Le Trumpole per il cristianesimo

Mi sono chiesto più volte quale e quanta influenza abbia avuto il fattore religioso nella elezione di Donald Trump. Sicuramente i cristiani americani sono caduti nella trappola che la politica generalmente tende alla religione: scambiare il consenso e l’appoggio con la difesa formale dei principi etico-religiosi a copertura sostanziale delle posizioni e degli assetti di potere. Ma Trump, come vedremo sotto, è andato oltre nelle sue avance.

La religione ha la tendenza a mercanteggiare la possibilità e gli spazi del proselitismo scambiandoli con l’indifferenza alle politiche sociali: chiudiamo un occhio, forse anche due, sulle ingiustizie, purché ci lascino tranquilli a coltivare ed allargare il nostro campo.

Trump ha sventolato sotto il naso dei cristiani d’America l’intenzione di ridimensionare il diritto all’aborto: bene, bravo. Per il resto fai quel che vuoi (ho semplificato o addirittura banalizzato il discorso per rendere l’idea).

È il motivo par cui abbiamo sempre trovato le Chiese più o meno a fianco dei vari regimi a livello di istituzione, con l’effetto trascinamento verso i seguaci più obbedienti, meno dotati di capacità critica e meno coraggiosi nella testimonianza di vita. In fin dei conti Gesù è stato condannato e ucciso perché non ha voluto navigare a vista tra potere religioso e potere politico, ha tracciato una linea invalicabile tra queste due alte sfere, attestandosi inequivocabilmente sulla condivisione dei problemi e sulla solidarietà alle persone che dovrebbero essere oggetto di attenzione. È questo che dà enorme fastidio ai potenti: se la religione si mette in mischia viene travolta dal compromesso, se resta al suo posto gioca il vero e unico ruolo rivoluzionario.

Su questa problematica ha scritto uno splendido articolo Marco Ronconi, teologo e insegnante di religione, curatore su Jesus, rivista mensile della “Catena periodici San Paolo”, di una rubrica simpaticamente intitolata “Teologiadabar”. Ne riprendo di seguito il senso e le argomentazioni molto interessanti e totalmente condivisibili: si tratta di un esame dell’atteggiamento dei cristiani davanti al test di Trump.

L’attenzione viene giustamente posta sull’inasprimento delle misure di controllo verso i cittadini provenienti dagli Stati, colpevoli di essere a maggioranza musulmana e teatri di guerra o di fervore fondamentalista. Ronconi giudica questi provvedimenti come un atto culturalmente devastante, poiché si regge su una serie di equivalenze deflagranti: musulmano=sospetto; migrante=terrorista; povero=pericoloso.

Non bastasse, l’amministrazione Trump ha manifestato l’intenzione di allestire un corridoio preferenziale per i fuggiaschi di fede cristiana. È la stessa logica del mafioso che obbliga ad accettare un regalo non richiesto colui al quale chiederà poi complicità e omertà di fronte a un reato.

Differenziate e variegate sono state le reazioni del mondo religioso. Si è andati dal favore per l’interessamento verso la persecuzione dei cristiani al timore che i cristiani diventino, negli Stati a maggioranza musulmana, corpi estranei, soggetti da emarginare o eliminare; si è passati dalla soddisfazione per una difesa pelosa e pericolosa alla rivendicazione della cultura dell’apertura, dal silenzio assenso alla condanna della confusione tra carnefici e vittime. La religione in buona sostanza si è fatta trovare piuttosto impreparata e ondeggiante.

L’articolo, a cui mi sto ispirando e che sto citando a piene mani, mette il dito su due questioni cruciali. La prima è l’idea di Chiesa attorno alla quale si stanno scontrando due posizioni molto diverse: da una parte chi pensa che la Chiesa esista per i cristiani; dall’altra, chi pensa che esista per il mondo e – se proprio deve fare una distinzione – è chiamata a stare dalla parte degli ultimi, indipendentemente da ogni etichetta ulteriore.

La seconda questione spinosa è legata alla reazione di fronte a una persecuzione. Il cristianesimo è la religione dei martiri e non delle vittime, figuriamoci dei vittimismi. Papa Francesco non chiede favori per i suoi, reclama diritti per tutti i figli di Dio. Alcuni porporati che, lontano dai luoghi in cui il sangue è versato, strizzano l’occhio a Trump, sembrano aver dimenticato il motivo per cui il loro abito è rosso: non per contrattare spazi di benessere, ma per essere disposti a dare il proprio, di sangue, e per tutti. Chiedano al loro confratello monsignor Zenari, il nunzio apostolico di Siria rimasto accanto ai perseguitati di ogni religione, nominato non a caso cardinale nell’ultimo concistoro.

Le trappole trumpiane sono molto accattivanti per il popolo in genere e quindi anche per il popolo cristiano. Se il popolo degli “smarriti”, fuorviato da nostalgie e insoddisfazioni, non ha facili riferimenti su cui fare forza, il popolo dei cristiani ha il Vangelo. Pilato chiese a Gesù: «Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?». Gesù si limitò a richiamarlo alle sue responsabilità e non patteggiò, se la sarebbe cavata con poco.

 

Lo spretato

Vorrei concentrarmi su Parma, non perché sia la corte dei miracoli che in molti, più esterni che interni alla realtà cittadina, si intestardiscono a decantare, ma al contrario, perché si trova spesso tra l’incudine e il martello e rischia di farsi male.

È il caso dei rapporti tra Parma e il movimento cinque stelle, o meglio tra la sesta stella, Federico Pizzarotti, e i grillini “tradizionali”, in cui la nostra città si trova suo malgrado ad essere “intortata”. È inutile nascondersi che la imminente contesa elettorale amministrativa rischia di svolgersi non tanto tra Federico Pizzarotti (sindaco uscente ricandidatosi alla testa di una lista civica in totale dissenso dai pentastellati) e Paolo Scarpa (il candidato civico frutto del matrimonio di interessi con la “zitella” PD), ma tra “l’effetto Parma” dell’antigrillismo e “l’effetto Grillo” dell’antipizzarottismo. Saranno elezioni politicizzate (?) e puntate soprattutto sulla lotta interna al movimento cinque stelle.

Da tempo dico e scrivo che Beppe Grillo dopo averci regalato nel 2012, con la decisiva complicità dei perditempo piddini, il primo sindaco (protosindaco) della storia italiana   riconducibile al suo movimento, si appresta a riciclarcelo, sempre con la persistente complicità piddina, facendone il protomartire del grande dittatore pentastellato.

