Abbiamo altresì dissipato, con quello sbrigativo ed irrazionale No, un piccolo patrimonio di autorevolezza riferibile anche “all’euforico carisma renziano” ed alla sua capacità di rapportarsi alla pari con i partner europei, persino i più sussiegosi, e con le forze politiche del socialismo a livello continentale.

Tutto si è fatto più difficile, ci siamo messi in stand by e ne soffriamo le conseguenze. A livello europeo si stanno sicuramente chiedendo: dove va l’Italia del (quasi) dopo-Renzi? E noi cosa rispondiamo? Per il momento siamo stati in grado di garantire una minimale continuità di governo (Gentiloni, ma soprattutto Padoan), un rigoroso rispetto istituzionale e costituzionale (Mattarella) assieme ad una situazione politica estremamente incerta (le divisioni e fratture del PD) e con prospettive inquietanti (i lepenisti nostrani si chiamino Salvini o Grillo).

Questa situazione dovrebbe o potrebbe teoricamente perdurare fino alla scadenza naturale della legislatura: oltre un anno di problematica continuità all’insegna dell’instabilità. Può bastare? Comincio seriamente a dubitarne.

Dobbiamo ammettere quindi che sulla data delle prossime elezioni politiche non influisce solo la necessità di avere una seria legge elettorale, di affrontare i problemi e gli appuntamenti urgenti, di decantare le scaramucce politiche di vario tipo, di superare i malumori del dopo-referendum cercando magari di evitare i referendum che si profilano all’orizzonte. Teniamo conto anche dell’Europa. È pur vero che altri Stati Europei sono in stand by in attesa dell’esito di incertissime consultazioni elettorali (Olanda, Francia, Germania), ma l’Italia all’incertezza del suo quadro politico aggiunge quella della sua situazione economico-finanziaria. Una zeppa che probabilmente non ci possiamo permettere.

Sono sempre stato piuttosto perplesso sul ricorso anticipato alle urne, perché ho sempre ritenuto che comportasse un aggravamento dei problemi assieme ad una complicazione nella loro soluzione: la democrazia non è solo votare e rivotare. Questa volta ammetto di essere molto più possibilista sul voto anticipato, complice l’Europa con le sue provocatorie ma ineludibili reprimende.

 

 

Il fine-vita e la fine di una certa Chiesa

Il cardinale Carlo Maria Martini non era certo un porporato che amasse il proscenio e che sparasse giudizi avventati o immotivati: era uomo di grande equilibrio, ma coraggiosamente profetico. Quando diceva che la Chiesa era indietro di cento anni rispetto al mondo contemporaneo, rendeva perfettamente l’idea dei ritardi culturali, teologici e pastorali che ne zavorrano la vita.

Durante il papato di Ratzinger, alla cui elezione aveva probabilmente contribuito sulla base di un patto di compromesso che almeno smussasse gli angoli più acuti e pericolosi della dottrina e della prassi cattolica (qualcuno parlò di un vero e proprio lodo, redatto da padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia), il cardinal Martini ogni tanto, soprattutto in corrispondenza di certi atteggiamenti retrogradi emergenti nelle alte sfere vaticane, si sentiva in libera uscita e diceva la sua, senza troppi freni con interviste e interventi sulla stampa laica.

Ricordo che, quando venivo confortato da questi pronunciamenti autorevoli, immaginavo il dramma interiore di questo ammirevole ed autorevole uomo di Chiesa: davanti a certi rigurgiti reazionari, a certe posizioni assurdamente dogmatiche, per non dire burocratiche, probabilmente adempiva al dovere di tenere accesa la lampada conciliare, dimostrando l’esistenza di un sano pluralismo ed evidenziando l’esigenza di un profondo rinnovamento (se non erro non escludeva neppure la celebrazione di un nuovo concilio).

È vero che il cammino del popolo di Dio, emergente dalla Bibbia e dalla tradizione cristiana, è illuminato dai profeti, i quali hanno fatto tutti, più o meno, una brutta fine ed hanno visto le loro ragioni riconosciute a distanza di parecchio tempo. Niente di nuovo quindi sotto la cupola e sopra la cattedra di S. Pietro. I ritardi sono, oserei dire, connaturali alla Chiesa Istituzione, alla religione quando si allontana dall’ispirazione della fede (il Vangelo) per battere i sentieri dei principi e delle regole, ai cristiani quando intendono saperne e dirne più di Cristo stesso.

Lavorando di fantasia mi piace pensare al cardinal Martini che dall’aldilà, nel 2013, dialoga fittamente niente meno che con lo Spirito Santo e lo convince ad intervenire: la misura della necessità di rinnovamento è colma. Arrivano le improvvise, ma meditate e lungimiranti, dimissioni di Benedetto XVI e poi la nomina a papa di Bergoglio, il quale già con la scelta del nome e coi primi gesti dà l’idea dell’inizio di una nuova fase nella vita della Chiesa cattolica.

Dagli approfondimenti in cui mi sono cimentato, in materia di sessualità e di etica in genere, mi sono creato un’idea sul significato del pontificato bergogliano e sulla svolta da lui impressa. I passi avanti ci sono stati, non tanto nel merito delle questioni delicatissime tuttora aperte, ma nello stile per affrontarle e viverle. Faccio due esempi.

