Correggimi, se non sbaglio

Mentre i premier europei stavano balbettando le solite parole di circostanza sul futuro della Ue, esce la notizia che Londra dovrà rispondere all’abbandonanda Europa per circa due miliardi di truffa sulle importazioni cinesi. Piove sul bagnato della brexit.

Cosa succedeva? Da quanto ho potuto capire, la Gran Bretagna faceva da ponte alle esportazioni cinesi nel settore tessile e calzaturiero verso il territorio europeo, che venivano colpite da tassazione molto leggera (0,91 euro per un chilo di prodotto importato, rispetto ai 17 euro della Germania e i 137 del Lussemburgo)   e quindi smistate in tutto il continente a prezzi ulteriormente ribassati con grave pregiudizio per l’industria degli altri Paesi manifatturieri. Gli Inglesi col loro comportamento permissivo hanno lucrato vantaggi dall’aumento del traffico di merci sul loro territorio, hanno indirettamente sottratto fondi alla Ue (i proventi dei dazi vanno infatti per l’80% nelle casse comunitarie e nel caso venivano applicati con tariffe stracciate e addirittura su valori sottostimati), hanno danneggiato le industrie dei Paesi partner produttori di calzature e tessuti (Italia in primis).

Poi gli Italiani sarebbero disonesti e approfittatori. Tutto il mondo è paese, nel nostro caso tutta l’Europa è paese. Vorrei però fare un altro tipo di riflessione meno etica e più politica.

L’Italia è costantemente sul banco degli imputati (forse solo degli indagati) per comportamento trasgressivo verso le regole comunitarie in parecchi campi, dall’economia ai diritti civili, dal bilancio alle carceri. Ben venisse, se fosse uno stimolo positivo a migliorare e a progredire sulla strada dell’integrazione europea. Purtroppo resta una continua e professorale contumelia, politicamente frustrante ed economicamente squalificante.

Più che di Europa a due velocità integrative, si può parlare di Europa a due velocità correttive. Tutti sgarrano, in modo anche pesante, tutti fanno i cazzi loro, solo l’Italia (in compagnia della Grecia) deve sottostare a questa gogna perpetua.

Gli Inglesi nell’Europa non hanno mai creduto, hanno fatti i loro porci comodi, sul più bello hanno deciso di uscirne, hanno creato danni a destra e manca, finiranno col non pagare alcun dazio (in senso proprio e figurato), si atteggiano a più amici tra gli amici degli USA, trattano la brexit come se ne andasse a loro.

I Tedeschi si sentono i primi della classe, hanno un enorme surplus commerciale che danneggia gli altri e che si guardano bene dal reinvestire per la crescita economica complessiva, si sono unificati con l’aiuto dell’Europa, adesso nessuno li schioda dalla cattedra in cui si sono autocollocati.

Se sbaglio…mi corregge Mattarella

I Francesi sono europeisti a targhe alterne, giocano sempre sull’equivoco, si appoggiano opportunisticamente alla Germania, violano bellamente i parametri di bilancio, rischiano politicamente di trascinarci tutti nel loro baratro lepenista, tengono i piedi in due paia di scarpe, quelle del mediterraneo e quelle del nord-europa, combinano disastri a livello internazionale (vedi scriteriata guerra alla Libia di Gheddafi), sono corrotti come e più degli altri, hanno una classe politica di basso profilo, ma…sono la France, tutto il resto conta poco, vive la France.

Non voglio dare ulteriore sfogo a storiche riserve mentali, né scadere a livello di comodi e facili pregiudizi. Quel che è vero, è però vero. Sono curioso, per tornare all’argomento contingente dei dazi sulle importazioni dalla Cina, di vedere alla fine quanto pagherà la Gran Bretagna dei due miliardi di euro accertati a livello di frode dall’autorità competente di Bruxelles.

In un certo senso mi risponde il Presidente della Repubblica, che dice: «Non viene, alle volte, adeguatamente rammentato che, dopo due guerre mondiali devastanti nate in Europa, dopo gli stermini di massa provocati da fanatismi nazionali, da rivalità e contrasti di interessi economici, alcuni statisti illuminati – e i loro popoli che allora li hanno seguiti – hanno scelto la strada della collaborazione e dello sviluppo in comune. Tutto questo ha comportato decenni di pace e di benessere crescente mai verificatosi in Europa nel corso della storia. Questo valore è incommensurabile. Non c’è difetto dell’Unione Europea, non c’è carenza nel suo modo di essere e di vivere che possa giustificare il ritorno alle rivalità, alla diffidenza, ai contrasti e al pericolo che si ritorni a quello che abbiamo voluto lasciarci alle spalle oltre mezzo secolo addietro».

Accetto con grande rispetto la bacchettata. Non ritiro quel che oggi ho scritto: ormai è scritto. Ringrazio il Presidente. Accolgo la lezione, ripasserò la storia, rinnoverò la mia fede europeista come si fa con le promesse battesimali durante la Veglia Pasquale. Il mio grande e indimenticabile amico Giampiero Rubiconi scriveva nei suoi sparpagliati pensierini: «Correggimi, se non sbaglio». Ho l’ardire di ripeterlo a Sergio Mattarella.

Crescete e…non moltiplicatevi

Gli esperti non sono affatto d’accordo sul rapporto tra le risorse del nostro pianeta e le esigenze dei suoi abitanti. Secondo una corrente di pensiero prevalentemente laica gli uomini sulla terra sarebbero troppi e mal distribuiti e bisognerebbe di conseguenza mettere in atto morbide e civili procedure di controllo delle nascite, soprattutto in certe aree sottosviluppate, proprie quelle in cui il tasso di natalità è più alto.

A queste opinioni si contrappongono coloro, prevalentemente di matrice cattolica, che sostengono come le risorse sarebbero più che sufficienti agli abitanti del pianeta, anche in prospettiva, a condizione che fossero equamente e proporzionalmente distribuite, senza alcuna necessità quindi di calare dall’alto meccanismi di contenimento delle nascite.

Sono due approcci molto diversi che partono oltretutto da dati scientifici e statistici contrapposti. Viene spontaneo chiedersi: bastano o no le risorse a coprire adeguatamente le necessità di tutti   i cittadini del mondo? Domanda a cui nessuno, credo, possa dare risposte precise.

Ragion per cui propendo per stare, come si suol dire, nei primi danni. Pur condividendo appieno la tesi di chi auspica un’equa distribuzione dei beni, concentrati in poche mani mentre i molti soffrono e rischiano di morire d’inedia, non mi pare il caso di insistere sul no etico al controllo delle nascite per i popoli in cui tale controllo semmai viene di fatto eseguito a livello di mortalità infantile e dovuta a denutrizione e malattie conseguenti a (per dire poco) precarie condizioni igienico sanitarie.

Ritengo quindi socialmente arretrata e dogmaticamente arroccata la posizione della Chiesa cattolica, allorquando non ammette una seria e ragionata istituzione di procedure anticoncezionali. Ricordo che mia sorella, cattolica convinta e praticante, di fronte alle immagini di popolazioni sofferenti per fame e denutrizione, diceva senza evidenziare dubbio alcuno: «Occorrono vagoni e vagoni di pillole anticoncezionali, altro che balle…».

Tanto come di fronte alla piaga dell’AIDS: si sta a sottilizzare sulla liceità dell’uso del   preservativo, mentre migliaia di persone muoiono distrutte da questo virus. «Vagoni e vagoni di preservativi, altro che balle…» aggiungo io. D’altra parte i missionari, unici portatori credibili di principi cristiani in questi ambienti martoriati, credo non si facciano alcun scrupolo nel distribuire preservativi a difesa dell’integrità fisica di tante persone. Qualcuno, bello come il sole, dice che non basta e che il metodo non è sicuro. Beh, intanto cominciamo così, poi viene il resto…

Certamente viene il discorso politico dell’equa distribuzione delle risorse: problema enorme che li riassume tutti. Quindi non mi sembra possibile affrontarlo in questa sede, se non per auspicare che tutti facciano l’impossibile per superare la vergognosa situazione esistente.

