Un Papa vicino, una UE lontana

La sarabanda mediatica del 25 marzo è stata costretta ad accostare due eventi di diversa natura e portata: il rinnovo delle “promesse europee” (siamo in clima pre-pasquale e quindi per l’evento laico uso una terminologia religiosa) e la conferma della “politica papale” (siamo sempre in clima elettorale e quindi per l’evento religioso uso una terminologia laica).

Al di là dei giochetti lessicali anche al più superficiale degli osservatori non sarà scappato come la liturgia, al limite della parodia, sia stato il connotato prevalente della laica celebrazione dei Trattati di Roma costitutivi della CEE, mentre nella visita di papa Francesco a Milano, pur in un calendario fin troppo fitto di incontri e cerimonie ufficiali e oceaniche, abbia prevalso il dato della semplicità e della spontaneità.

A Roma si respirava un’aria compassata e distaccata rispetto ai sentimenti popolari: i protagonisti hanno fatto un po’ di comunella fra di loro (meglio di niente), ma di vero pathos neanche a parlarne. Sarebbe andata ancor peggio se non ci fossero state le tanto temute manifestazioni in piazza a favore e contro l’UE a Roma, ma ancor più in tante altre piazze europee, in cui almeno si è rotto il disincanto della gente e si è “gridato” il pensiero dei cittadini, con forza e convinzione in difesa del più genuino europeismo.

Persino la sindaca Virginia Raggi, imbalsamata e fasciata, non è riuscita a porgere un vivace spaccato di umanità (qualcosa ha detto nel suo saluto, ma in queste occasioni contano più gli sguardi delle parole), lei che sta sprecando il largo mandato popolare ricevuto. C’è voluta la freddezza di Angela Merkel a riscaldare l’incontro con la città di Roma: ha persino chiesto di fare una foto ricordo della stretta di mano con un’imbarazzata sindaca, la quale avrebbe dovuto essere, fra tutte le autorità convenute, la più vicina alla gente lontana (forse era solo emozionata).

A Milano si intravedeva al contrario una forte partecipazione che ha avuto i suoi clou nella visita ad alcune famiglie ed al carcere di San Vittore. Le immagini davano questa sensazione. D’altra parte il componente di una delle famiglie visitate dal papa ha detto con grande commozione ed un pizzico di demagogia (che in quel caso non ha guastato): «Il Papa è l’unica autorità che ha il coraggio di parlare dei poveri e dei lavoratori…». Ed un’altra milanese ha commentato: «Non si era mai visto un papa fare visita a delle famiglie di base…». Poi l’inquadratura del Papa seduto a mensa coi carcerati. Poi ancora la frecciatina all’orgoglio tutto milanese del credere troppo al proprio possibile (un laurà della Madonna) e l’invito a credere all’”impossibile” di Dio.

Non è una questione di sentimentalismo e di poesia: c’è in ballo la capacità dell’autorità di mettersi in contatto reale con le persone, i loro problemi, i loro drammi. Bisogna ammettere che la Chiesa lo ha capito ed ha scelto di conseguenza un papa capace di imprimere una svolta in tal senso. Le autorità politiche non lo capiscono e rimangono lontane (forse ben oltre gli allarmanti dati demoscopici, che misurano lo slegamento tra gli europei e una certa UE), lasciando spazio, peraltro, alle pseudo-autorità ed al loro pseudo-popolarismo, chiamato appunto populismo.

Qualcuno dirà che la Chiesa vince in partenza, perché può contare sulle spinte dello Spirito Santo. Lo Spirito Santo, per chi ci crede, agisce anche nelle istituzioni laiche, non solo nei conclavi e nell’opera dei papi. Oltretutto nella storia ci sono stati papi che se ne sono fregati altamente del popolo di Dio e capi politici che hanno versato il sangue per i loro concittadini.

È una questione di sensibilità, di passione, di fede, di solidarietà, di condivisione. La Chiesa, con papa Francesco, sta tentando faticosamente di recuperare il ritardo accumulato; l’Europa si sta sempre più allontanando dallo spirito unitario da cui è nata: ha raggiunto traguardi importanti (la non-guerra, il mercato comune, la libera circolazione di beni e persone, un certo benessere), ma ha mancato il più importante, quello di far sentire i cittadini europei partecipi di una casa e di un destino comuni, di una famiglia allargata e aperta.

Non dobbiamo aspettare un Papa-Ue, sarebbe assurdo e pericoloso, ci potremmo accontentare di un vero Parlamento, di vere Istituzioni comuni, tali che, quando si vedessero i loro componenti, ci si sentirebbe interpretati e rappresentati. Se poi ci fosse anche un po’ di carisma, non guasterebbe. Sì, quello che avevano i pionieri e i fondatori dell’Europa unita.