La pratica omosessuale e le unioni fra omosessuali non sono state sdoganate da millenni di oscurantismo, ma è cambiato tuttavia l’approccio della Chiesa verso queste sorelle e questi fratelli, che non vengono più giudicati ma accolti, condannati ma compresi, emarginati ma inseriti.

Oggi, in pieno pontificato di Francesco, a Piergiorgio Welby non sarebbe stato negato il sacrosanto diritto di un funerale religioso in nome di un fantomatico e farisaico rispetto della vita.

Potrei continuare con i divorziati, per i quali non si ha ancora il coraggio di una promozione piena e totale nelle loro nuove esperienze sentimentali, ma si è rispolverata una prassi (quasi) uscita dalla porta scolastica e rientrata dalla finestra curiale, vale a dire una sorta di giudizio d’appello dopo apposito corso di recupero. Almeno, questi cristiani non si sentiranno più bollati e segnati a dito come avveniva in un passato anche recente.

Non siamo ancora arrivati alla meta, resta sempre quel non so che di calato dall’alto, proprio l’esatto contrario dell’essenza del cristianesimo, che non è una gentile concessione di un Dio giudice, ma la totale incarnazione di Dio nella vita umana.

Provate a pensare tuttavia cosa sarebbe probabilmente successo prima del pontificato di Francesco, davanti all’episodio drammatico e sconvolgente di Fabiano Antoniani. Oggi il Papa ha taciuto sul punto, mentre gli esponenti più in vista della CEI si sono esercitati in felpate dichiarazioni: nessuna aperta condanna, ma solo il richiamo al dono della vita (che vuol dire tutto e niente). Anche il cosiddetto giornale dei vescovi, Avvenire, sta tenendo un atteggiamento dialogante ed equilibrato.

Il teologo e giornalista Gianni Gennari, non certo un rivoluzionario in materia ecclesiale e religiosa, ha dichiarato: «Che ci sia un clima nuovo nella Chiesa mi pare evidente. Il clima è quello dell’integrare, del dare assistenza, dell’essere vicini anche a chi eventualmente avesse deciso di morire, come ha detto Papa Francesco pochi giorni fa riferendosi all’accoglienza che i sacerdoti devono riservare alle coppie che convivono. Non scordiamoci che Gesù si è fatto dare un bacio da Giuda. Per quale motivo? Perché non giudicava, ma amava. È un clima che Francesco ha portato nella Chiesa ereditandolo da Papa Giovanni, dal Concilio, in ultima analisi dallo stesso Vangelo. Risiede qui, anche, il motivo delle resistenze mossegli da coloro che pensano di avere il diritto di decidere chi deve stare dentro e chi fuori della Chiesa. Mentre il Signore è venuto per i peccatori e la salvezza è aperta a tutti».

Si tratta sicuramente di un bel passo avanti, che però non mi soddisfa pienamente. Per spiegarmi meglio riporterò un episodio accadutomi molti anni or sono. Ai tempi del referendum sul divorzio, come redattori del settimanale diocesano “Vita Nuova”, chiedemmo un incontro al Vescovo e ci fu concesso: fu chiarificatore ma in senso negativo. Il Vescovo ribadì che a suo giudizio noi (favorevoli all’istituzione del divorzio) eravamo totalmente fuori strada e, pur concedendoci la buona fede, ci considerava ai limiti della comunione ecclesiale: stavamo sbagliando, dovevamo riconoscerlo. A quel punto ricordo di essere intervenuto rincarando la dose ed affermando come ritenessi di avere diritto ad esprimere il mio parere anche su questioni di carattere ecclesiale, più che mai su questioni politiche anche se collegate a problemi etici e come non tutta la gerarchia fosse schierata sulle posizioni assunte così rigidamente dal Vescovo. Gli dissi precisamente: “Sappia monsignore che non tutti i suoi confratelli nell’episcopato la pensano esattamente come Lei!”. La riposta fu: “Non è vero!”. Si chiuse negativamente l’incontro anche e soprattutto perché non si era creato un vero clima di dialogo.

Dal 1974 ad oggi, dal vescovo di Parma mons. Amilcare Pasini all’ odierno mons. Enrico Solmi, da papa Montini a papa Bergoglio, in materia di sessualità e di etica con tutti gli annessi e connessi, è cambiato qualcosa? Nello stile di dialogo e nell’approccio pastorale sì, nel merito dei problemi siamo ancora purtroppo dentro al parametro di Martini (cento anni di ritardo).

D’altra parte, papa Bergoglio, pur essendo un convinto ed autorevole seguace di Martini al punto da esserne il candidato papa in pectore, non è il papa quale avrebbe potuto essere   Martini.

In cauda venenum. Una cosa è certa. Al di là di tutti gli stucchevoli dibattiti in corso, la triste realtà rimane la seguente. L’unico suicidio assistito ammesso in Italia è quello dei carcerati, che si tolgono la vita nelle loro celle, nell’indifferenza burocratica, politica, istituzionale ed ecclesiale (con l’unica eccezione del partito radicale). Un modo, il peggiore possibile, per consentire la fine della vita tramite un drammatico gesto di autodeterminazione personale.

 

 

 

Due mesi di passione per il Partito Democratico

Se, come scrivevo ieri, per il movimento dei democratici progressisti (i protagonisti della scissione) è cominciata la “quaresima” degli equivoci, per il partito democratico è iniziato, in netto anticipo sul calendario liturgico, il periodo di “passione”, un congresso partito nel segno delle tessere comprate e dei colpi bassi tra i candidati.