I giorni passano e chi sembrava un velleitario antagonista sta diventando un punto di riferimento per tutta la sparsa galassia del ribellismo alla seconda (il ribellismo del ribellismo), contro i capibastone, gli spargitori di veleni, i delatori al capo e i fedelissimi ante litteram. “L’effetto” sta propagandosi da Parma a Genova, la Spezia, Imperia, Lucca, Livorno, Ischia, Padova, Catanzaro, Comacchio. Pizzarotti ha preparato una carta dei valori, che aggancerebbe il suo movimento all’area di centro-sinistra, che proporrebbe scelte precise nel merito (diritti civili) e nel metodo (rete fisica e non virtuale, popolari e non populisti, vicini ai bisogni della gente e non alla pancia delle persone). Sta raccogliendo adesioni da tutti gli scontenti, sparsi sul territorio nazionale e nei diversi livelli istituzionali. Una cosa lo accomuna al grillismo d’origine: il linguaggio forte al limite dell’offensivo, l’atteggiamento politicamente scorretto e fegatoso che fa pensare più allo spretato che al missionario.

Come reagirà Parma? Si lascerà irretire da questa stucchevole battaglia? Finirà col rinnovare la cambiale del 2012, sulla scorta di ragionamenti minimalisti su risultati, proposte e persone, o saprà scegliere sulla base di un’esperienza amministrativa deludentissima e irriscattabile comunque la si giri? Temo il peggio. Sono quasi sicuro che se i grillini doc candideranno un loro esponente in contrapposizione a Pizzarotti, finiranno col dargli la spinta decisiva verso la riconferma: potrebbero scattare nei parmigiani il loro storico istinto a respingere le intromissioni forzate se non violente (Grillo vissuto come un Balbo del ventunesimo secolo), la loro propensione a respingere le interferenze centrali, la voglia di sbagliare in proprio.

Questa volta spero di non cascarci. Nel 2012 ho inteso mandare un messaggio all’inconcludente e continuista PD, quello dei Bersani e degli Errani, quello dei rigori sbagliati a porta vuota, quello dei magazzinieri preferiti ai goleador. Messaggio a tutt’oggi non ricevuto. Penso non mi resterà altro da fare se non astenermi dal voto, almeno al primo turno. Se per caso al ballottaggio dovesse andare Pizzarotti con un grillino qualsiasi, sarei in grave difficoltà e non escluderei un voto di sbarramento barricadero concesso al Pizza (confesso che mi sta diventando simpatico, nonostante la pessima prova amministrativa in questi cinque anni). Se, come presumo il secondo turno vedrà il confronto tra Pizzarotti e Scarpa (ipotesi molto probabile), me ne starò quatto quatto con la morte politica nel cuore.

Il vivo giace e il morto si dà pace

Il Partito democratico sotto la guida “maanchista” di Walter Veltroni nel 2008 ottenne un buon risultato elettorale, un 33%, che tuttavia portò alle dimissioni del segretario reo di aver perso le elezioni consentendo l’ultima (speriamo) rinascita di Berlusconi e di un suo governo. Probabilmente Veltroni ebbe una certa fretta di farsi da parte. Il suo ragionamento fu: ho puntato ad un PD forza politica maggioritaria, ne è uscito un PD forte ma minoritario, vado a casa e andate avanti voi ché a me scappa un po’ da ridere.

Dopo il disastro berlusconiano da tempo annunciato e la sua caduta con la famosa spallata europea, dopo la “indigesta ciambella napolitana” del governo Monti, si arriva alle elezioni politiche del 2013: il PD sotto la segreteria “battutista” di Pierluigi Bersani sembrava destinato a vincere a piene mani e invece…ottenne un modestissimo 25% perdendo oltre sei milioni di voti. Dopo un’inutile corteggiamento ai grillini, i veri vincitori usciti dalle urne, la palla torna ancora Napolitano, costretto ad un forzato bis della sua presidenza e obbligato all’esercizio della sua fantasia istituzionale con il varo del governo di (quasi) unità nazionale presieduto da Enrico Letta.

Così come il buon risultato (33%) del 2008 era stato sbrigativamente archiviato come un insuccesso, il disastroso risultato del 2013 venne vissuto come se niente fudesse, un piccolo incidente di percorso. Veltroni si era dimesso, Bersani, se tanto mi dà tanto, avrebbe dovuto andarsi a nascondere per sempre. Invece…ce lo siamo ritrovato, a distanza di tre anni circa a pontificare, a fare le pulci ad un segretario “rottamatore”, Matteo Renzi, che fino a prova contraria aveva riportato il partito in auge con un enorme 40% ottenuto alle elezioni europee del 2014. Non solo, ma il nostro Pierluigi, con la sua “banda di perditempo” (Antonio La Forgia, ex presidente della Regione Emilia Romagna, ex dirigente Pci, ex segretario regionale Pds, ex Margherita, dopo averli ben conosciuti dal di dentro, definisce così il gruppo di irriducibili, Bersani, D’Alema e c., che, a suo dire, avrebbero rovinato la sinistra in Italia) ha fatto il diavolo a quattro fino al punto da portare la minoranza interna, da lui più o meno guidata, su posizioni di aperto e netto dissenso verso la linea del partito (si pensi al No al referendum sulle riforme costituzionali), culminate nella recente sciagurata separazione.

Cosa ricavo da questa arida sintesi, oltretutto monca di alcuni passaggi? Che nel PD esiste uno strano concetto di sconfitta e vittoria, tale da rivalutare il mitico Pirro. Il vivo giace e il morto si dà pace. Gli anni dal 2013 in avanti sono stati utilizzati non tanto per analizzare i motivi di una sconfitta cocente, ma a sminuire e relativizzare le cause di una vittoria incoraggiante (quella appunto alle europee del 2014). Credo abbia ragione Romano Prodi quando afferma di essere entrato in politica pensando che fosse il regno della razionalità, mentre in realtà è il regno della passione e dell’irrazionalità. Principi che hanno portato, a suo dire, alla scissione in contrapposizione insanabile con una razionalità che avrebbe dovuto tenere unito il partito democratico.

Lo stesso atteggiamento pregiudizialmente disfattista (cosa assai diversa dalla ragionata critica) si è avuto nei confronti del governo Renzi e della sua azione. Governare i processi, infatti, per la “sinistra passionale”, vuol dire tradire la propria identità e quindi, con i traditori non si dialoga si fa la guerra. Siamo arrivati ai niet sulle riforme costituzionali, sulla riforma elettorale, sulla riforma del mercato del lavoro, sulla riforma della scuola, etc.

E adesso? Tutto da capo! Si ricomincia dal Lingotto, costretti al culto della memoria. Renzi non sarà un grande stratega, un uomo di Stato, un gran riformatore, un leader fenomenale. Un politico chiacchierone e ultimamente persino chiacchierato? Può darsi, anche se quando lo sento capisco che in lui c’è qualcosa di interessante da mettere alla prova. Gli altri? Meglio lasciar perdere.

L’Olandese volante e il Grillo sparlante

Se mettiamo insieme, in una ragionata ma fedele combinazione, quanto hanno recentemente dichiarato a la Repubblica due autorevoli personaggi, Marc Lazar, politologo francese, e Geert Mak, intellettuale olandese, arriviamo ad una nitida e inquietante fotografia del movimento pentastellato, che tiene banco nella politica italiana.