Vorrei invece spendere due parole sui dati della natalità nel nostro Paese, nettamente ed in continuo calo, dovuto, a detta dei soliti sociologi chiacchieroni, alla difficoltà nell’occupazione giovanile, al problema abitativo, alle carenze nei servizi all’infanzia, alle deboli politiche di sostegno alla famiglia e alle coppie giovani.

Si è radicata l’idea che, in poche parole, in Italia si facciano pochi figli, perché le condizioni economiche delle nuove generazioni sono piuttosto critiche. Non ne sono mai stato convinto. A supporto dei miei dubbi ricordo innanzitutto quanto mi diceva un carissimo amico di una certa età: «Se ai miei tempi si fosse aspettato a sposarsi e a fare figli di avere lavoro, casa, condizioni economiche, discrete, stabilità, etc., non si sarebbe sposato nessuno e nessuno avrebbe fatto figli, invece…». Osservazioni molto elementari, sociologia spicciola, a volte molto meglio di quella sbandierata prezzolatamene sui giornali e sui media in genere.

Poi arrivano anche i dati statistici, che, se non erro, dimostrano come ci sia una corrispondenza storica tra aumento del benessere e calo della natalità. E allora? Tutto diverso da quel che si sostiene con tanta enfasi. Può darsi che la verità stia nel mezzo.

Se guardo ai miei genitori ed alla storia della mia famiglia posso raccontarvi che mio padre e mia madre si sposarono senza alcuna copertura economica alle spalle: mio padre era un lavoratore edile e quindi soffriva una disoccupazione stagionale piuttosto prolungata, mia madre aveva l’intenzione di aprire un laboratorietto di maglieria (sapeva l’arte, ma sposandosi l’aveva messa da parte, in attesa di risorse da investire), la casa era una topaia in comune con la famiglia paterna di origine. Mia sorella nacque in questo contesto. Io nacqui a distanza di tempo, quando la situazione era un pochettino migliorata, ma feci in tempo a trascorrere la mia prima infanzia in un ambiente di grande e dignitosa povertà. Poi le cose, pian piano, a furia di enormi sacrifici, migliorarono. Se i miei potenziali genitori avessero adottato le loro scelte esistenziali sulla base dei criteri odierni, io sarei ancora nella mente di Dio. Magari l’umanità ci avrebbe guadagnato, ma questo è un altro discorso.

 

Giovani per gioco

Intervista televisiva su Rai news 24. Si parla della triste morte di un tredicenne travolto, in provincia di Catanzaro, sui binari da un treno in corsa. L’ipotesi è che si sia trattato di un gioco o di una prova di coraggio a livello di gruppo: scattare un selfie con un treno che sta sopraggiungendo, per poi magari circolarizzarne l’immagine a livello internet. Uno ci lascia le penne, gli altri amici si salvano per un pelo oppure osservano inorriditi.

Un tempo si diceva: divertimento innocuo per bambini scemi. Oggi bisognerebbe correggere questo modo di dire: divertimento estremo per ragazzi alienati.

Prima però due parole a commento dell’intervista. La cronista di turno parla con l’avvocatessa di uno dei ragazzi sopravvissuti, la quale esclude categoricamente si sia trattato di un selfie estremo. Sembra più preoccupata della buona riuscita dell’inquadratura su di sé e della propria acconciatura che non del chiarimento sul drammatico caso. Da parte sua l’intervistatrice prende atto burocraticamente delle affermazioni, ma non le passa nemmeno per l’anticamera del cervello di chiedere all’avvocatessa: “Allora, se lei è così sicura su come sono andati i fatti al punto da poter con certezza escludere il tragico gioco, ci dica cosa è successo, ci aiuti a capire”. Nemmeno per sogno, tutto finisce lì. Mi sembra ci sia di che lavorare per Antonio Di Bella, il direttore di questo canale Rai. L’informazione è altra cosa, caro direttore. Lei personalmente la sa fare, gliene do atto con piacere e riconoscenza, ma i suoi collaboratori…

Mi auguro che la dinamica dell’incidente sia diversa rispetto alle prime ipotesi. Ho letto con angosciosa attenzione le ricostruzioni assai poco convincenti dei compagni sotto shock di questo ragazzo, che ridurrebbero l’episodio ad una bullistica escursione finita in tragedia: dal gioco estremo retrocederemmo alla bullata giocosa, ad una scorciatoia improvvisata con un dribbling ferroviario finito con un macabro e tragico autogol. Siamo comunque, credo, alla pura follia trasgressiva giovanile. Sarei ben contento di sbagliarmi, perché, almeno, la tragedia avrebbe motivazioni meno drammatiche e sconvolgenti.

Le cronache dicono tuttavia che non si tratti di episodi inediti: ancor peggio se sta diventando una corrente di “pensiero giovanile”. Il fatto non comporta, a mio avviso, alcun ulteriore commento, rappresenta infatti di per sé la (perfetta) sintesi etica, storica, sociologica, psicologica, politica dello sbando della nostra epoca.

Nello stesso giorno leggo alcuni stralci di un’intervista concessa dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, rilasciata a “La civiltà cattolica” in occasione della pubblicazione del numero 4mila di questa prestigiosa e interessante rivista.

Parlando di impegno sociale e politico il Presidente, con la connaturale profondità di pensiero e la credibile linearità di proposta, dice: «Non soltanto c’è la consapevolezza dell’esigenza di garantire ai giovani una certezza di prospettive, ma si avverte anche l’esigenza che si impegnino in maniera attiva nella vita istituzionale e politica. Tra le lettere dei condannati a morte della Resistenza c’è n’è una molto bella di un giovane di neanche vent’anni, il quale, la sera prima di essere fucilato dai nazifascisti, scrive ai genitori: “Tutto questo avviene perché voi un giorno non avete più voluto saperne di politica”». L’intervista prosegue, ma io mi fermo qui.

Facendo un ardito parallelismo, con grande commozione e forte inquietudine, provo ad immaginare cosa avrebbe potuto scrivere ai genitori quel giovane calabrese prima di mettere a repentaglio la vita per gioco. Ecco le parole della sua (im)probabile lettera: “Tutto questo avviene perché voi, e tutta la vostra generazione, non avete saputo testimoniarci cosa vuol dire vivere e allora noi, non capendo il senso della vita, rimasti bambini, abbiamo giocato a vivere e …a morire”.

Non ho fatto parte, per mia fortuna, ma soprattutto per merito dei miei educatori palesi ed occulti, dei giovani allo sbando esistenziale. Faccio parte però degli uomini che non hanno saputo testimoniare ai giovani un senso della vita o almeno il senso del cercare seriamente di vivere, ne sento tutta la responsabilità e la colpa, assieme a molti altri della mia generazione.

Armiamoci e…morite

Il 15 maggio 2014 Papa Francesco ai diplomatici di tutto il mondo, ricevuti in udienza, disse:   «Sarebbe un’assurda contraddizione parlare di pace, negoziare la pace e, al tempo stesso, promuovere o permettere il commercio delle armi».

Lo hanno preso in parola, al contrario di quanto volesse auspicare, e infatti chi parla più di pace? E coerentemente le spese militari sono cresciute di oltre l’otto per cento in cinque anni. Alcuni Stati, India, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Cina e Algeria, comprano il 34 per cento di tutte le armi presenti sul mercato. Usa e Russia vendono il 56 per cento del totale delle armi trafficate, ma anche Cina, Francia e Germania non scherzano col loro 18 per cento. Le cosiddette grandi potenze insomma infestano letteralmente di armi il mondo intero. L’Italia vende il 2,7 per cento del totale ed è ottava in classifica (niente male…), mentre è al 25esimo posto nella classifica degli importatori (da Usa, Germania, Israele). Tutti dati pubblicati di recente.

La cifra sconvolgente però è quella della spesa globale in armamenti che ha raggiunto 1.676 miliardi di dollari equivalenti al 2,3 per cento del prodotto interno lordo mondiale. In parole povere significa che su cento di beni e servizi prodotti nel mondo, 2,3 se ne vanno in armamenti. Non ho idea quante persone si potrebbero sfamare con questa cifra astronomica, ma non voglio fare demagogia sulla pelle di chi muore di fame e di sete.