Durante il periodo della mia militanza nella DC, ormai purtroppo lontano, a significare la mia inesorabile età piuttosto avanzata (sono vecchio insomma!), mi capitò di svolgere la funzione di segretario di una importante sezione periferica di partito: gli avversari interni la chiamavano sezione vietcong, in quanto era gestita da un gruppetto dirigente appartenente alla corrente di sinistra, che dava qualche grattacapo al livello provinciale dominato dalle correnti di centro (li chiamavano dorotei in senso piuttosto spregiativo, anche se in realtà il motivo era dovuto al fatto che quella grossa corrente democristiana si era formata alla fine degli anni cinquanta in antitesi ai fanfaniani, riunendosi a Roma in un convento dedicato a Santa Dorotea).

Le operazioni del tesseramento erano purtroppo condizionate e talvolta inquinate dal gioco correntizio e soprattutto da certi bruttissimi meccanismi clientelari facilmente immaginabili: i gruppi di potere tentavano di contare sempre di più rafforzandosi a suon di tessere. Durante un periodo di tesseramento piuttosto vivace volli procedere ad una verifica molto semplice, in quanto temevo che queste adesioni fossero troppe, ingiustificate e magari fasulle. Presi le nuove domande di ammissione e andai, accompagnato da un altro componente del direttivo sezionale, a far visita a questi aspiranti soci presso le loro abitazioni. Ebbene i dubbi si rivelarono, in parecchi casi, certezze: adesioni di cui gli interessati non sapevano nulla o su cui comunque non erano d’accordo, firme falsificate, etc. etc. Partirono denunce ai probiviri con proposte di espulsione per gli iscritti che avevano avallato queste domande fasulle. I probiviri non si riunirono mai e rimase comunque intatto questo antico costume volto a condizionare irregolarmente gli equilibri interni di partito.

In questi giorni, manco a farlo apposta, non appena si è sentito l’odore di congresso, all’interno del PD, soprattutto in aree meridionali (Campania, ma forse non solo in questa regione), sono scoppiati i casi di tessere comprate, di tessere on line pagate tutte dalla stessa persona, di sospetti boom di tessere in certe zone, di volate finali all’accaparramento di nuovi iscritti. Niente di nuovo sotto il sole. Ricordo come, ai tempi sopra evocati, il tesseramento DC toccasse punte incredibili nei periodo ante-congressi, mentre segnava il passo nei periodi congressualmente morti.

I personaggi più critici verso la gestione renziana del PD agganciavano le loro critiche anche al calo di tesserati in atto da qualche tempo: sembra non sia proprio così. Il tesseramento 2016 conclusosi in questi giorni avrebbe visto una aumento del 5%, passando dai 385.320 del 2015 ai circa 400 mila del 2016. Differenze oltretutto abbastanza omogenee tra nord, centro, sud e isole.

Mi auguro che il recupero non sia avvenuto solo ed esclusivamente sull’impulso dato dalle clientele pre-congressuali: forse esageravano gli anti-renziani, forse ballano nel manico i sostenitori-organizzativi dei tre candidati alla segreteria.

Poi c’è il solito Massimo D’Alema che sparge veleni alla sua maniera: «Le primarie non sono una cosa seria. Sono una specie di Festival di Sanremo. Vedrete che a Salerno voterà più gente che a Genova. Questa volta oltre a Forza Italia andranno a votare Renzi anche i Cinquestelle che mi hanno detto: noi ci stiamo mobilitando perché con Renzi segretario siamo sicuri di vincere le elezioni». Ma i potenziali scissionisti non avevano chiesto a gran voce un congresso di rivincita? e adesso che sono fuori dal partito il congresso è diventato il festival di Sanremo. Le primarie non dovevano servire proprio ad evitare i giochi di corrente e le battaglie di apparato? ed ora le squalificano in partenza, dando per scontate intromissioni spurie e strumentali.

Lasciamo perdere poi i grillini che i congressi li fanno nell’ufficio della Casaleggio e c., che le primarie le tengono sul web con la partecipazione di risibili quantità di simpatizzanti e che bevono (forse sempre meno per la verità) il verbo vaffanculeggiante del Beppe, loro padrone assoluto.

Mentre Berlusconi ha una paura folle delle primarie, dice peste e corna dei suoi tradizionali uomini e si diverte a rompere i coglioni ai potenziali partner di coalizione.

E questi sarebbero i censori del PD, capaci di sventolare cartellini rossi in faccia ai democratici? Ma fatemi il piacere. Lo dice uno che si è allontanato dal PD, rendendosi conto che questo partito rischiava e rischia di avere tutti i difetti della vecchia Democrazia cristiana, senza averne i pregi. Ma a tutto c’è un limite, dettato almeno dal buongusto.

Torniamo ai democratici. Ci sono anche le prime scaramucce tra i candidati, che non lasciano sperare niente di buono. Michele Emiliano, contestato per il suo ormai storico balletto tra magistratura e politica, si difende sposando senza alcun pudore le cause populiste (sarebbe meglio dire qualunquiste) più spinte: niente compenso per i politici, come a Cuba. Andrea Orlando, ministro della giustizia, fa finta di non aver appoggiato Renzi in questi anni e si atteggia a interprete perbenista dello scontento dall’interno, strizzando l’occhio ai fuorusciti. Matteo Renzi, al quale non verranno certo risparmiati colpi bassi (Emiliano ha già cominciato, spifferando ai giornali certi sms compromettenti per gli amici e i parenti di Renzi), e che vedo più a suo agio nei panni di un premier d’assalto che di un segretario di sintesi, avrà vita molto più dura di quanto pensasse e credo affronterà la kermesse all’insegna del motto “la miglior difesa è l’attacco”.