Da una parte i Cinquestelle vengono seccamente classificati tra i populisti e assimilati al partito olandese di Wilders e al francese Front National di Marine Le Pen; dall’altra il Pvv, l’ultradestra xenofoba olandese, viene considerato un partito a membro unico, l’indiscusso leader Geert Wilders, il quale, senza una base alle spalle, è vocato all’implosione, vittima di se stesso, della sua autoreferenzialità, della aridità politica del suo messaggio.

Il parallelo fra Wilder e Grillo viene quindi spontaneo. Proviamo a prendere una per una le caratteristiche dell’Olandese volante per applicarle all’Italiano sparlante.

Membro unico: anche il nostro comico prestato alla politica o politico prestato alla comicità (fate vobis) è certamente il dominus carismatico e reale del M5S. Non so se nel frattempo abbia cambiato parere, ma comunque Massimo Cacciari, con la sua solita e simpatica verve tranchant, ha ripetutamente affermato che i cinquestelle sono Grillo e che dietro di lui non c’è niente. Ogni giorno si nota come tutto ruoti attorno a lui: non è solamente l’ispiratore e il leader, ma il padrone indiscusso, che promuove e boccia, rimanda e riammette, taglia e cuce, dice e disdice, sopporta o distrugge, e via discorrendo. L’ultima vicenda genovese, con la messa al bando della candidata a sindaco, una insegnante di geografia uscita sorprendentemente vittoriosa dalla votazione on line fra gli iscritti, e la sua sostituzione con il tenore del teatro Carlo Felice, evidentemente capace di cantare alla perfezione le arie grilline (tra uomini di teatro ci si intende…), non è che la ciliegina su una torta cucinata in progress. Questa volta la cosa è stata clamorosa, al punto da costringere Grillo a fare scopertamente appello al proprio carisma: “Qualcuno non capirà, fidatevi di me”. Brutto segno quando il carisma deve essere apertamente evocato: vuol dire che non è più così automaticamente riconosciuto. Più che del capo-banda dei ragazzini, il quale impone di ricominciare o cambiare il gioco quando prende per lui una brutta piega, dà l’idea del padrone di casa che sfratta l’inquilino perché ascolta musica sgradita a volume troppo alto.

Indiscusso leader: Grillo lo è, anche se con i suoi metodi ha perduto, strada facendo, decine di parlamentari, di consiglieri comunali e regionali, financo qualche europarlamentare. Dove vuoi che vadano? Senza di lui non sono nessuno. Certo. Però, sgretola oggi, sgretola domani…, gli sgretolanti cominciano a collegarsi fra di loro, a fare gruppo e a dare fastidio. Considero molto eloquente la vicenda del comune di Parma. Federico Pizzarotti, il primo sindaco, ma anche il primo dissidente della storia pentastellata, si ripresenta all’elettorato parmense. Una candidatura grillina ortodossa e alternativa non è stata ancora trovata e non so se verrà messa in campo col rischio di subire una sonora sconfitta, che potrebbe assestare un colpo ferale al movimento. Parma inizio e inizio della fine?

Senza base alle spalle: in effetti Grillo non ha alle spalle un movimento di gente convinta e schierata, ma l’armata brancaleone dei protestatari dell’anti-politica. Non ha gruppo dirigente: ogni volta che c’è da fare qualche scelta di candidature casca l’asino. Ha un blog e da questo blog sputa sentenze e suona la carica.

Vocato all’implosione: la progressiva contraddittorietà delle scelte tattiche, l’assenza di strategia, lo splendido isolamento, il tormentone anti-istituzionale, la cavalcata sempre più bolsa della protesta per la protesta, i toni e le parole sempre più volgari e violente, potrebbero effettivamente comportare seri rischi di implosione.

Vittima di se stesso e della sua autoreferenzialità: l’indiscutibile carisma sta scadendo in una sorta di autoritarismo padronale francamente insopportabile anche al più convinto dei sudditi. L’esagerazione è dietro l’angolo. Non sopportare al proprio interno interlocuzione alcuna, smerdare continuamente chi accenna a dire la sua,   fare e godere il vuoto attorno a sé, possono portare all’azzeramento totale dell’entusiasmo all’interno e all’annientamento del feeling esterno.

Succube dell’aridità politica del suo messaggio: al di là di pochi slogan, non emerge alcuna politica credibile; candidarsi alla guida del Paese mostra tutta la velleitaria corda; le squadre di governo ipotizzate fanno più tenerezza   che paura; il contropiede rispetto ai reiterati errori del sistema non potrà durare all’infinito; il gioco del “tanto peggio tanto meglio” prima o poi trova la buccia di banana; la evidente cecità protestataria col tempo guarisce; a stancarsi della DC gli Italiani hanno impiegato oltre quarant’anni, a svegliarsi dal sonno berlusconiano vent’anni, a scrollarsi di dosso la farsa grillina, a mio giudizio, potrebbero impiegare meno tempo.

Le vicende capitoline di Raggi e c., lo scompiglio periferico in vista delle prossime elezioni amministrative, lo schiacciamento sul populismo mondiale ed europeo, il vaneggiamento antieuro, il reiterato legamento dell’asino dove vuole il padrone, stanno mettendo a dura prova la credibilità e la votabilità del M5S.

A proposito di votabilità, Paolo Flores D’Arcais, non certo un difensore d’ufficio dell’establishment, su MicroMega, di cui è direttore, scrive: « Mi ero domandato fino a quando si sarebbe potuto votare ancora M5S: con rammarico, perché altri voti non di regime non se ne vedono. La misura era dunque già colma: l’ukase defenestratorio di Genova costituisce la goccia che fa traboccare il vaso: nemmeno il M5S è più votabile».

Le scadute ricette ideologiche

Come noto, le ricadute sono ancor peggio della malattia originaria e spesso ci colgono quando meno le aspettiamo, pensando di essere definitivamente guariti. Non so se l’ideologismo datato sia stato una malattia che ha colpito la politica. Certamente ne ha condizionato la concreta efficacia, deviandola verso le astratte questioni di principio e imprigionandola in schemi teorici.

Il muro di Berlino, che materializzava lo scontro idelogico tra capitalismo e marxismo o meglio tra occidente liberale e oriente comunista si pensava fosse caduto e il suo crollo   avesse rappresentato la fine della sterile contrapposizione teorica per riportare la politica al confronto pragmatico sui programmi.

Ebbi subito all’epoca il timore che assieme alle ideologie se ne andassero anche le idee, che si corresse il rischio di buttare assieme all’acqua sporca del manicheismo ideologico anche il bambino valoriale.

Ricordo una stupenda vignetta di Forattini che dalle due parti del muro crollato metteva, se non erro, l’entusiasmo degli orientali finalmente liberi dalle catene comuniste e il dramma della tossicodipendenza degli occidentali con le siringhe infilate nel braccio. Dalla padella del comunismo alla brace del capitalismo.

Nel frequente dialogo con un carissimo amico comunista scambiavo l’ansia di ritrovarsi alle prese con una politica bottegaia, dove si avrebbe finito col scegliere il miglior cibo prescindendo dalla credibilità dell’offerente, ma soprattutto dal valore nutritivo del bene in vendita.