Dicevo sopra che nessuno parla più di pace, ma di riarmo, di rafforzare le proprie difese (?), di aumentare la spesa militare: è un macabro botta e risposta innescato ultimamente dalla pazzia del nuovo presidente Usa a cui hanno risposto per le rime la Russia, la Cina etc. etc. Tira aria di corsa agli armamenti, convenzionali e nucleari. I destini nel mondo sono, come non mai, nella mani di personaggi incredibilmente inaffidabili, che oltretutto stanno facendo proseliti a livello di stati e di popoli. Mettete virtualmente intorno a un tavolo l’americano Donal Trump, il russo Vladimir Putin, il cinese Xi Jinping, il nord-coreano Kim Jong-un e magari aggiungete un posto per il turco Recep Tayyip Erdogan e provate a pensare cosa ne potrà sortire.

Si è creato un clima competitivo ed antagonistico tale da spingere la “Casa Nera” di Trump a dispiegare forze speciali per liberare Raqqa, la capitale siriana dello Stato islamico: in realtà solo la scriteriata voglia di invertire la tendenza obamiana del non-intervento e per creare i presupposti del sedersi a pieni titolo ai tavoli di guerra; la Corea del Nord si diverte a lancia a titolo sperimentale ordigni nucleari e gli Usa rispondono dispiegando nella Corea del Sud lo scudo anti-missile, che però non entusiasma gli ospitanti (?) di questo sistema protettivo e dà fastidio, e non poco, alla Cina. Detto fra i denti, l’atteggiamento della Cina sembra il più equilibrato e sensato: è tutto dire. Schermaglie atomiche, fiammiferi accesi che si aggirano intorno a un barile pieno di benzina.

Contemporaneamente si legge che (dati Onu) 100mila persone stanno morendo in Sud Sudan per la carestia. Secondo l’Unicef sono 10,2 milioni gli Etiopi che hanno urgente bisogno di aiuti alimentari. E purtroppo non sono i soli nel mondo.

Da una parte ci sono gli equilibri internazionali ricercati e basati da sempre sulla carne da cannone, dall’altra il pietismo internazionale fatto (spesso) business, in mezzo milioni di uomini che soffrono e muoiono di guerra, fame e sete.

E noi, che ci siamo fatti crescere un bel po’ di pelo sullo stomaco, facciamo finta di niente. Viviamo e speculiamo sulle miserie altrui e, se, per caso, qualcuno (ormai cominciano ad essere molti) ci viene ad interpellare, ci chiediamo e gli chiediamo come si permette di romperci le scatole e lo mettiamo alla porta.

Qualche pseudo-religione fa della fine catastrofica del mondo il proprio leitmotiv. Ma, se alziamo lo sguardo, quella che abbiamo sotto gli occhi non è già potenzialmente la fine del mondo? Cosa ci vuole di più?

Il dubbio atroce riguarda il cosa fare. Dobbiamo rimetterci al volere dei grandi sulla terra, scaricando su di loro le responsabilità, come se fossero degli alieni capitati per caso in mezzo a noi e non i rappresentanti di un (dis)ordine mondiale che ci coinvolge tutti?

Non voglio battere sempre sullo stesso chiodo, ma se andiamo dietro ai Trump collocati nel mondo, cosa pensiamo di ricavarne? Mi si dirà che anche gli Obama non hanno fatto granché. È vero, ma se diamo persa la partita, sarà arduo riuscire a vincerla o almeno a giocarla dignitosamente.

Sono partito dal Papa e passo a mio papà. Nella sua semplicità, quando osservava l’enorme quantità di armi prodotta, rimaneva sconfortato e concludeva per un inevitabile inasprirsi dei conflitti al fine di poter smaltire queste scorte diversamente invendute ed inutilizzate. «S’in fan miga dil guéri, cò nin fani ‘d tùtti chìli ärmi lì?» si chiedeva desolatamente.

Aveva ragione, ma non basta. Quando infatti ci presenteremo al trono dell’Altissimo non ce la potremo cavare al basso prezzo di scaricare sul sistema la responsabilità delle tragedie umane. Non sarà così facile saltarci fuori. Perché chi ci ha collocato su questa terra, affidandoci, fra l’altro, la mission di trattarla come un giardino, chiederà automaticamente: «E tu?». Io mi schifavo, scrivevo, parlavo, gridavo. «E poi?». Criticavo, condannavo, protestavo, mi agitavo. «Meglio di niente…e poi?». Urlavo che era tutto ingiusto e sbagliato. «Ascolta…ho capito non hai fatto niente» concluderà minacciosamente il Giudice dei vivi e dei morti.

Il Padre Eterno mi scuserà ma mi sovviene un gustoso episodio, che serve anche a sdrammatizzare la situazione, senza peraltro minimizzarla o sottovalutarla.

Nel periodo immediatamente successivo alla mia andata in pensione incontrai un arguto e simpatico conoscente, che mi chiese cosa stessi facendo dopo la svolta pensionistica della mia esistenza. Mi affannai a spiegargli come fossi impegnato a scrivere, a leggere, a dialogare, a mettere la mia esperienza a disposizione di Tizio e Caio, etc. Mi guardò e, tra il serio e il faceto mi gelò dicendomi: «Ho capito…non fai un cazzo!». Presi, incartai e portai a casa.

La patologica ordinaria trascuratezza

La fogliazione dei giornali quotidiani di oggi, 10 marzo 2017, concede largo spazio, nelle pagine successive alla prima, a notizie, argomenti e temi diversi, che, tuttavia, pur nel loro diverso rilievo e nella loro diversa natura sono, a mio giudizio, riconducibili ad un’unica singolare lettura e ad una medesima originale riflessione: in Italia si legifera, si governa, si amministra, si giudica con l’occhio rivolto allo straordinario, trascurando sciaguratamente l’ordinario, il quotidiano, la normalità, che diventa banale ma tragica dimenticanza.

Primo drammatico evento: crolla un viadotto sull’autostrada, muoiono schiacciate due persone sulla loro auto che transita occasionalmente e precipitano ferendosi tre operai che stavano lavorando accanto a quel viadotto per sopraelevarlo. Si cercheranno le cause di questo crollo: eventi simili si erano già verificati negli anni scorsi. Si doveva chiudere il transito su quel tratto autostradale sottostante? Si, no, nessuno al momento è in grado di dirlo. Il progetto dei lavori era valido? Risponderanno le perizie tecniche. C’è di mezzo un errore umano? Lo stabilirà la magistratura che determinerà eventuali responsabilità. Una cosa è certa: non si dovrebbe morire a causa di normali lavori di manutenzione. O non erano normali e allora qualcuno ha cannato di grosso o, se erano normali, non ci dovevano essere problemi tali da mettere a repentaglio vite umane. Probabilmente si tratta di lavori normali, eseguiti male e/o in ritardo e/o usando materiali inadatti e/o impiegando mano d’opera inadeguata. Insomma l’ordinarietà male affrontata, che diventa una trappola mortale.

Secondo evento di tutt’altro genere: i voucher d’ora in poi saranno utilizzati solo a certe condizioni e in casi riguardanti rapporti di lavoro indiscutibilmente non a tempo indeterminato e quindi di carattere meramente occasionale. La CGIL con la sua richiesta referendaria voleva eliminarli completamente con uno straordinario Sì all’abrogazione della legge che li regolamenta ed insiste su questa intenzione; il governa tenta di mantenerne in vigore l’uso ordinario volto soprattutto a sburocratizzare i rapporti di lavoro meno strutturati, facendoli tuttavia uscire dall’area nera.   Un altro caso di messa in discussione dell’approccio pragmatico all’ordinarietà della vita lavorativa, rifiutato da chi vuole straordinariamente (referendum) non vedere ed eliminare la quotidianità di lavori precari e temporanei.

Terzo evento in materia di diritti civili: il tribunale di Firenze accoglie le istanze presentate da due coppie gay per il riconoscimento di adozioni di bambini, intervenute all’estero. La legge italiana non ammette questo tipo di adozione, ma la magistratura ne riconosce ed ammette la legittima straordinarietà. Un altro caso di carenza nell’affrontare l’ordinarietà della vita per poi dover sistemare in qualche modo gli effetti straordinari conseguenti a tale carenza.