Da ultimo arriva il novantenne Rino Formica, grosso esponente craxiano doc, a fare, con una certa arguzia (bisogna ammetterlo), le pulci a Renzi e al PD. Renzi, a suo dire, sarebbe ostaggio degli ex-democristiani annidati nel partito democratico, non avrebbe cultura politica, sarebbe il prototipo del provinciale che va in città, quello che entra nel negozio di lusso e tocca la merce, l’annusa… Per fortuna aggiunge che Luigi Di Maio avrebbe la dimensione politica del consigliere comunale. Da ultimo confessa di scrivere e leggere, ben sette giornali al giorno. Forse sarebbe ancora in tempo per riflettere seriamente sui disastri del craxismo o almeno per leggere, scrivere e…tacere.

 

 

La quaresima dei Democratici Progressisti

È cominciata la quaresima, quella seria, prevista dal calendario liturgico della Chiesa cattolica, ma è partita anche quella poco seria del PD e del DP (la sua costola rotta).

Mentre il partito democratico ha iniziato la celebrazione del suo incasinato congresso, i democratici e progressisti, diciamo pure, per capirci meglio, gli amici di Bersani e D’Alema, stanno infarcendo di luoghi comuni l’inizio del loro problematico cammino.

Hanno cominciato subito a giocare sull’equivoco del nome (DP contra PD). I segretari del vecchio PCI non si volevano confondere con i loro avversari di sinistra al punto che nelle tribune elettorali si presentavano con un grosso cartello del loro simbolo: volevano chiaramente dire che i veri comunisti erano loro e consigliavano di diffidare dalle imitazioni. I promotori della scissione in casa democratica invece scelgono una sigla fatta apposta per creare ulteriore confusione, probabilmente nella speranza che qualcuno cominci da subito a confondersi.

Anche il nome “democratici e progressisti” non è di grande fantasia. Francesco Rutelli sostiene che l’aggettivo “democratico” era stato messo in campo per significare il coagulo delle forze di varia ispirazione, collocabili in una sinistra non ideologica e liberal (all’americana insomma). Quindi, niente di nuovo si direbbe. L’aggettivo progressisti, in aggiunta, è quasi pleonastico e tende solo a screditare chi si chiama solo democratico e viene pertanto considerato “regressista”, se non addirittura reazionario, molto peggio quindi di riformista o moderato (la storia si ripete: Turati, Saragat, Nenni si rivoltano nella tomba…).

Ai DP sono venuti in immediato soccorso i precipitosi fuorusciti dall’appena nata Sinistra Italiana (Si), una brutta sigla con le arie che tirano dal 04 dicembre scorso in avanti. A livello parlamentare sono quasi il 50% di questo nuovo movimento. Sì, perché l’altro equivoco luogo comune è che si tratterebbe non di un partito, ma di un movimento: quale sia la differenza non mi è dato di capire. Se non fossero presenti nelle Istituzioni potrebbe anche essere un discorso credibile, ma dal momento che stanno contandosi a tutti i livelli istituzionali possibili e immaginabili, non vedo quale possa essere la distinzione, se non quella di buttare ulteriore fumo negli occhi al popolo della sinistra già fin troppo disperso nella nebbia.

Poi c’è il certificato di nascita: figlio di…n.n. A chi tenta di dare una paternità responsabile a questa manovra viene sistematicamente risposto di No. D’Alema: i DP non c’entrano niente con le sue smanie vendicative. Bersani: è uno dei tanti (?), che vogliono solo rispolverare l’orgoglio della vera sinistra di popolo. Rossi e Speranza: lasciamo perdere, sono occasionali protagonisti di una battaglia ben più profonda e articolata. Emiliano si è eclissato. Cuperlo è rimasto dentro il Pd, disallineato e scoperto. Allora insomma, questa scissione chi l’ha voluta? Renzi! Già dimenticavo che Renzi è il responsabile di tutto quello che non va, però in questo caso allora non va nemmeno il Dp…

E cosa faranno nei confronti dell’attuale governo? Lo appoggeranno convintamente seppure cercando di portarlo su posizioni più di sinistra. Ma, quando il governo Gentiloni era appena nato, Bersani e c. non dicevano di concedergli solo una fiducia minuto per minuto, provvedimento per provvedimento? Come si diceva sopra, Bersani non è il pater familias e poi questo governo serve a prendere tempo e quindi va benissimo.

In prospettiva, dal momento che i DP si dichiarano movimento di lotta e di governo, con chi pensano di allearsi per governare, per il semplice fatto che difficilmente avranno da soli la maggioranza in Parlamento? Col Partito democratico, a condizione che il segretario non sia più Renzi e che i programmi cambino in modo sostanziale. Un movimento-partito quindi che fa il tifo contro, roba da anti-renziani convinti, come gli anti-juventini nel calcio: l’importante è che non vinca Renzi, poi, se per caso vincerà il centro-destra, pazienza e, se dovesse prevalere Grillo, tutto il mal non verrebbe per nuocere.