Il fatto è che oltre il danno di avere precipitato la politica nel gorgo affaristico, in senso proprio e figurato,   ci ritroviamo anche fra i piedi i devianti rigurgiti ideologici, che vogliono riportarci al secolo scorso, lasciandoci intravedere i fantasmi delle dottrine superate, come sta avvenendo a Busseto e dintorni con i fantasmi di Giuseppe Verdi.

In questi giorni sono ben tre le questioni che hanno offerto e offrono l’occasione per reintrodurre alla grande lo scontro ideologico: l’abolizione dei voucher, il Daspo urbano e la nomina dei manager di Stato.

La CGIL si è presa la grave responsabilità di equivocare sul recupero del proprio ruolo invadendo brutalmente il campo legislativo e governativo e di reintrodurre nel discorso del mercato del lavoro elementi di vera e propria contrapposizione ideologica. I voucher sono diventati il simbolo dello sfruttamento e della precarizzazione   del lavoro, scatenando una furia iconoclasta e spaccando il Paese con la richiesta di un referendum abrogativo di sapore pansindacale. Uno strumento, utilizzabile per impostare alla luce del sole e legalizzare i piccoli rapporti di lavoro, impossibili da inquadrare nelle fattispecie canoniche della contrattualistica codificata e burocratizzata, viene combattuto ed esorcizzato come fosse uno strumento di tortura a danno dei lavoratori saltuari e precari e soprattutto un’occasione per affamare il popolo. Tutto giustificato demagogicamente dall’abuso che di tale strumento si sarebbe fatto e si farebbe per coprire evasione salariale, contributiva e fiscale. Un’opportunità per far emergere il lavoro nero diventa occasione per ributtare nel nero i rapporti regolari. Queste le motivazioni della guerra dichiarata ai voucher. Ogni e qualsiasi strumento, anche il più neutro,   nelle mani dell’uomo si presta ad essere abusato: vale per i farmaci, per il cibo, per il danaro, per gli abiti, per ogni e qualsiasi cosa.

Mio padre, persona costituzionalmente anti-ideologica, era capace di sdrammatizzare anche le più gravi situazioni, aveva l’abilità dialettica di ridurre le questioni ai minimi termini, non per evitarle, ma per affrontarle in modo pacato e realistico. Di fronte alle reazioni esagerate e catastrofiste metteva in campo una curiosa similitudine: «Se a vón ag va ‘d travèrs un gran ‘d riz, an magnol pu al riz par tutta la vitta? No, al sercarà ‘d stär pu atenti…». Si trattava proprio di stare più attenti, di controllare meglio, di regolamentare con maggior precisione, ma certo non era e non è il caso di farne una guerra ideologica. Oltretutto adesso tutta la colpa ricade sul governo, perché di fronte a chi spingeva a forza la porta, ha avuto l’idea di aprirla improvvisamente depotenziando, forse nel peggiore dei modi, la carica dei distruttori: anche il governo infatti ha finito con l’agire indirettamente sotto il condizionamento ideologico, preferendo sgombrare il campo dalla questione piuttosto che affrontarlo, col rischio di spaccare il Paese su una questione di politica del lavoro rinviata a data da destinarsi.

Ma non ci sono solo i voucher. Vediamo il cosiddetto Daspo urbano. Da tempo è in atto, anche all’interno della sinistra, la discussione sulla necessità di garantire sicurezza ai cittadini, non lasciando ai populisti di professione questo tema così delicato e sentito dalla gente. Ebbene, non appena un ministro, che oltretutto viene da una formazione culturale e politica di sinistra, tenta, di concerto con i comuni, di regolamentare la vita urbana e di arginare, peraltro in modo soft (sanzioni pecuniarie per chi si rende protagonista di episodi di degrado urbano, ordinanze dei sindaci con riferimento alla vendita di alcolici e alle situazioni di grave incuria al territorio, interventi a difesa dell’ordine pubblico in occasione di cortei e manifestazioni) writers, mendicanti, ubriachi, ambulanti non autorizzati, parcheggiatori abusivi, scoppia un finimondo di polemiche sulla presunta criminalizzazione degli emarginati, sullo spostamento dei problemi dal centro alle periferie, sul solito benaltrismo sociale, etc.

Siamo ancora nel campo puramente ideologico. Ha un bel dire il ministro Minniti che non si tratta di legge di destra: lo stanno mettendo in croce, perché ha avuto l’ardire di provare a risolvere qualche problema a livello di civile convivenza. «È uno strumento del tutto inefficace perché sposta il problema senza alcuna ambizione di risolverlo e soprattutto trasforma la guerra alla povertà e alla marginalità in una guerra contro i poveri e i marginali. È ipocrita, razzista e cattivo: penso abbia aspetti incostituzionali, prevedo un ricorso alla Corte suprema e noi faremo una battaglia politica durissima contro questa abdicazione definitiva della cultura di sinistra verso quella di destra», così il commento al decreto da parte del segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni. Pura ideologia, inconcludente e datata.

Arriviamo al punto tre: la nomina da parte del Governo dei Manager di Stato. Apriti cielo! Il blog di Beppe Grillo si scatena: «Renzi si sta dedicando, senza aver alcun titolo, a gestire le nomine e a piazzare i suoi uomini. Grave, intollerabile e pericoloso». Mi sembra normale che l’opinione di Renzi abbia influito: era Presidente del Consiglio da tre anni fino a tre mesi or sono e questa partita l’aveva certamente istruita da tempo. Che non siano stati rinnovati un paio di manager per scarsa sintonia con le linee politiche del governo non mi scandalizza affatto. Si tratta di manager di Stato nominati dal governo: a chi dovrebbero rispondere? A Beppe Grillo? Agli editorialisti de la Repubblica in vena di antirenzismo a tutti i costi?

L’allora sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, chiedeva con tutta l’insistenza possibile a Enrico Mattei, Presidente Eni, di salvare “La Pignone” e il posto di lavoro dei suoi dipendenti: un dialogo diventato storicamente emblematico e culturalmente stimolante. Allora mi chiedo perché Renzi non possa chiedere all’amministratore delegato di Poste di intervenire per rilevare il risparmio gestito Pioneer da Unicredit in modo da evitare che finisca in mani francesi, di dare una aiuto per risolvere il problema Monte Paschi Siena. Erano operazioni antieconomiche? Tutto da dimostrare nel tempo a venire e nel contesto generale. Intromissioni politiche? Se non si intromette sugli Enti di Stato, cosa ci sta a fare il governo a livello economico-finanziario?

Mi sembra di essere tornato al periodo in cui il PCI faceva opposizione ideologica e generalizzata su tutto, con il piccolo particolare che almeno la sapeva fare, mentre oggi siamo a livello di penosi dilettanti della politica e di replicanti della storia strapassata. Le ideologie uscite dalla porta rientrano dalla finestra e condizionano il confronto politico riducendolo a scontro pregiudiziale. Non sarà il caso di darsi una regolata?