Quarto evento in materia di spending review: si era deciso straordinariamente di contenere l’uso degli aerei blu (voli di rappresentanza a disposizione delle cariche istituzionali), considerandoli uno spreco inutile e vendendoli di conseguenza, così come era stato deciso di fare per certi beni immobili demaniali inutilizzati. Niente da fare, ciò si è rivelato impossibile (per diversi motivi) e questi beni, usciti dalla ipotetica porta del parsimonioso straordinario, rientrano dalla realistica finestra dello spendaccione ordinario. Quattro esempi che ho posto, a prescindere dal merito delle materie che li sottendono. In poche parole si tende sempre e comunque a rincorrere l’ipotetica perfezione di interventi nuovi e definitivi a scapito degli interventi inquadrabili nella normale routine. Un po’ come succede quando in una famiglia si decide di cambiare casa e in attesa di questo nuovo investimento si tende a sottovalutare gli interventi di ordinaria manutenzione. Può avere un senso se la nuova casa arriva in fretta, diversamente rischia di caderci addosso la vecchia casa senza più bisogno di averne una nuova.

Anche nei programmi politici e nei giudizi sugli stessi tendiamo sempre ad alzare l’asticella in nome del cosiddetto benaltrismo. Voliamo alto e regolarmente non vediamo quel che avviene in basso, salvo poi precipitarci sopra. Persino il governo Gentiloni potrebbe finire cadendo, come nel baseball, in una sorta di “battuta di sacrificio” per ottenere i vantaggi futuri di un governo tutto da “inventare”.

Sarà forse il caso di darsi una regolata, a tutti i livelli, per dedicarsi innanzitutto e soprattutto a impostare e far ben funzionare l’esistente ed a migliorare l’ordinario, prima di rincorrere le sacrosante novità, che tuttavia rischiano di essere campate in aria. Bisognerà sbrigarsi a cambiare mentalità prima che arrivi chi garantisce l’ordinario a tutti i costi (leggi i treni in orario) e che la gente sia “costretta” a credergli. Tanto, se poi le promesse non vengono mantenute, chi se ne frega. Trump è stato eletto presidente degli USA in questo modo e per abbattere le illusioni ordinarie ci vorranno tempi straordinari.

 

Ragion di Stato e…di stadio

Papa Francesco, nell’ambito di una intervista rilasciata a “Scarp de’ tenis”, mensile di strada milanese, ha dichiarato riguardo agli immigrati: «Quelli che arrivano in Europa scappano dalla guerra o dalla fame. E noi siamo in qualche modo colpevoli perché sfruttiamo le loro terre, ma non facciamo alcun tipo di investimento affinché loro possano trarre beneficio. Hanno il diritto di emigrare e hanno diritto ad essere accolti e aiutati».

Angela Merkel, la cancelliera tedesca alla spasmodica ricerca di credibilità e di consenso sul delicato e complesso tema dell’immigrazione in vista delle prossime elezioni in cui si è ricandidata, lo ha preso in parola (si fa per dire) e, dopo essersi sbilanciata, qualche tempo fa, in aperture significative e coraggiose verso i disperati provenienti soprattutto dal martoriato territorio siriano, ha tirato il freno a mano, prima facendo sborsare alla UE un’enorme cifra alla Turchia in cambio di un impegno a contenere il flusso e a tamponare in qualche modo l’emorragia migratoria, attualmente andando in giro per l’Africa, offrendo, questa volta in proprio (le casse tedesche), a Egitto e Tunisia cospicui fondi (in totale sarebbero 750 milioni di euro) per ottenerne l’impegno a combattere gli scafisti, a collaborare ai rimpatri ed ai respingimenti.

Da paladina del diritto all’accoglienza si è trasformata in elemosiniera del “purché stiano a casa loro”. Mi sovviene una battuta che sparava spesso un mio carissimo e simpatico zio allorquando salutava un amico: «Veh, quand at me vôl gnir a catär…sta a ca tòvva».

Non si è investito per tempo in aiuti seri ai Paesi in via di sviluppo ed ora si cerca di correre ai ripari elargendo aiuti a Paesi, in certi casi di provata prassi anti-democratica, disposti a non andare tanto per il sottile con i potenziali migranti pur di incassare fondi che non si sa dove vadano a finire. In poche parole si appalta il lavoro sporco, mettendo formalmente a tacere la propria coscienza. Credo che papa Francesco intendesse qualcosa di diverso.

Una volta arrivati in Europa (almeno così succede spesso in Italia, altrove non so) gli immigrati vengono spesso ammassati in veri e propri ghetti a disposizione del caporalato che li sfrutta e li umilia. Poi quando diventano troppo ingombranti si incendiano le baracche in cui dormono, si procede a frettolosi e agghiaccianti sgomberi mettendo in azione le ruspe. E abbiamo persino il becco di ferro di sostenere che vengono a rubarci il pane e il lavoro. Se non è razzismo, cos’è?

Il razzismo rientra nel pacchetto dei peggiori istinti dell’uomo e lo stadio è un luogo dove si sfogano tali istinti, tra questi in primis l’odio razziale. Fino a qualche tempo fa i penosi governanti del mondo calcistico, che di sport non ha più nulla, mentre ha tutti i difetti possibili e immaginabili della società in cui è perfettamente inquadrato, avevano dichiarato nominalmente guerra allo sfogatoio razzista degli stadi, più minacciando più che comminando sanzioni piuttosto pesanti ai club ed ai protagonisti di episodi inqualificabili.

Ebbene, le multe sono state ultimamente molto alleggerite, la tolleranza si è alzata ben sopra lo zero: nel momento in cui le società calcistiche si sono rese conto del danno ricavabile e del rischio di svuotare ulteriormente gli stadi, hanno ottenuto una spiccata marcia indietro dagli organi federali. Sembra che la nuova logica sia quella del permissivismo: gridate, ma non troppo; offendete, ma fino ad un certo punto; odiatevi, ma con un tocco di ironia. Staremo a vedere se il confermato presidente Tavecchio, libero dai condizionamenti della ricerca del consenso, saprà affrancarsi anche dalle preoccupazioni dei suoi schizofrenici elettori: se vuotiamo gli stadi, chiudiamo le curve, scontentiamo gli ultras, cosa succede?

Le curve degli stadi sono molto importanti nella strategia calcistica. Mi scappa detto che siano più apprezzate, vezzeggiate ed ammirate delle curve delle belle donne. Un tempo, vado al periodo in cui le frequentavo da ragazzino assieme a mio padre (le curve, non le belle donne…), erano i contenitori del pubblico povero ma pulito (come il loggione a teatro), dove si stava in piedi e ci si bagnava, dove si vedeva sì e no metà partita ma la si soffriva tutta, senza gridare perché l’urlo non arrivava a destinazione, dove ci si conosceva e si scherzava. Poi sono diventate il luogo del tifo organizzato, della tentazione violenta, della contestazione cattiva. Oggi sono le padrone dello stadio, dentro e fuori di esso; condizionano le società e le squadre, con scioperi del tifo, striscioni provocatori, contestazioni pacifiche o violente; influenzano l’andamento delle partite imponendo persino scelte tecniche; dialogano con i giocatori da cui ricevono scuse e riconoscimenti; sembra che siano la sede del bagarinaggio di biglietti e abbonamenti; qualcuno le ipotizza come interlocutrici della ’ndrangheta; sono la spina nel fianco, la croce e la delizia dei patron, da cui sono peraltro spesso foraggiate; vengono ricevuti in pompa magna dagli stati maggiori delle società; sono il campo di battaglia per “guerre” che col calcio non hanno nulla a che vedere, lo sfogatoio criminale di un mondo giovanile deviato, il luogo accogliente e dimostrativo per i peggiori istinti socio-politici, dal razzismo al fascismo, dall’omofobia al nazismo. Tutti conoscono queste anomalie, però ci vanno cauti: i media condannano la violenza, ma poi finiscono indirettamente con l’incitarla tramite le loro assurde menate; i presidenti delle società hanno lì, bene o male, il loro retroterra popolare e un loro interesse economico; i giocatori trovano lì i loro assurdi ed esagerati momenti di gloria (pagati a caro prezzo nel momento della sconfitta); gli allenatori hanno il loro destino che dipende anche dagli ultras e quindi…; gli arbitri non si permetterebbero mai di sospendere una partita facendo un dispetto alla curva, semmai sarà la curva che imporrà la sospensione della partita all’arbitro (è già successo).