E nelle regioni e nei comuni in cui i DP sono in maggioranza con gli odiati ex compagni cosa succede? Per il momento niente, stanno ad aspettare perché pensano di avere un grosso consenso a livello territoriale e quindi…

E con l’Europa come la mettono? Vogliono recuperare le fasce di popolazione che sono o si sentono emarginate, ma queste votano per i populisti, che a loro volta sono antieuropeisti.

Allora bisogna essere europeisti che vogliono riformare l’Europa. Ma non ha sempre detto e fatto così in primis proprio Renzi. Sì, ma…

Evviva la chiarezza!

Il cuore oltre la religione e dentro le leggi

“Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito”, così si esprimeva Gesù di Nazaret contro l’establishment clericale dell’epoca. Mi sono tornate nitidamente alla memoria queste parole evangeliche ascoltando le reazioni da parte di autorevoli esponenti della Chiesa cattolica istituzionale e quelle di tanti suoi freddi e bigotti sostenitori, in merito ai drammatici problemi del fine vita.

Ho messo in contrapposizione le asettiche elucubrazioni dogmatiche di molti cattolici alle sconvolgenti testimonianze dei parenti di persone, disperatamente ma dignitosamente, sottopostesi al suicidio assistito: soggetti per i quali, in coscienza, la vita non aveva più un senso. Non ho potuto che misurare l’atroce distanza che corre tra la religione delle regole e la fede in Dio che si concretizza nella compassione verso i fratelli sofferenti. Un abisso di equivoco degno dell’ipocrisia di scribi, farisei e dottori della legge: quelli che hanno messo in croce Gesù, così come oggi mettono in croce i Piergiorgio Welby, le Eluana Englaro, i Lucio Magri e i Fabiano Antoniani. La dico grossa se faccio il paragone con il fanatismo dei jihadisti musulmani? Forse sì, ma lo faccio ugualmente.

Preferisco tuttavia riflettere in positivo, rifacendomi ancora una volta per un attimo alla parabola evangelica del Padre misericordioso, la più eloquente sull’atteggiamento divino nei confronti della creatura umana. Provo a parafrasarla mettendo al posto del figlio prodigo un malato terminale (il caso più clamoroso che in un certo senso li riassume tutti). Non ce la fa più a sopportare il dolore, è disperato, non trova più la forza di vivere e dice fra sé: «Voglio tornare da mio padre, perché non riesco più ad andare avanti così…». Il padre commosso lo accoglierà a braccia aperte e gli dirà: «Ti aspettavo, ho visto che non riuscivi più a reggere la situazione e hai fatto bene a tornare, è tutto finito, ora sei con me e voglio che tu sia felice con me, non ci lasceremo più…». Ci sarà anche il figlio rompicoglioni che insorgerà e protesterà: «Ma tu non ci hai insegnato che la vita è sacra e che solo tu ce la puoi dare e togliere…». E allora il padre ribatterà: « Tu hai fatto tutto quel che potevi per alleviare le sofferenze di questo tuo fratello? Questo era il tuo compito. Tocca a me giudicare se questo tuo fratello non riusciva più umanamente a vivere, solo io posso capirlo perché ho sofferto con lui e per lui e ora lo prendo con me nella vita eterna che gli ho conquistato sulla Croce». E si farà festa…

Sono partito dal discorso religioso non per sottovalutare la dimensione laica di questi problemi, ma perché credo che dove ci sta il più ci stia anche il meno. Infatti, se anche il Padre eterno (per chi crede) avrà questo atteggiamento comprensivo e rispettoso, a maggior ragione il legislatore civile (per tutti) dovrà affrontare con analoghi atteggiamenti i drammi dei cittadini giunti ai limiti della sofferenza umana.

Davanti a questi sconvolgenti vicende non bisogna sfoderare le armi del leguleio, ma le sensibilità del legislatore, per normare con delicatezza e non per tranciare giudizi, per alleviare le sofferenze concrete e non per difendere principi astratti.

Solo chi condivide la sofferenza, o almeno è sensibile verso chi soffre, può fare buone leggi in tutti i campi, soprattutto in materie che toccano i cittadini nel vivo della loro carne.

In conclusione mi concedo una digressione, quasi una battuta. Penso non debba essere l’onorevole Gaetano Quagliariello o altri parlamentari proni alle volontà clericali, in vena di pontificare ad ogni piè sospinto sulla sacralità della vita, a decidere come devo morire (uno spunto polemico felice di Pierluigi Bersani); aggiungo non deve essere neanche Paola Binetti, né i cardinali Müller, Runini o Bagnasco e nemmeno il Papa a stabilire come dovrò morire. Lo deciderò ascoltando la mia coscienza e, siccome sono credente, mettendomi di fronte al mio Dio, quello che mi ha annunciato e testimoniato suo Figlio Gesù.

Un calcio degli (e agli) allenatori

Il pianeta calcio è condizionato dal tormentone continuo degli allenatori e dall’impellente bisogno di stadi nuovi, tutti da costruire e poi…da riempire.