I sindaci usurati

Mi ha sinceramente colpito una dichiarazione del sindaco uscente di Genova, Marco Doria, raccolta da la Repubblica: «Un consigliere regionale o un parlamentare non lo cerca nessuno e prendono stipendi molto alti. Un sindaco è al centro di tutto, carico di responsabilità. Un peso che può spaventare tanti». Di rimando il cronista   si è posto la piccante domanda: un mestiere usurante per 3 mila euro al mese, ne vale la pena?

Ho già espresso in un precedente commento cosa penso del trattamento economico da riservare ai politici, ma qui viene introdotto il delicato e difficile discorso delle responsabilità.

In effetti si nota, in giro per l’Italia, una crescente riluttanza alla ricandidatura a sindaco per gli uscenti logorati da cinque anni di problemi, contrasti e polemiche, ma anche una certa confusione nelle candidature ex novo e soprattutto una progressiva loro caduta di livello qualitativo.

Croce e delizia della carica di sindaco è quella di essere a contatto piuttosto immediato con i cittadini e i loro bisogni. Viene spontanea al singolo o ai gruppi, in concomitanza con l’insorgenza di piccole e gravi questioni, l’idea di rivolgersi al sindaco: è il primo autorevole referente, che, a volte, rischia di essere anche l’unico. Pur volendo non riesce a nascondersi dietro qualcun altro; l’unica arma di difesa in suo possesso è la scarsità dei fondi, quella vale sempre e comunque, date le ristrettezze della finanza pubblica, ma non interessa ai cittadini con l’acqua alla gola.

Capisco la solitudine dei sindaci: trovano nella prefettura un interlocutore freddamente burocratico; nella Regione un’entità intermedia restia ad assumersi responsabilità, pronta a rivendicare i meriti ed a scaricare le colpe; nei parlamentari di collegio le primule rosse in tutt’altre faccende affaccendate, introvabili nei momenti top della discussione romana; nel governo centrale un’autorità lontana, impegnata sempre in questioni di più alto respiro. Mestiere difficile e ingrato quello del sindaco. Chi vuol fare politica lo sta capendo e opta per altri incarichi.

La riforma elettorale a livello comunale, da tempo varata e che, a detta di quasi tutti, funziona (personalmente ho non poche perplessità), concede al sindaco l’investitura popolare assieme a parecchi poteri, ma con il rovescio della medaglia di enormi responsabilità e rischi. Sì, perché è un attimo finire sotto inchiesta e sotto processo per abuso d’ufficio o altre simili reati in cui ci si può infilare senza accorgersene. Emblematico il caso del sindaco di Bologna sotto inchiesta per non aver interrotto l’erogazione dell’acqua ai poveracci, occupanti abusivi di case popolari fatiscenti. I giudici si dice fanno il loro mestiere: forse, a volte, farebbero meglio a cambiare mestiere.

A Genova i candidati sindaco dell’era post-Doria non si trovano. Ma Genova è perfettamente in media. A sinistra la bagarre è grande e un candidato sindaco prima che dei problemi del potenziale suo comune deve preoccuparsi degli equilibri di partito e di coalizione. I pentastellati fanno fatica a trovare candidature serie, non hanno classe dirigente, quella poca se la giocano nelle polemiche interne pro o contro Grillo, e ripiegano su personaggi usciti da comunarie burletta con numeri da cabina telefonica (purché strettamente fedeli al padrone del vapore grillino). Il centro-destra o trova il leghista di turno, che cavalca i ben noti discorsi del populismo a dimensione comunale, oppure si assenta in attesa di risolvere i tira e molla berlusconiani. Restano i funghi del civismo: molto spesso coprono operazioni di riciclaggio delle forze politiche a corto di uomini e di argomenti credibili.

Un panorama tendente allo squallido. Credo non sia prevalentemente una questione di portafoglio, anche quella ha indubbiamente la sua importanza, ma di equilibri politici e istituzionali. A parziale incoraggiamento è vero che una sindacatura in una città importante può essere il lancio per una carriera politica di più alto livello, meno probabile il contrario: la storia recente dimostra l’uno e l’altro caso scuola.

Credo che, tutto sommato, i sindaci siano gli ultimi Mohicani, i capitani coraggiosi della nave   sbattuta dalle onde nel mare tempestoso della frattura tra elettorato attivo e passivo, in poche parole le vittime della politica politicante e assente dai bisogni della gente. Non è un caso se tra di loro riescono a trovare intese che vanno oltre i partiti di appartenenza, solidarietà tra colleghi su problemi comuni, meccanismi virtuosi di rappresentanza comune verso regioni e governi.

Se i partiti non si sforzeranno di qualificare e fortificare la loro presenza sul territorio – i sindaci ne sono i facitori istituzionali – avranno una classe dirigente sempre più inadeguata da collocare in Regioni – coi governatori megalomani – che giocano a fare gli staterelli, in un Parlamento di fantasmi, in un Governo costretto a preferire i tecnici. Il tutto davanti ad un elettorato sempre più vacanziero. Poi magari alla fine tutti daranno la colpa all’Europa, che ha le spalle buone, fino ad un certo punto.

 

Chi scherza col fuoco?

Ascoltando e leggendo la notizia di un gruppo di turisti, giornalisti e guide, colpito, per fortuna solo di striscio, da una pioggia di materiale incandescente sputato dall’Etna – notizia che per certi versi assomiglia molto a quelle riguardanti sciatori investiti da slavine e valanghe, alpinisti colti dallo sgretolamento delle montagne o da drammatiche tempeste di neve – non ho potuto frenarmi ed ho immediatamente pensato: non si può scherzare col fuoco.

Purtroppo però ci sono molti tipi di fuoco e di scherzi. Ne faccio un breve elenco, non certo esaustivo, ma solo esemplificativo: si tratta di fuochi e incendi virtuali, fenomeni molto più pericolosi e meno controllabili, che finiscono però col ripercuotersi anche su coloro che non hanno alcuna intenzione di scherzare e con l’infiammare l’intera società.

Prendo spunto e mi limito all’attualità. Il vice-presidente della Camera dei Deputati, il grillino Luigi Di Maio, candidato premier in pectore (Dio ce ne scampi e liberi…), di fronte alla bocciatura, da parte del Senato, della decadenza del suo componente Augusto Minzolini, postasi all’ordine del giorno in quanto condannato a 2 anni e 6 mesi per peculato, un reato commesso quando era dipendente Rai, ha reagito con parole incendiarie rivolte ai colleghi, rei a suo dire di scambi di favori a livello castale: «Non vi lamentate se i cittadini vengono a manifestare in modo violento».

Cari amici grillini, tempo fa vi davo atto di avere intercettato, interpretato e rappresentato forme di protesta, che avrebbero potuto esplodere in modo violento e piazzaiolo; oggi le parti, a quanto pare, si sono invertite e siete voi a giustificare ed istigare il ricorso alla protesta violenta, lanciando subdoli avvertimenti, tirando sassi sul Web e nascondendo la mano, usando continuamente frasi e parole dette apposta per creare un clima di rissa, candidandovi al ruolo istituzionale, non tanto di governo, ma di fiammifero di Stato. State scherzando col fuoco:   attenti perché la storia è piena di situazioni simili, finite in veri e propri drammi sociali e politici.