Sul razzismo possono andare in crisi i governi, ma il calcio no. Lasciateci godere in pace il pallone. Tutt’al più possiamo scandalizzarci e arrabbiarci per i soliti arbitraggi ad usum Delphini (che fa rima con Juventini) e per le classifiche bugiarde. Davanti alla corruzione e al malaffare vigente nel calcio non sappiamo far altro che alzare le spalle. Di fronte alle urla e agli striscioni razzisti facciamo finta di essere sordi e ciechi. Forse li siamo veramente. Che società di merda!

La Cina è vicina

Non ho mai sopportato e non accetto tuttora lo scandalismo costruito strumentalmente intorno al trattamento economico dei parlamentari, dei ministri e dei più alti funzionari pubblici ( magistrati, etc.). Se devo essere sincero mi infastidiscono invece i lauti guadagni dei divi dello sport e dello spettacolo. Mi si dirà che sono una questione privata, che non influisce sulle casse erariali. Sì, anche se alla fine tutto riguarda tutti e restano uno scandalo assai più degli stipendi dei deputati o dei consiglieri regionali.

Anche la polemica sui costi della politica non mi entusiasma. Mio padre di fronte a tali discorsi diceva ironicamente: «Se spendäva meno quand a cmandäva vón e chiètor i dzèvon sémpor äd sì…». Sono del parere che il denaro pubblico impiegato per far funzionare le istituzioni democratiche sia ben speso. Se le istituzioni non funzionano, è un altro discorso: ma il problema non si risolve “minimalizzando” la politica, ma massimizzando la sua efficienza e la sua vicinanza alle istanze dei cittadini.

Qualcuno direbbe che la politica, con i suoi costi, è un male necessario; io vado ben oltre ed esprimo la netta convinzione, nonostante tutto, che sia un bene opportuno ed importante.

Altri discorsi sono la corruzione, la scorrettezza, l’accaparramento scorretto e sleale da parte dei politici. Ricordiamoci che la congruità del compenso dovrebbe essere inversamente proporzionale alla propensione a confondere la politica con gli affari e gli interessi personali.

Lo stesso Matteo Renzi ha sbagliato, a mio giudizio, a legare seccamente la bontà della riforma costituzionale, portata avanti in questi anni e sottoposta al vaglio referendario dei cittadini, con la diminuzione, sic et simpliciter, delle poltrone e del conseguente loro peso economico. Non si tratta di tagliare per tagliare, ma di tarare quantitativamente e qualitativamente la politica e le Istituzioni sulle esigenze di una società in trasformazione continua e sulle sue caratteristiche essenziali. Il Senato non andrebbe abolito per sfoltire e per risparmiare, ma per togliere o ridimensionare un organo istituzionale che con l’andare del tempo si è rivelato alquanto pleonastico e ripetitivo.

Certo, se partiamo col considerare chi fa la scelta di dedicarsi a tempo pieno alla politica come un fannullone, un privilegiato, un profittatore, una sanguisuga, un contaballe, arriviamo a pericolosissime conclusioni, mettendo in discussione i meccanismi della democrazia rappresentativa e della democrazia stessa, e dal momento che non ne è ancora stata escogitata una forma credibile diversa…

Non è nemmeno un discorso serio l’auto-abbattimento dei compensi a significare che sono eccessivi e spropositati rispetto all’impegno e alle responsabilità di chi li percepisce. Si tratta di determinarli in modo equo e tali da garantire una retribuzione dignitosa e corrispondente al tipo di vita richiesto per assolvere al meglio la funzione assegnata. Il pauperismo non è per la politica, così come il volontariato o il vocazionismo etico. Non dobbiamo prenderci in giro con menate demagogiche.

Ciò non toglie che vadano eliminati assurdi privilegi e favoritismi più fastidiosi che costosi. Si faccia una volta per tutte una sana riforma degli emolumenti, dei rimborsi spese e dei trattamenti pensionistici dei componenti delle istituzioni a tutti i livelli, ministri, parlamentari, consiglieri, assessori e governatori regionali, consiglieri ed assessori comunali, sindaci, e poi si smetta una buona volta di fare inutili e fuorvianti polemiche.

Troppo spesso emergono episodi di abusi e scorrettezze e qui occorrerà vigilare e colpire con fermezza e severità, evitando le solite generalizzazioni al peggio.

Il capitolo dei rimborsi spese è forse quello più delicato che si presta ad abusi, frodi e manovre clientelari e familistiche. Si sono registrate in passato vicende decisamente poco simpatiche, alcune delle quali hanno trovato tuttavia un ridimensionamento, se non addirittura una rimozione, a livello giudiziario (sarebbe il caso, da parte degli organi indaganti, di essere un tantino più cauti e circostanziati).

Al riguardo starebbe emergendo un bel vespaio anche a livello europeo in capo ai parlamentari, alcuni dei quali facenti parte di movimenti spiccatamente antieuropei o euroscettici: della serie l’Europa non ci piace, ma i suoi fondi ci fanno comodo. Il curioso dato politico è questo.

Se non erro, a livello storico, i rivoluzionari, per fare guerra ai regimi, si sono serviti anche degli strumenti di regime: inglesi, francesi, polacchi, italiani, sembra che giocassero sull’equivoco dei loro collaboratori fuori sede in tutt’altre faccende affaccendati. Si difenderanno magari dietro un banale “il fine giustifica i mezzi”?. Resterebbe da capire qual è il fine e quali sono i mezzi.

Il condizionale è sempre d’obbligo e, leggendo sui giornali le controdeduzioni dei parlamentari europei coinvolti, rappresentanti dell’Italia, si nota innanzitutto un livello culturale molto modesto e vengono forse a galla molta faciloneria e parecchio pressappochismo più che veri e propri disegni fraudolenti per aggirare le regole.

 

Quel che si capisce è che questi parlamentari europei hanno sicuramente agito con leggerezza nell’usufruire di fondi europei per il rimborso delle loro spese. Solo pasticcioni dunque? Staremo a vedere, senza condannare nessuno anzitempo, ma chiedendo da subito almeno più attenzione e scrupolo nel maneggiare quantità consistenti di soldi pubblici (europei o italiani che siano).

Ho recentemente sentito finalmente affrontare il discorso della remunerazione dei politici con giusto taglio realistico: come si può chiedere competenza, esperienza, dedizione, impegno, responsabilità a persone che devono in tutto o in gran parte abbandonare la loro attività professionale, non garantendo loro una remunerazione che consenta, se non di lucrare, almeno di contenere i danni? Altrimenti rischiamo di rivolgerci ad una platea di incapaci ed incompetenti, per i quali, allora sì, la remunerazione diventa una opportunità di comodo rifugio.

Un problema diverso riguarda il finanziamento pubblico dei partiti. Non credo alle vie di mezzo. Da una parte il finanziamento pubblico si presta a sprechi e utilizzi deviati o devianti; dall’altra parte l’autofinanziamento espone la politica alla indebita pressione di lobby e interessi privati forti. Dal momento che la prima forma non esclude automaticamente e categoricamente la seconda, tanto varrebbe puntare sull’autofinanziamento instaurando efficaci meccanismi di tracciabilità dei fondi che viaggiano da una Fondazione all’altra, da un giornale di partito o di area all’altro, in un mix in cui si rischia di non capire chi dà e chi riceve, chi manovra e chi fa politica, chi vuole sostenere certi partiti e chi vuole lucrare certe protezioni e certi favoritismi, anticamera della corruzione.