In primo piano ci sono gli allenatori, che vanno e vengono, che litigano con i presidenti e con i giocatori, che discutono con gli arbitri, che oscillano tra stucchevoli interviste e penosi silenzi stampa, che si mettono sul mercato ancor prima di aver finito il loro compito, che aggiungono un deprimente non-spettacolo allo spettacolo. Fino a qualche tempo fa ero dalla loro parte, li consideravo un po’ le predestinate vittime sacrificali degli inevitabili insuccessi dei più e i precari protagonisti dei trionfi dei meno. Ora il discorso sta cambiando: hanno rubato la scena e se la tengono ben stretta, trovano sempre e comunque un motivo per stare in passerella, vincano o perdano, parlino o stiano zitti, stiano sugli altari o cadano nella polvere.

Credo sia un modo per implementare un bacino d’utenza che si sta assottigliando e per contribuire a spostare ulteriormente l’attenzione dal calcio giocato al calcio parlato, dai campi agli studi televisivi: in questa sarabanda si sta imponendo maliziosamente la figura dell’allenatore quale deus ex machina. Un tempo pagava per tutti, adesso tutti pagano per lui: è al centro della Kermesse, è il capo-comico, tutto ruota intorno a lui nel bene e nel male. Anche nei bar, storica e collaudata sede della discussione calcistica, si parla non tanto dei calciatori ma di schemi e ruoli, di sostituzioni e di formazioni. Non siamo solo tutti selezionatori della nazionale di calcio, ma siamo diventati addirittura tutti allenatori a tempo pieno.

Al termine di un incontro di calcio di tanto tempo fa, finito molto male per il Parma, l’allenatore Canforini fu accolto all’uscita dagli spogliatoi da una pioggia di sputi. Mio padre lo imparò il giorno successivo dalle cronache del giornale, perché evitava scrupolosamente i dopo-partita più o meno caldi. Ne rimase seriamente turbato dal punto di vista umano e reagì, alla sua maniera, dicendomi: «E vót che mi, parchè al Pärma l’ à pèrs, spuda adòs a un òmm, a l’alenadór? Mo lu ‘l fa al so mestér cme mi fagh al mèj. Sarìss cme dir che se mi a m’ ven mäl ‘na camra al padrón ‘d ca’ al me dovrìss spudär adòs! Al m’la farà rifär, al me tgnirà zò un po’ ‘d sòld, mo basta acsì».

Mio padre esercitava il mestiere di imbianchino e quegli sputi se li era sentiti addosso. Non poteva concepire un’offesa del genere, soprattutto in conseguenza di un fatto normalissimo anche se spiacevole: perdere una partita di calcio. Non so però se sarebbe altrettanto comprensivo nei confronti degli allenatori odierni, diventati tutti insopportabili primedonne, quando vengono ingaggiati e sembrano i salvatori della patria, quando vengono esonerati e sembrano le vittime predestinate di un sopruso (magari il sopruso lo hanno fatto loro intascando garantiti compensi da nababbo), quando parlano o non parlano con i giornalisti i quali ne fanno dei maghi del pallone, quando dettano ai loro presidenti acquisti di giocatori importanti e costosi per poi magari farli sedere in panchina in base ai loro astrusi ed assurdi tatticismi, quando trattano i calciatori come pedine sulla loro virtuale scacchiera, quando urlano e sbraitano in continuazione per farsi vedere dalle telecamere finendo con l’infastidire e creare confusione alla squadra, quando si stracciano le vesti per la minima incongruenza degli arbitraggi martirizzando l’incolpevole quarto uomo, quando dopo le partite assumono il tono di Mosè che scende dal monte Sinai, quando durante il campionato non sanno dove tenere il culo e continuano a tessere rapporti con altre squadre preparandosi vantaggiose vie di fuga.

Tuttavia davanti agli stadi vuoti non basta il primadonnismo degli allenatori, bisogna pensare di trasformare gli impianti sportivi in operazioni immobiliari prima e, dopo, in contenitori polivalenti per tornare a catturare l’attenzione delle tifoserie allontanatesi soprattutto a causa del clima violento e della corruzione pallonata, nonché per il fatto che la vacca viene munta dalle Tv a pagamento. Gli stadi in Italia vengono riempiti al 55% ed è già un miracolo, se si pensa a quanto avviene fuori e dentro di essi, prima durante e dopo le partite che in essi si svolgono (non mi riferisco solo ai putiferi scatenati dagli ultras più o meno prezzolati).

Il calcio si muove come un enorme carrozzone autoreferenziale all’ombra del quale mangiano migliaia di persone discettando sul fatto se un giocatore debba essere una mezza-punta o un trequartista (forse sono la stessa cosa, ma ci sima capiti…).

Mia madre, quando osservava il contesto entro cui si collocava il calcio giocato, si chiedeva, alla sua maniera, cosa sarebbero andati a fare tutti quei buoni a nulla se improvvisamente il fenomenale pallone fosse scoppiato.

È un mondo che riesce a influenzare tutto e tutti, compresa la politica, che coinvolge interessi enormi. Nei miei retropensieri ci sono due curiosità che vorrei soddisfare. Primo: leggere con occhio professionale (me lo sono fatto non per merito, ma per pura pratica) i bilanci delle società di calcio. Ci devono essere tali e tanti scheletri negli armadi del calcio da far impallidire i cimiteri. Secondo: sapere quanto vengono pagati gli inutili e fastidiosi commentatori tecnici che disturbano le telecronache. Mi accontento di poco.