Anche i parlamentari del partito democratico devono stare in campana e non giocare col fuoco del voto di coscienza. IL PD fa un po’ troppo ricorso a questo meccanismo: da una parte la libertà di voto fa onore ad una formazione politica, ma può anche diventare una fuga dalle proprie responsabilità. Nel partito democratico e dintorni si assiste ad un tira e molla vergognoso su troppi argomenti e in troppi casi. Prendiamo il discorso voucher: sembrava che Renzi avesse sconvolto il mondo del lavoro, limitandosi solo ad allargare le maglie di una rete gettata da altri. I voucher sono strumenti per regolare i lavoretti, vale a dire quei rapporti di lavoro che non rientrano, per loro caratteristiche oggettive, nelle fattispecie contrattuali classiche. Ebbene la CGIL (altro soggetto specializzato nello scherzare col fuoco) ne ha fatto una battaglia ideologica, chiedendo un referendum; molti piddini le hanno fatto da sponda e, adesso fanno i furbi dicendo che il governo, chiudendo definitivamente la partita, avrebbe “saltato il fosso andando oltre il ragionevole” (il solito Bersani: lui non ha saltato il fosso ma il fiume…) e che i voucher in certi casi potrebbero continuare a sussistere e si rammaricano perché di punto in bianco migliaia di soggetti non sapranno che pesci pigliare (a monte, dopo avere rotto i coglioni per mese e mesi su questa faccenda, si grida a chi, a valle, avrebbe esagerato con l’eliminazione dei voucher). Siamo sempre nel caso di chi getta il sasso e nasconde la mano, di chi accende un fiammifero vicino alla benzina e poi grida al fuoco se scoppia l’incendio.

È già cominciato il balletto delle coscienze in materia di biotestamento. Insomma alla fine sono forse più i voti in difformità dalle linee di partito di quelli nel rispetto delle stesse. Non invidio i capi-gruppo PD impegnati a tenere uniti questi parlamentari sguscianti da tutte le parti. Lasciamo perdere quanti si sono resi responsabili della scissione di questo partito (loro sì che se ne intendono): hanno giocato e giocano col fuoco distruttivo di una forza politica fondamentale nello scacchiere politico italiano.

La rassegna arriva ai magistrati. Devono smetterla di scherzare col fuoco del fare politica, dentro e fuori dai partiti, come se fossero degli esercizi pubblici in cui si entra e si esce con la massima libertà, candidandosi a ricoprire funzioni parlamentari per poi tornare a lavorare nelle procure e nei tribunali; andando in aspettativa per fare politica, con la possibilità di tornare indietro in ogni momento, nascondendosi dietro il dito della Costituzione che vieterebbe solo di iscriversi ad un partito, ma non di rappresentarlo in Parlamento. In poche parole brutali, non sanno dove tenere il culo. Facessero i giudici e la piantassero di “pendolare”, finendola di scherzare col fuoco dell’invasione della politica e dello screditamento della magistratura. La recente vicenda del giudizio parlamentare in dissenso da quello della magistratura, relativo ad Augusto Minzolini, è figlio soprattutto di questo casino politico-giudiziario.

Dello scherzar col fuoco dei leghisti ho già parlato in un precedente commento e non voglio ripetermi: è assurdo e colpevole incendiare le piazze e poi scandalizzarsi quando si finisce per subire degli autogol piazzaioli e violenti.

A livello internazionale voglio solo fare l’esempio della Turchia: con questo Stato-regime in troppi hanno scherzato e ora l’incendio è divampato. Troppo spago si è offerto a questo “sporca per casa” di un Erdogan e adesso potrebbe essere tardi per fare marcia indietro.

Lasciamo perdere lo scherzar col fuoco degli americani elettori di Trump: forse abbiamo raggiunto il massimo del virtuale incendio colposo e gli effetti si avranno (ci sono già) in tutto il mondo, non so per quanto tempo (sicuramente parecchio).

Basta così. Penso di avere reso l’idea di cosa voglia dire scherzare col fuoco a livello sociale e politico. I turisti dell’Etna se la sono fortunatamente cavata con leggere ferite. Il turismo della politica crea ferite talmente vaste e diffuse che non si notano, ma si sentono e si sentiranno sempre più.

 

Le dighe olandesi e i ponti scozzesi

Sul mio libro di lettura della scuola elementare vi era un raccontino di fantasia, molto semplice e retorico, ma anche molto significativo. Era ambientato in Olanda terra delle dighe. In una di essa si era creato un piccolo foro e un bambino-eroe teneva il dito dentro quel foro in attesa che arrivassero gli uomini addetti alla manutenzione per riparare il danno.

Ebbene gli olandesi in queste loro elezioni hanno tenuto il dito nel foro dell’ultradestra populista e xenofoba e per il momento la diga ha tenuto, ma devono arrivare le politiche   convincenti a riparare definitivamente i danni e mettere in sicurezza l’Europa.

Seppure con una certa fatica e con dati non esaltanti ed estremamente frammentati, la politica olandese esce da questa consultazione elettorale con un Parlamento al limite della ingovernabilità, ma saldamente contrario all’avventurismo populista.

Bisogna lavorare di fantasia, ma alla fine si trova nel panorama partitico uscito dalle elezioni olandesi un senso politico incoraggiante: un’area di centro destra piuttosto articolata, moderata, liberale ed europeista; un’area di sinistra fragile e divisa tra i laburisti in caduta libera e i verdi in forte ascesa; gli anti-tutto della destra estrema che sono il secondo partito, fuori gioco rispetto alle prospettive di governo.

Vorrei tentare un parallelismo con la situazione italiana. Vediamo in rapida sintesi l’Olanda uscita dalle urne dopo una terapia d’urto a base di aspirina per abbassare la febbre populista. Possiamo dire che l’Olanda è sfebbrata, non certo guarita.

A sinistra dominano le divisioni, anche se il segnale olandese segna una preferenza verso una impostazione non ideologica, moderna, aperta, giovane e multiculturale. “Credo che d’immigrati ne vadano accolti e aiutati molti di più di quanto facciamo noi. Sono soltanto loro che possono diventare quella linfa vitale in grado di salvare una società come la nostra che è sempre più stanca e sempre più vecchia”, così dice una giovane studentessa sostenitrice del partito ambientalista.

Il centro-destra, messo sotto scacco dai populisti, ha saputo trovare la sua ragion d’essere, senza rincorrere la destra xenofoba, garantendo in senso moderato, democratico ed europeista la difesa dell’identità nazionale.

Il populismo, pur cavalcando l’onda di brexit e di Trump e   collegandosi con le forze di tale stampo emergenti negli altri Stati europei, non ha sfondato e si è chiuso in un recinto pericoloso, ma minoritario e senza grosse prospettive politiche.