Entriamo nella zona grigia in cui il confine tra politica e affari non si coglie. Tutto ciò fa molto più paura degli stipendi e dei vitalizi dei parlamentari a cui torno, in conclusione, per riaffermare come sia controproducente e squalificante la gara populistica per l’abbattimento degli emolumenti ai politici, fino ad arrivare a chi provocatoriamente li vuole eliminare come nella Costituzione cubana (diventiamo cinesi, quando i cinesi si stanno convertendo ai meccanismi occidentali? Magari diamo loro anche una tuta di stoffa grezza, meglio se grigia…), a chi   gioca a fare il primo della classe rinunciando a parte dello stipendio da devolvere a fini di pubblica utilità (devono rimanere ammirevoli scelte personali che non fanno regola), a chi vuole istituire un redditometro per i parlamentari (mi sembra che i meccanismi di trasparenza siano più che sufficienti, anche se non coprono gli introiti illegali), a chi magari se ne frega delle remunerazioni ufficiali con la riserva mentale di arrangiarsi in altro modo (vogliamo continuare a farne la migliore “qualità” del nostro popolo e dei suoi rappresentanti?). Tutte scorciatoie. Cerchiamo la strada principale che rivaluti il ruolo della politica. Ce n’è bisogno. Di buona politica, certo.

Puttani o Lord?

La Camera dei Deputati italiana, nelle more della legge, ha tagliato la testa al toro. Ha introdotto, seppure in via sperimentale, la legalizzazione dei lobbisti, istituendo un albo vero e proprio dei soggetti dichiaratamente dediti a rappresentare gli interessi di imprese, sindacati e associazioni. Si chiamano appunto lobbisti, cioè portatori delle istanze delle lobby (categorie), che opererebbero ai fini di ottenere interventi legislativi ad esse favorevoli; iscritti con tanto di tesserino ad un apposito registro, stazionerebbero in una sala riservata da cui tenere sott’occhio   i lavori della Camera ed in cui lavorare, cioè “interferire” nella vita parlamentare.

Chi avrà la bontà di leggere queste mie riflessioni mi perdonerà, ma il primo ardito parallelismo che mi è venuto in mente è stato quello con il ripristino delle case di tolleranza, dei casini per essere ancora più chiaro. Considerato che la prostituzione esiste da sempre, che non la si può eliminare, che è ipocrita far finta che non esista, varrebbe la pena di regolamentarla e controllarla da tutti i punti di vista: sarei perfettamente d’accordo.

Il caso vuole però che i lobbisti non vendano direttamente o indirettamente il proprio corpo, ma forse solo il voto dei loro rappresentati. Il loro negozio giuridico consiste poi sostanzialmente nel comprare (a quale prezzo non è dato sapere) una legge, può bastare anche un articolo di una legge, talvolta un comma o addirittura un capoverso, trattando alla stregua di meri venditori i parlamentari, i quali diventerebbero una sorta di “puttani” della Repubblica. Sono stato poco complimentoso? Senz’altro, ma almeno spero di essermi spiegato.

Viene legalizzata ed autorizzata una sorta di mercato a latere delle istituzioni, un meccanismo parallelo a quello democratico: più che di convergenze si tratterebbe di divergenze parallele. Mi si dirà che è già così, che nei corridoi di Montecitorio e Palazzo Madama si aggirano questi personaggi, noti a tutti, e che probabilmente influiscono sulla vita parlamentare molto più di quanto si possa immaginare. Tanto vale introdurre delle regole sulla loro professionalità, sulla loro fedina penale e sulle modalità del loro operato. Mentre le puttane classiche e canoniche hanno tutto il mio rispetto e talvolta financo la mia ammirazione, questo sputtanamento parlamentare non mi piace affatto, non per motivi di decenza, ma per questioni di democrazia.

Il nostro sistema di democrazia rappresentativa si fonda su due pilastri fondamentali: le forze politiche e le forze intermedie. I partiti rappresentano i cittadini da cui ottengono un mandato senza vincoli, ma pur sempre un mandato a rappresentare l’intera nazione. Dal momento che gli interessi però non sono solo individuali e quindi non si esprimono solo a tale livello, esistono le forze economiche e sociali, riconosciute dalla legge o quanto meno dalla dinamica sociale, che rappresentano le istanze di categoria a livello dei lavoratori e dei vari tipi di impresa. A queste si è aggiunto nel tempo, in conseguenza dell’evoluzione nella compagine sociale, tutta la galassia dell’associazionismo e del volontariato, più o meno riconosciuta e riconoscibile.

Evidentemente si pensa che questo tavolo a due gambe sia diventato, o addirittura sia sempre stato, zoppo e allora si cerca di inserire o di sopportare una terza gamba per rassodare i meccanismi democratici. Mi pare che la toppa sia peggio del buco. Significa infatti delegittimare le strade maestre per sostituirle con le scorciatoie.

Cosa ci stanno a fare i parlamentari se non sono capaci di dialogare con i cittadini e con le forze sociali? Se non sono capaci di svolgere questo fondamentale ruolo di saldatura, allora sì che rubano lo stipendio.

E a cosa servono tutti i sindacati e le varie associazioni se non sono in grado di rappresentare e portare avanti le istanze dei loro iscritti? Si sciolgano e la smettano di prendere in giro i loro seguaci.

I concorrenti al gioco televisivo dell’eredità dimostrano una ignoranza sconvolgente in materia religiosa (al punto da non sapere cosa sia la Bibbia) e in materia costituzionale (al punto da confondere il presidente della Repubblica col Presidente del Consiglio). Qui sarà il caso però di fare un po’ tutti un bel ripasso sui fondamenti e sui meccanismi della democrazia rappresentativa. Anche i parlamentari. Questi ultimi sappiano inoltre che prestare scopertamente il fianco al lobbismo può voler dire tirare un’ulteriore volata al populismo. Il ragionamento dei cittadini-elettori, infatti, potrebbe essere: se chi riceve il nostro voto non è in grado di rapportarsi con noi, allora tanto vale semplificare e trovare qualcuno (pochi, meglio se uno solo) che sappia farlo indipendentemente dalle istituzioni e che, di tanto in tanto, chieda direttamente il nostro parere.

Come ho già avuto modo di scrivere, una strana lezioncina di democrazia ci viene dalla Gran Bretagna, nonostante Brexit, anzi proprio in conseguenza di Brexit. In quel Paese c’è un rigurgito di responsabilità da parte della Camera dei Lord: una istituzione nata per rappresentare, in senso dinastico e per diritto ereditario, l’aristocrazia inglese. Strada facendo, questa Camera si è trasformata prevalentemente in una specie di “Senato a vita”: 804 Lord, soprattutto grandi vecchi della politica, ricchi imprenditori, illustri scienziati, economisti, esperti in ogni campo. Questi signori, indipendentemente dalla loro collocazione partitica, hanno trovato il coraggio di dare due importantissimi alt, non tanto alla Brexit, perché ormai purtroppo cosa fatta capo ha, ma al percorso di uscita dall’Europa, dicendo un netto no al mercanteggiamento delle presenze degli europei in Inghilterra con le presenze degli Inglesi in Europa e fissando dei paletti al governo, costringendolo a sottoporre al Parlamento il divorzio dalla Ue (rompendo non poco le uova nel paniere a Theresa May, che intendeva gestire questa contingenza delicatissima e importantissima nel chiuso di Downing Street).

Non a caso gli Inglesi sono i primi della classe in materia di democrazia formale, ma in questi casi la forma diventa sostanza. Altro che lobbisti, i Lord vogliono capire e dire la loro. Non si tratta quindi tanto di voto popolare, perché quello purtroppo è già avvenuto e lo dovranno rispettare, ma la democrazia non finisce col voto, comincia dal voto.

Signori Parlamentari Italiani, fatevi quindi su le maniche, lasciate perdere i lobbisti, non sprecate tempo con questi mediatori da strapazzo, dialogate coi cittadini e con le forze sociali, studiate i problemi e non fateveli raccontare da gente senza scrupoli, discutete e litigate fra di voi legittimi rappresentati dei cittadini e respingete le intromissioni, decidete in coscienza senza paura di sbagliare e di perdere voti, mettete alla porta i questuanti e guardate ai veri bisogni di chi soffre e di chi fa fatica, fate bene il vostro mestiere, guadagnatevi la pagnotta che, a quel punto, dovrà essere consistente ed adeguata al vostro “rango”. Grazie dell’attenzione.