Per evitare accuratamente di cadere nel calcio (s)parlato mio padre pretendeva che il dopo partita durasse i pochi minuti utili per uscire dallo stadio, scambiare le ultime impressioni, sgranocchiare le noccioline, guadagnare la strada di casa e poi…. Poi basta. “Adésa n’in parlèmma pu fìnna a domenica ch’ vén”.

Si chiudeva drasticamente e precipitosamente l’avventura calcistica in modo da non lasciare spazio a code pericolose ed alienanti, a rimasticature assurde e penose. Sarebbe sempre più in difficoltà. Probabilmente avrebbe da tempo gettato la spugna.

Un’amica mi ha recentemente chiesto: «Ma tu segui le partite di calcio? Non ti ci vedo in questa versione». Dopo averla ringraziata del complimento, le ho risposto: «Qualche rara volta le guardo in Tv, giusto per rilassarmi un po’…o per incazzarmi ancora di più…non per i risultati ma per tutto quel che vi ruota intorno…».

La piaga infetta dell’assenteismo

Le recenti retate sui dipendenti pubblici assenteisti, al di là del facile e sterile moralismo che possono innescare, inducono a riflettere seriamente. Innanzitutto è perfettamente inutile che ci scandalizziamo della corruzione dilagante in campo politico: mi pare che valga anche in questo caso l’espressione evangelica “chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Il marciume nella nostra società è molto diffuso; è pur vero che il buon esempio dovrebbe venire dall’alto, ma è altrettanto vero che l’infezione può partire anche dalla periferia per arrivare al centro del corpo di una persona come del corpo sociale.

Viene soprattutto spontaneo riproporsi la verifica dello storico e problematico “assioma” secondo il quale ogni popolo avrebbe la classe politica che merita. Certamente, a livello di base, la mancanza di civismo, di cui il senso del dovere è il fondamento, è il presupposto per innescare un rapporto democratico debole all’interno del quale facilmente possono annidarsi l’affarismo e la corruzione. Allo stesso e invertito modo il rappresentante del popolo, che si comporta scorrettamente o commette addirittura dei reati nell’esercizio delle sue funzioni, rappresenta una “istigazione a delinquere” per i suoi rappresentati. Il rischio di questa triste corrispondenza biunivoca non deve però rappresentare il motivo di una sconfortata rassegnazione e di una retrocessione qualunquistica nel proprio guscio anti-sociale e anti-politico. Sarebbe il disastro annunciato per la democrazia e per una civile convivenza.

C’è un concetto a livello religioso molto interessante al riguardo: il peccato oltre a creare un danno spirituale e morale all’individuo che lo commette, reca una ferita mortale a tutta la comunità di cui quell’individuo è parte (per il catechismo cattolico, se non vado errato, alla Chiesa, cioè al corpo di cui i battezzati sono parte integrante).

È un discorso che può valere anche per il corpo della società civile. Se io non lavoro e quindi rubo lo stipendio, reco un danno che si ripercuote a catena su tutta la comunità: impoverisco le casse pubbliche, tolgo il lavoro ad un altro soggetto che lo potrebbe svolgere meglio, danneggio i cittadini ai quali dovrei recare un servizio, induco in tentazione i miei colleghi, avallo un’immagine contraffatta dell’apparato pubblico, in poche parole danneggio tutto e tutti.

Pensiamo all’ospedale napoletano risultato teatro di smaccato assenteismo (stando almeno ai risultati di una indagine dei carabinieri). Prendiamo un medico che si assenta dal lavoro facendosi timbrare il cartellino da un collega: sicuramente, come minimo dovrà restituire il “favore”; indebolirà la struttura a danno dei malati presenti in corsia; giustificherà analoghi comportamenti degli infermieri e del personale ausiliario e magari indurrà all’omertà i suoi superiori; alla lunga danneggerà il bilancio dell’ospedale che, in qualche modo, dovrà far fronte a queste sommerse lacune dell’organico; screditerà un intera categoria professionale; potrà addirittura spostare l’utenza sulle strutture private creando diseconomie e diffusa sfiducia verso il sistema sanitario pubblico. Uno dei tanti esempi che si possono fare, senza voler criminalizzare alcuna categoria.

Forse siamo troppo abituati a scaricare le colpe, per quanto non va nella nostra società, sulle strutture e sulle istituzioni: dobbiamo avere l’umiltà e la pazienza di guardare anche ai comportamenti individuali a tutti i livelli.

C’è però anche un’altra figura retorica da scomodare: se la radice è malata, tutte le parti della pianta ne soffrono fino a morirne. Rimanendo teoricamente nel campo sanitario, se il ministro della salute pubblica intasca tangenti dalle case farmaceutiche o dalle cliniche private, come può pretendere che gli operatori sanitari si comportino onestamente e correttamente, facendo il loro dovere.

I pazienti lettori di questi miei pistolotti giornalieri dovranno abituarsi ai miei frequenti richiami agli insegnamenti paterni, molti dei quali peraltro potranno essere letti nel libro contenuto nell’apposita sezione di questo sito.