E in Italia? La sinistra è divisa, ma non riesce a trovare la cifra della modernità, intestardendosi nelle nostalgie identitarie e indulgendo al solito puritanesimo ideologico. Il centro-destra italiano non riesce ad affrancarsi dal condizionamento dei partiti populisti (Lega e FdI) e ondeggia: l’estemporanea trovata di Berlusconi sulle due monete (euro e una moneta nazionale di scorta) la dice lunga in tutti i sensi.

Gaetano Quagliariello, un inquieto ma intelligente ex-berlusconiano, parlamentare da tempo alla ricerca di una collocazione di prospettiva, così sintetizza la situazione politica italiana: «Sono preoccupato, a sinistra si menano come fabbri, i cinquestelle sono minoranza istituzionalizzata e a destra siamo in cerca d’autore…».

L’area populista in Italia è sdoppiata (?) tra leghismo e grillismo. Mi ha fatto quindi una certa impressione leggere come Marc Lazar, autorevole politologo francese, classifichi gli italiani   Cinquestelle tra i populisti tout court, assimilandoli al partito olandese di Wilders e al francese Front National di Marine Le Pen. Forse più simili al primo che al secondo, assai più vicino alla Lega: Grillo infatti, come Wilder, è un membro unico del suo partito, con una base improvvisata alle spalle, sempre a rischio di implosione da un momento all’altro: lo si vede dalla necessità di tenere alta la violenza verbale, di giocare costantemente allo sfascio e di puntare allo splendido isolamento; lo si è visto nel momento dello sbando per la collocazione nel Parlamento europeo; lo si nota dalle indiscrezioni sulla sua squadra di governo a livello nazionale, francamente risibile se non ridicola.

Forse dall’esterno le cose si vedono meglio e si diradano certe distinzioni di lana…grillina. Questa, nella mia estrema e provocatoria sintesi, l’Italia politica di oggi.

Il succitato esperto francese afferma: «Assistiamo ad un cambiamento di portata storica per cui l’antagonismo non è più tra destra e sinistra, ma tra favorevoli e contrari all’Europa. Servirebbe maggiore integrazione economica, sociale e politica e ci vorrebbe più democrazia. Serve una battaglia politica e culturale europea, pedagogica, per spiegare ai cittadini che anche di fronte ai problemi l’unica soluzione è l’Europa».

Dobbiamo abituarci a ragionare in questi termini, adottando lo schema europeista nelle nostre analisi politiche e programmatiche. Così come, sempre a detta di Marc Lazar, dobbiamo prendere atto che oggi non ci sono più movimenti che attaccano apertamente la democrazia in favore della dittatura, ma la critica è contro la democrazia rappresentativa. Si vorrebbe una democrazia immediata, quasi diretta, senza l’abolizione del Parlamento, ma con continue convocazioni di referendum. E allora ecco la necessità di riforme istituzionali che aprano, nei limiti del possibile, le porte della politica, arginando le conseguenti derive populiste.

Come sostiene un importante ed autorevole intellettuale olandese, Geert Mak, intervistato da la Repubblica, l’Europa non può stare tranquilla: «L’Ue così com’è non funziona. E se non cambia, collasserà come la vecchia Repubblica olandese. È una struttura statica e squilibrata, con regole inadatte agli imprevisti, che non fa nulla per proteggere i suoi cittadini da una globalizzazione troppo veloce, da una finanza feroce e dalla volubilità dei mercati. Non fa nulla per farli sentir a casa gli europei, né si spende per farli sentire sicuri. O diventiamo una vera federazione oppure l’Europa è destinata a morire. L’Europa deve essere un posto dove vivere, non solo uno spazio».

Sarà il caso quindi, ad esempio, di non fare melina con gli Scozzesi, trincerandosi dietro procedure di lungo tempo e corto respiro: ben vengano, se credono nell’Europa a differenza degli inglesi. I tatticismi lasciano il tempo che trovano, la paura dei secessionismi non deve condizionare, anzi il federalismo europeo potrebbe proprio essere la cartina di tornasole delle rette intenzioni dei separatisti presenti in altri stati membri.

Tutti spunti di riflessione. La fase elettorale, che dovrebbe fare la prova del nove all’Europa, è cominciata. Non male del tutto. Vedremo in Francia, in Germania e poi…in Italia. Speriamo, come Italiani, di rimanere protagonisti e di non accodarci semplicemente all’aria che tira.

 

 

 

La (Pisa)pia illusione a sinistra

Nel farraginoso panorama italiano della sinistra politica da qualche tempo si aggira un personaggio relativamente nuovo, che ha bazzicato culturalmente gli ambienti più radical chic, un giurista di alto livello, un alto borghese prestato al proletariato, un sindaco di saldatura di un’area che va dal ceto medio al sottoproletariato, un uomo moderato nei toni ma di forte ispirazione laico-progressista. Si tratta di Giuliano Pisapia.

Si aggira come un fantasma nelle attuali stanze della sinistra, tenendosi in disparte da tutti, ma dialogando con tutti e dando l’illusione di essere con loro; tiene aperto un canale di collegamento con i fuoriusciti dal PD (non mi sono ancora abituati a chiamarli Movimento dei Democratici Progressisti), ha agganciato i frazionisti di Sel e Si, piace un po’ a tutti (Landini compreso, la Camusso non si sa perché è troppo indaffarata a disfare quanto ha fatto il governo negli ultimi anni), non si pone in conflitto col PD, anzi lo ritiene un interlocutore obbligato e di questo partito coinvolge, a livello di dialogo, parecchi personaggi di primo piano oltre ai candidati alla segreteria in opposizione a Renzi, ha l’appoggio dei camali di porto, degli studenti arrabbiati, dei giovani disperati, dei borghesi illuminati, del terzo settore, degli intellettuali sfaccendati, degli artisti interessati, dei cattolici (non solo di sinistra) e dei laici. In molti guardano a lui (un po’ troppi, secondo me). Ha, seppure con altro stile e spunto, e con tendenza a segnare nettamente il territorio sulla destra, qualcosa in comune col maanchismo veltroniano.

Ha il suo brand e il suo movimento, “Campo progressista”: lo ha pensato con calma olimpica, dopo il gran rifiuto a ricandidarsi sindaco di Milano, e intendendo riproporre a livello nazionale l’ampia ed articolata esperienza milanese. Tutti i senza casa di sinistra guardano a lui con speranza e sollievo, perché in teoria riesce a coniugare identità, storia, lotta, governo, uguaglianza, modernità.