 

Le risorse diaboliche della curia lumaca

Il rapporto tra la curia vaticana e i papi ha storicamente riservato contrasti, frizioni, intrighi, complotti etc. È un triste classico della Chiesa Istituzione. Sto agli ultimi papati dei quali farò, di seguito, un brevissimo excursus tutto personale e ben poco canonico .

Papa Pacelli, Pio XII, è stato l’ultimo pontefice di stretta provenienza e formazione curiale: era un raffinato, intelligentissimo e abilissimo uomo d’apparato di cui conosceva tutti i passaggi, anche i più segreti, e che riusciva pertanto a governare con relativa disinvoltura l’assetto centralistico della Chiesa dell’epoca.

Papa Roncalli, Giovanni XXIII, gradito inizialmente agli ambienti curiali che si illudevano di poterlo condizionare e manovrare, pur senza aprire drammatici contenziosi, riuscì carismaticamente a dominare le situazioni. Il gossip vaticano racconta che una volta eletto papa, ebbe uno strano colloquio con il cardinale Domenico Tardini, un suo detrattore che su alcuni fascicoli, riguardanti l’attività di questo allora collega, diplomatico e pastore, aveva riportato di suo pugno l’annotazione “è una roncallata”. Ebbene il Papa, pur sapendo di questo atteggiamento dell’alto esponente della diplomazia vaticana, non se ne fece influenzare e, di fronte alle resistenze e titubanze di Tardini, lo obbligò letteralmente ad accettare la carica di Segretario di Stato : «Si inginocchi e accetti la nomina assieme alla mia benedizione». Altro che papa bonaccione…

Papa Montini, Paolo VI, ad un certo punto della sua vita, fu allontanato dalla Curia romana a motivo delle sue vedute piuttosto avanzate in merito alla politica italiana e “confinato” a Milano quale vescovo (promoveatur ut amoveatur) e da qui spiccò il suo volo pastorale fino a raggiungere un papato caratterizzato da stratosferica intelligenza e sensibilità, ma da eccessiva e sofferta prudenza, anche proprio per i condizionamenti di stampo e carattere curiale che non riuscì a scrollarsi di dosso.

Papa Luciani, Giovanni Paolo I, nel suo breve, ingenuo ma rivoluzionario approccio al papato, fece appena in tempo a rendersi conto del marciume curiale al punto da rimanerne letteralmente stecchito.

Papa Wojtyla, Giovanni Paolo II, si affaccendò proficuamente in tutt’altre faccende rispetto alle beghe curiali: lui girava il mondo, arringava le folle, mentre nelle stanze vaticane i vari cardinali facevano i loro comodi. Un Papa dedito interamente alla pastorale delle masse e “menefreghisticamente” assente sul piano degli assetti istituzionali e burocratici della Chiesa.

Papa Ratzinger, Benedetto XVI, si concentrò sull’identità cristiana, parlò, scrisse, pontificò e quando si accorse di non avere in mano la situazione, peraltro carica di vicende scabrose e intrighi avvolgenti e sconvolgenti, lanciò opportunamente la spugna per favorire un rinnovamento di cui, nella sua straripante intelligenza e cultura, vedeva la necessità senza avere la forza di promuoverlo.

Arrivo al dunque che si chiama Papa Bergoglio, Francesco. La sua netta frattura con la tradizione (si racconta come al monsignore, che gli voleva far indossare gli abiti e i gingilli di lusso per la prima apparizione dalla balconata di San Pietro, disse bonariamente stizzito: «Questo roba se la metta lei…»), la sua chiara presa di distanza dall’apparato clerical-curiale (si riporta l’episodio eloquente e simpatico di questo papa che risponde così alle intemperanze anticlericali di un suo interlocutore: «Se è per quello sono anti-clericale anch’io…»), la sua sferzante critica a certi stili e metodi più volte presi di mira («Nella Chiesa vi è chi, invece di servire, di pensare agli altri, si serve della Chiesa per i propri interesse: sono gli arrampicatori, gli attaccati ai soldi»), la dicono lunga sul suo rapporto difficile al limite del conflittuale con gli ambienti vaticani quali punta di diamante di una certa inconfondibile voglia di reazione.

Il noto teologo Vito Mancuso scrive: «In gioco c’è il cambio di rotta iniziato dalla Chiesa   cattolica con il Vaticano II e rimasto incompiuto, volto a disegnare un cattolicesimo non più nemico del mondo moderno, come lo è stato per secoli, ma a fianco della vita degli uomini. In un mondo sempre più piccolo il compimento del processo iniziato con Giovanni XXIII è la condizione sine qua non perché la Chiesa cattolica sia fattore di pace e non di divisione. Papa Francesco lo sa e agisce di conseguenza. Molti però dentro la Chiesa o non lo sanno o non lo desiderano. Essi non esitano a unirsi ai numerosi gruppi di potere economico e politico fuori della Chiesa che hanno visto la recente enciclica sull’ecologia come una seria minaccia ai loro affari. E tra nemici interni e nemici esterni vi sono addirittura alcuni che non esitano a trasformarsi in avvoltoi e a volteggiare sinistramente sul corpo del Papa».

Le recentissime dichiarazioni di Marie Collins, componente dimissionaria della Commissione anti pedofilia voluta nel 2014 da papa Francesco ci danno l’idea di un Papa piuttosto isolato e osteggiato dal “potere curiale”. Afferma questa donna, che ha subito abusi clericali nella sua infanzia e adolescenza: «(…) Non smetto di credere nella tolleranza zero voluta da Francesco, ma altri ci boicottano (…) Esiste il fatto che spesso si sentono dichiarazioni pubbliche intorno alla profonda preoccupazione della Chiesa per le vittime di abusi, ma poi nel privato il dato è che in Vaticano c’è chi si rifiuta anche solo di riconoscere le lettere inviategli per provare a risolvere questa preoccupazione. Il dato è che le resistenze non mancano e tutto questo per me non è accettabile».

Intravedo un pericolo per papa Francesco e per la Chiesa di cui è guida innovativa: esiste il rischio di un suo confinamento nella sfera sociale, nel suo “orto pastorale” della misericordia, nel “recinto francescano” della povertà e dell’ambientalismo. Al resto ci pensano i soliti marpioni del dogmatismo facile e fasullo, della gattopardesca resistenza al nuovo evangelico in nome della continuità tradizionalistica. Una sorta di Celestino V, riveduto e corretto, che non ha fatto, almeno per il momento il gran rifiuto, ma che è subdolamente rifiutato dai troppi che ne temono lo sconvolgente messaggio pastorale.

Tuttavia, anche senza voler enfatizzare certi segnali, bisogna ammettere che l’aria è cambiata: il vento pastorale bergogliano dissipa lo “smog” della nebbia dogmatica combinata con l’aria inquinata del potere istituzionale vaticano. L’apertura delle porte di un tempio cattolico milanese alla preghiera di suffragio per Fabiano Antoniani protagonista di un suicidio assistito in Svizzera è un segnale di condivisione verso la sofferenza umana che prevarica le fredde regole del catechismo. Il fatto che qualcuno si preoccupi di chiarire la differenza tra una preghiera e una messa copre di ridicolo fariseismo i minimalizzatori di professione e i continuisti a tutti i costi. Resta una netta frattura pastorale tra il “niet ruiniano” del 2006 al funerale religioso di Piergiorgio Welby che aveva rinunciato alle cure spropositate e il “si può fare scoliano” di questi giorni per Dj Fabo che si è fatto suicidare per interrompere una sofferenza impossibile da sopportare.

Mentre non vedo differenze umane sostanziali tra i due episodi, al di sotto dei quali ci sono altre numerose persone in predicato di operare scelte per scacciare la disperazione con una dignitosa anche se pur drammatica decisione, tra i diversi atteggiamenti ecclesiali c’è di mezzo il mare della misericordia mosso da Papa Francesco.

“Eppur si muove” si potrebbe dire in riferimento alla Chiesa: con passo lento, col rischio di fare un passo avanti e due indietro, ma è sempre meglio dell’immobilità assoluta.