Riporto di seguito   un episodio che la dice lunga sull’etica del lavoro. In un cantiere edile in cui lavorava, mio padre assistette alle continue, reiterate, pesanti rimostranze di due operai nei confronti del loro datore di lavoro, assente dalla scena ma non per questo meno osteggiato. Tra un improperio e l’altro i due lavoratori cercavano di preparare una tavola di legno da utilizzare non so come. Dopo un paio d’ore si accorsero di avere sbagliato tutto e che la tavola era inutilizzabile. Mio padre aveva una linguaccia che non poteva star ferma e li rimproverò di brutto dicendo: “Al vostor padrón al sarà gram, mo sarà dificcil ch’al s’ faga di gran sòld cól vostor lavór”. Questa, a casa mia, si chiama onestà intellettuale.   Era solito dire:“Primma äd tutt fa bén al to’ lavor e po’ a t’ pól fär tutti il batalj sindacäli ch’a t’ vól”. Anche il sindacato, non certamente esente da colpe nel difendere sempre tutti, anche i fannulloni, prenda, incarti e porti a casa.

Chiudo con un’altra citazione paterna sul tema della diffusa e radicata corruzione nella nostra società. Mio padre dava una interpretazione colorita e semplice delle situazioni aggrovigliate al limite della legalità. Diceva infatti con malcelato sarcasmo: «Bisogna butär tùtt in tazér parchè ris’cia ‘d mandär in galera dal comèss fin al sìndich, tùtti invisciè…». Se volete, una sorta di versione da osteria della visione affaristico-massonica della nostra società.

Qualcuno, volendo dissacrare il mitico detto “il lavoro nobilita l’uomo” gli fa la provocatoria aggiunta “e lo rende simile alla bestia”. Sarei d’accordo con una semplice correzione, a condizione cioè di inserire in mezzo “l’assenteismo”, in modo che l’espressione suoni così: “il lavoro nobilita l’uomo e l’assenteismo lo rende simile alla bestia”.

Il capitalismo ha le ingiustizie scontate

Chissà perché mi è venuto spontaneo accostare due notizie di questi giorni: l’indagine sullo sfruttamento del lavoro delle braccianti in Puglia e il tetto Rai ai compensi per i collaboratori artistici e i super giornalisti.

Da una parte c’è chi muore di fatica per due euro l’ora nelle campagne baresi, ingaggiato e oppresso dai moderni racket camuffati da agenzie interinali, dall’altra chi guadagna milioni di euro in televisione senza avere peraltro grandi doti e capacità e senza far fronte a gravi responsabilità.

Oltre alla palese e clamorosa ingiustizia, mi ha colpito la reazione a queste provocatorie disuguaglianze: l’indifferenza verso le poveracce oppresse e ricattate dal caporalato moderno (lo sostiene il procuratore di Trani); la preoccupazione di perdere i servigi di pochi fortunati costretti a guadagnare non più di 240 mila euro.

Dal momento che gli odierni veri sfruttati non hanno nemmeno la forza di protestare in piazza e di rompere qualche vetrina, nessuno sposa fino in fondo la loro causa, nemmeno i populisti sempre pronti a saltare sul carro delle varie ribellioni sociali, proprio quelli che contrastano l’arrivo degli immigrati che magari poi finiscono nel tremendo meccanismo del più bieco sfruttamento della mano d’opera.

È una vergogna che colpisce il nostro Paese, davanti alla quale sappiamo solo balbettare nuove leggi e propositi di controlli severi. Quanta apprensione invece per le nostre giornate televisive in Rai compromesse da un sacrosanto divieto allargato dai funzionari pubblici ai collaboratori della televisione di Stato. Ma chi se ne frega se le Tv private ingaggeranno questi personaggi rubandoli (?) alla Rai e quindi falseranno la concorrenza e l’audience!!! Vadano tutti a quel paese! Gente che per condurre un programma televisivo giornaliero guadagna intorno al milione e mezzo di euro…

Ricordo quando un mio cugino, persona semplice ma arguta, ipotizzava un’astronomica parcella per il chirurgo che doveva operare ad un ginocchio un miliardario divo del pallone. Diceva: «Se questo calciatore guadagna tanto, solo perché è capace di dare un calcio ad un pallone, cosa dovrebbe guadagnare un luminare della chirurgia capace di sistemargli il menisco…».

Siamo nel recinto capitalistico, laddove esplodono le maggiori incongruenze di un sistema, che, come titola un libro di Giorgio Ruffolo, avrà pure i secoli contati, che, come purtroppo insegna la storia, non ha alternative, vista la misera sorte avuta da esse e sulle cui macerie è risorto un capitalismo ancor più drastico e opprimente,   ma che deve essere corretto nei suoi meccanismi.

Quella di cui sopra sarebbe la vera sfida controcorrente per la sinistra politica dibattuta e combattuta in insulse diatribe identitarie, che non ha il coraggio (sic) di ipotizzare una Rai che faccia a meno di Carlo Conti, di mobilitare una task force che vada a snidare le vipere del vero sfruttamento   dei lavoratori in certe campagne e in certe fabbriche, smettendola di fare le pulci alla riforma dello statuto dei lavoratori e di coccolare e corteggiare il divismo annidato negli studi televisivi, pronto magari a fare da cassa di risonanza ai pruriti sinistrorsi ed alle personalistiche fratture di Tizio e Caio.

A proposito del libro sopra citato, è in bella mostra sugli scaffali della mia biblioteca: non ho il coraggio di leggerlo, perché temo di rivalutare i fantasmi anticapitalisti del passato e di ripiombare in certe tentazioni pericolose, con il vantaggio però di mandare affanculo gli odierni personaggi che giocano alla caccia al tesoro di chi è più nominalmente di sinistra.