Nella sua strategia, peraltro ancora piuttosto vaga e (quasi) tutta da costruire, in pratica, si intravedono, assieme a prospettive interessanti, alcune latenti contraddizioni politiche e anche sociali. Giuliano Pisapia non è indenne dalla sindrome autoreferenziale e purista della sinistra: ha (im)posto infatti al PD un confine a destra verso quelle forze che si autodefiniscono di centro moderato, un vespaio di ex berlusconiani che hanno sostenuto in questi anni il governo (prima assieme a Berlusconi, poi senza) e che potrebbero essere ancora disponibili, soprattutto qualora il sistema elettorale ci consegnasse un Italia frammentata e ingovernabile. Qui Pisapia è in una certa controtendenza rispetto alla “sua”operazione milanese. Pisapia ha vinto le elezioni amministrative milanesi del 2011 saldando la sinistra tradizionale con gli ambienti della borghesia e financo con ambienti cattolici vicini a Comunione e Liberazione, senza farsi giustamente scrupolo di imbarcare uomini provenienti da esperienze politiche diverse dalla sua, come ad esempio Bruno Tabacci. Non capisco perciò questa conversione puritana. Probabilmente ritiene di recuperare socialmente certe fasce moderate di elettorato senza bisogno di blandirne i target partitici. Non vorrei fosse il condizionamento psicologico della sinistra anti-renziana a tutti i costi. Probabilmente paga un prezzo, che però potrebbe rivelarsi pericoloso e controproducente.

Una seconda difficoltà la sta incontrando con i progressisti ex PD: rischia di ascoltarli troppo e di essere risucchiato dai D’Alema e dai Bersani, che strumentalmente gli stanno dando corda, ma hanno in testa ben altre idee. In effetti Giuliano Pisapia è stato preso in contropiede dalla scissione PD, di cui voleva essere l’esorcista esterno, e quindi la sua manovra ha preso ancora più indeterminatezza e confusione rispetto alle intenzioni iniziali.

Su tutto poi, a breve termine, grava l’incertezza del sistema elettorale, che potrebbe aiutare, ma anche mettere in seria difficoltà il “federalismo” di sinistra, o consacrandone la deriva frazionista spinta dal sistema proporzionale o soffrendo la forzata necessità di un aggregazione nel sistema maggioritario senza coalizione.

Da ultimo Pisapia ignora il movimento cinque stelle: punta a recuperare la sfiducia “di sinistra” albergata provvisoriamente in esso. Grillo, ai tempi dell’operazione Milano, lo chiamava “Pisapippa”. Oggi, per il momento tace, perché di “pippe” ne ha già abbastanza tra le sue file.

Se ho ben capito, Giuliano Pisapia, tra un dubbio amletico e l’altro, punta alla riaggregazione dell’area a sinistra del PD, senza conflittualità ma addirittura con attenzione collaborativa verso il PD. Auguri!

 

Il gioco politico del lotto punta su Lotti

Ho ascoltato con grande attenzione, sgombro da ogni pregiudizio, l’intervento del ministro Luca Lotti in Senato al termine della discussione sulla mozione di sfiducia verso di lui, presentata dal movimento cinque stelle.

La questione si pone a tre dimensioni e livelli. Sul piano giudiziario è in atto un’indagine che, mi pare, non abbia raccolto grandi prove contro il comportamento di Lotti per rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento: tutto ruota infatti attorno alla testimonianza di un manager di Stato che avrebbe rivelato di essere stato informato dal ministro dell’inchiesta in atto e della installazione di microspie nel suo ufficio. Della serie “stai attento perché ti stanno spiando nell’ambito di una indagine riguardante episodi di corruzione nelle procedure sulle gare d’appalto adottate dall’azienda di cui sei amministratore delegato”. Il ministro avrebbe avuto queste indiscrezioni da ambienti delle forze dell’ordine, tanto che risultano indagati anche alti esponenti dell’arma dei carabinieri.

La giustizia farà il suo corso. Il ministro Lotti dice di avere fiducia nella magistratura e di collaborare con essa. Nega con assoluta decisione di avere mai e poi mai violato segreti e favorito con informazioni riservate persone coinvolte nell’inchiesta di cui sopra.

Si profila un caso classico di due verità che si scontrano: o sono magari mezze verità oppure una delle due è una falsità. Probabilmente non se ne uscirà. Ricordo come durante un processo tenutosi al tribunale di Parma proprio in materie simili, chiesero al Presidente di procedere ad un confronto fra due persone che si smentivano a vicenda clamorosamente. Il Presidente non ammise alcun confronto, perché sostenne saggiamente che processualmente non serviva a nulla: ognuno avrebbe mantenuto la sua posizione e tutto sarebbe stato teatralmente interessante, ma giudizialmente inutile. Non esistono quindi allo stato motivi che a termini di legge comportino incompatibilità o decadenza dalla carica di ministro. Principio di garanzia che dovrebbe valere sempre e per tutti.

Dal punto di vista politico non vedo sinceramente come si possa dimostrare che sia venuta meno la fiducia sulla base di accuse categoricamente smentite dall’interessato. Siamo, caso mai, nel campo dell’opportunità o meno che un ministro sottoposto ad indagini si dimetta in quanto anche solo il dubbio potrebbe compromettere la credibilità e la trasparenza dell’azione di governo: ecco infatti che i più “smagati” politici, a livello parlamentare, hanno ripiegato su una mozione di richiesta di dimissioni e/o di invito al Presidente del Consiglio a ritirare la delega al ministro. Il secondo discorso fatto in aula dal Ministro è stato proprio questo: dopo aver chiarito la correttezza del suo comportamento anche sul piano politico, ha giudicato meramente strumentale l’attacco, in quanto utilizza solo un dato giuridico provvisorio, e quindi irrilevante, per arrivare in realtà a formulare giudizi politici riguardanti l’azione di governo, della serie “attacco nuora (Lotti) perché suocera (Gentiloni e Renzi) intenda”.

Arriviamo per gradi al piano della sensibilità individuale. Tutto alla fine si risolve lì. Se Lotti cioè ritenga opportuno, pur senza la benché minima ammissione di colpa, farsi da parte per, come si suol dire, agevolare il corso della Giustizia, per potersi meglio difendere, per sgombrare il campo da ogni e qualsiasi ombra sul suo operato e sulla credibilità del governo di cui fa parte. Evidentemente non lo ritiene opportuno né dal punto di vista personale (ammissione indiretta di colpa), né dal punto di vista politico (indebolimento del governo). Altrimenti lo avrebbe già fatto, senza aspettare le inutili e poco credibili spallate degli avversari storici e di quelli anti-storici. Inutile e pretestuosa è la ricerca di analogie col comportamento di altri ministri, in altre situazioni, in altri momenti storici: se si tratta di valutazioni personali e politiche, ogni caso fa storia a sé.

Un’ultima riflessione (in cauda venenum). Pierluigi Bersani avrebbe deciso di presentare, assieme agli amici scissionisti del PD (mi viene spontaneo definirli così, prima o poi mi abituerò a chiamarli col nuovo nome che hanno assunto, vale a dire MDP), una mozione, come detto sopra, che chiede a Gentiloni di ritirare le deleghe a Lotti. Bersani aggiunge con la sua solita lapalissiana verve da bottegaio in pensione: «Qui o ha ragione Lotti o ha ragione Marroni». Deduzione di altissimo spessore giuridico, politico ed etico: ragionamento tendente alla scoperta dell’acqua calda. Forse, effettivamente e tutto considerato, ha ragione Lotti a rimanere al suo posto, anche se io, al suo posto, me ne sarei andato al primo accenno di indagine a mio carico. Ma questo fa parte della mia cronica “dimissionite” e non fa testo.