Resta la grande paura che alla benefica rottura di certi equilibri della Chiesa paralizzata dal dualismo istituzione-comunità, possa corrispondere una insana saldatura tra poteri laico-religiosi per mettere fine in diversi modi al rinnovamento che la vera Chiesa può operare “nel mondo” senza essere “del mondo”.

Ricordo l’inquietante battuta di un carissimo amico di fronte alle prime posizioni emergenti dal papato bergogliano: «Secondo me, lo fanno fuori…». E purtroppo ci sono tanti modi per farlo fuori. Io, quando sento i suoi insistenti inviti a pregare per lui, ho un brivido lungo la schiena, temo si senta oltremodo isolato e scoperto, solo con il suo Dio di Gesù. Su di lui veglierà il cardinal Martini suo playmaker in terra e in cielo. Ma non lasciamolo solo, pregando sì, ma facendo qualcosa in più. Non voglio introdurre una sorta di vittimismo papale da contrapporre allo strapotere curiale, ma…le lumache vaticane si sentono toccate nel vivo e stanno reagendo. Attenzione, perché ne sanno una più del diavolo.

 

La religione è…donna

Non voglio assolutamente (s)cadere nella diatriba sciopero sì – sciopero no per celebrare l’08 marzo, mi preme invece ribadire la mia forte fiducia nella donna e nella sua capacità di cambiare il mondo: la violenza su di esse vuole, più o meno consapevolmente, arrestare o frenare questa novità di vita di cui la donna è portatrice a tutti i livelli, personale, famigliare, culturale, sociale, politica, religiosa.

Le donne sono un fondamentale agente di cambiamento, la loro mobilitazione non ha più il pur rispettabile carattere del femminismo anni Settanta, la loro capacità di scendere in campo si allarga a tutte le dimensioni problematiche del mondo odierno, il loro carisma è la garanzia di un sicuro ma diverso avvenire. Quando viene brutalizzata una bambina (con la ferocia bestiale dello stupro o con l’agghiacciante stregoneria della mutilazione genitale), quando una donna viene ridotta a puro strumento di piacere, quando la compagna della vita viene schiavizzata, quando la sua libertà viene calpestata fino alla devastazione fisica e morale, quando il femminicidio diventa una prassi, quando i diritti della donna vengono calpestati, quando la donna viene discriminata o relegata in un ruolo subalterno, in tutti i casi in cui oggetto di violenza è una donna scatta un meccanismo moltiplicatore dell’orrore e della gravità. Il mondo viene depauperato nel suo potenziale di miglioramento e di progresso.

Ma vengo per rapidi cenni al discorso religioso, non perché io sia un patito di questa dimensione esistenziale, ma perché la sua portata è molto grande e tale da influenzare tutto il resto. Se la religione non parte dal rigoroso rispetto della dignità femminile tradisce radicalmente se stessa e riesce a privare il mondo di una ricchezza indispensabile e incalcolabile.   Ecco perché la laicità della politica e la “modernità” delle religioni sono le due facce della stessa medaglia.

Parto da una notizia confinata nell’angolo dai media. Il Ministero per gli Affari religiosi del Cairo ha “ordinato” 144 Imam donne, figure chiamate a interpretare e diffondere il credo tra i fedeli musulmani. Pessima notizia che la nomina sia avvenuta ad opera dell’autorità politica: la laicità non è auspicata dai musulmani, che addirittura cercano nel potere civile una pericolosa e deviante sponda per il loro proselitismo.

Bellissima notizia invece che la nomina abbia riguardato decine di donne ammesse ad un ruolo solitamente riservato agli uomini: potremmo quasi dire che, con questo fatto, l’Islam ha battuto il Cristianesimo due a zero, in questo parziale ma significativo confronto.

Non voglio banalizzare il discorso anche perché vorrei tentare di portare il mio modesto contributo culturale alla festa della donna partendo proprio dal ruolo femminile all’interno delle religioni.

Lo scrittore, poeta e saggista marocchino Tahar Ben Jelloun sostiene schierandosi a favore di un Islam veramente moderato e dialogante: «Non abbiamo bisogno di obbligare le nostre donne a coprirsi come fantasmi neri che per strada spaventano i bambini. Non abbiamo il diritto di impedire a un medico di auscultare una donna musulmana, né di pretendere piscine per sole donne».

Il problema del ruolo della donna nelle religioni è questione indubbiamente centrale e che, nelle prassi secolari, evidenzia una certa analogia di impostazione tra le diverse teologie. La posizione della donna a livello di dottrina dimostra che il cristianesimo parte in quarta con un Vangelo spudoratamente femminista per poi ripiegare sul pazzesco maschilismo paolino, da cui ci sono voluti secoli per tentare di uscire e il cammino è tutt’altro che terminato. Con tutto il rispetto per la predicazione di Paolo, un cristiano dovrebbe comunque sempre rifarsi al dettato evangelico, alle parole e agli esempi di Gesù, ma purtroppo il Vangelo spesso è finito in soffitta coperto da una moltitudine di polverose scartoffie teologiche e dottrinali.

Volendo concedere all’attuale dottrina cristiana un giudizio obiettivo, mi sentirei di ammettere che sulla questione femminile non siamo ancora tornati a Gesù, ma ci siamo significativamente allontanati dal pensiero paolino. Purtroppo non è così per l’Islam che rimane saldamente ancorato ad una impostazione coranica scriteriatamente maschilista e antifemminista da cui non riesce a schiodarsi.

Mentre il cristianesimo è riuscito gradualmente ad affrancarsi da una tradizione pesante e alienante, l’islamismo ne rimane tuttora vittima, anche perché non ha il riferimento evangelico (e non è poca cosa) a fargli da sponda.

Solo superando questa discriminazione verso il mondo femminile si potrà creare un clima nuovo e diverso a livello religioso e financo politico: credo fermamente che siano le donne le potenziali portatrici delle svolte culturali auspicabili. Se i musulmani non superano questo tabù, temo che la loro fede resti compromessa da regole religiose assurde e discriminatorie (è così per tutte le religioni!).

Papa Francesco ha trovato il tragico e deviante denominatore comune fra cattolicesimo e islamismo nella violenza contro le donne. La portata della questione femminile e sessuale è veramente grande e decisiva nella nostra cultura, ma anche e soprattutto in quella islamica, non solo quella dei fanatici fondamentalisti, ma di tutto l’Islam a cominciare dai cosiddetti musulmani moderati: la loro moderazione vuol dire rispetto per la donna, la sua dignità, il suo ruolo, la sua persona, la sua libertà? Se sì, dopo esserci dati anche noi una bella e sana regolata in materia, possiamo ragionare e percorrere un tratto di strada insieme; se no, tutto diventa un ipocrita gioco delle parti.

Cosa vorrà dire il fatto che a Ventimiglia una donna musulmana, entrando in chiesa, si sia tolta il velo in segno di rispetto, pur soffrendo quando cammina per strada e la chiamano terrorista? Da una parte sarà importante per le donne islamiche avere il diritto di nascondersi in tutto o in parte sotto un velo o sotto il burkini quasi a sottrarsi dal manifestare apertamente la loro corporeità femminile? Dall’altra sarà una cosa seria impuntarci laicamente a vietare questi usi che peraltro stanno assumendo persino un pizzico di sana civetteria islamica?

Tornando in conclusione al Vangelo, dobbiamo credere che il maschilismo sembra vincente, ma in realtà è perdente. C’è un epilogo che ci riempie di speranza e ci dà la forza di andare oltre le apparenze. Gesù ce lo ha dimostrato. Ricordiamo tutti, cristiani, ma lo chiedo anche ai musulmani, che la prima persona a capire la novità assoluta della fede fu una donna. Non i membri di qualsiasi sinedrio, non i preti comunque chiamati, non gli zelanti osservanti di tutte le religione, non gli intellettuali di qualsiasi epoca. Una donna! Mi riferisco a Maria di Magdala. E noi? Delle donne sappiamo solo fare scempio: su questo ci troviamo (quasi) tutti d’accordo.