Le suocere europee e quelle…italiane

In questi giorni sulla scena europea si è scatenato il tentativo di rialzarsi dai miseri limiti e dalle storiche contraddizioni per alzarsi in volo, recuperando idealità e principi e superando, come ha chiesto papa Francesco, la zavorra delle regole protocollari.

Mentre in vetrina si vola alto, nel retro-bottega si rimane testardamente e pignolamente a far di conto. È il caso dell’Italia il cui deficit andrebbe al di là dei parametri fissati ed a cui la Commissione europea chiede con insistenza una piccola (?) correzione di circa 3,4 miliardi a pena di essere messa dietro la lavagna con tanto di insegnante d’appoggio.

Scrive opportunamente Claudio Lindner su L’Espresso: «Si tratta di regole che in realtà quasi tutti hanno violato negli ultimi sette anni, come rivela una ricerca della Cgia di Mestre sui Paesi che hanno sforato la soglia del 3 per cento nel rapporto tra deficit e Pil: l’Italia tre volte, la Francia otto, come Spagna e Regno Unito, la Germania due. Solo Estonia, Lussemburgo e Svezia sono rimaste indenni. Ma al di là dei conti pubblici, vi sono comportamenti che indicano anomalie, eccezioni, privilegi. Il Fisco agevolato in Irlanda e Lussemburgo, da concorrenza sleale verso gli altri. O la Germania, con i suoi surplus commerciali da record che non investe e si tiene stretti».

Non si riesce a capire (in realtà si capisce benissimo) perché in una classe così indisciplinata i rimproveri si appuntino sull’Italia fino al punto da minacciare severe punizioni. Il bello è che anche in Italia si alza continuamente il coro dell’ammissione di colpa, che è semplice indovinare dove vada a parare: l’Italia ha ottenuto da tempo una certa flessibilità nei conti, ma l’ha usata male, perché in gran parte queste risorse aggiuntive sono state spese a fini elettorali, per vincere il referendum sulle riforme costituzionali. Chi è dunque il colpevole? Matteo Renzi. Come volevasi dimostrare.

È un ritornello largamente condiviso da esponenti politici di maggioranza e opposizione (lo sostiene da tempo Massimo D’Alema, che non saprei come definire, ma che non tace un attimo), da ex uomini di governo (Mario Monti ed Enrico Letta), da autorevoli opinionisti, da esperti economisti, etc. Sta diventando un luogo comune. È poi perfettamente inutile scandalizzarsi se qualcuno, a livello dell’establishment europeo, esprime più o meno lo stesso (pre)concetto ricorrendo a plastiche similitudini da osteria.

Matteo Renzi in una recentissima intervista rilasciata ad Avvenire contesta radicalmente questo giudizio ammettendo come sia più facile spezzare un atomo che un pregiudizio. Dice l’ex presidente del Consiglio: «Abbiamo fatto interventi organici sul fisco con l’Irap per il costo del lavoro, sulle tasse agricole, sugli 80 euro, sul ceto medio, sulle aziende e industria 4.0. Non c’è stata distribuzione a pioggia, ma la prima vera operazione di riduzione della pressione fiscale».

Ammetto che sulla opportunità ed efficacia di questi interventi governativi ci possano essere opinioni contrastanti, mancherebbe altro. Ciò che mi disturba è il volere a tutti i costi, come fa Enrico Letta, per motivi immaginabili, psicologicamente comprensibili ma politicamente assai discutibili, squalificare il tutto, bollandolo pregiudizialmente come strumentale all’accaparramento di voti al referendum. Come se la ricerca del consenso fosse vietata, come se andare incontro agli interessi dell’elettorato fosse anti-democratico, come se inserire le riforme costituzionali in una più complessiva manovra programmatica fosse sconveniente.

Cosa c’è di riprovevole, al di là dell’ormai storico “Enrico stai sereno…”, nel fatto che Renzi abbia voluto inviare agli elettori un messaggio del tipo: “Guardate che abbiamo fatto tante cose, giuste o sbagliate che siano, per aumentare il potere d’acquisto dei consumatori, per dare qualche risorsa in più da investire, per aiutare i soggetti deboli. Prima, dopo e durante questi discorsi ci stanno anche le riforme costituzionali…”.

Ma veniamo agli atteggiamenti verso la UE. Se Renzi taceva, era troppo remissivo e non si faceva sentire a dovere. Se si impuntava, era sconsideratamente aggressivo e rischiava di tirarsi addosso le pericolose ire europee. Se chiedeva flessibilità rischiava di sputtanarsi a priori, se la otteneva la doveva usare solo per diminuire i debiti. Se osava rimettere in circolo queste risorse aggiuntive, era uno spendaccione. Se le investiva, doveva finalizzarle meglio. Se ne chiedeva ancora, rischiava la procedura d’infrazione.

Una cosa è certa: Renzi in sede europea aveva conquistato per sé e per il nostro Paese una certa credibilità ed una notevole attenzione. Oggi, senza sottovalutare l’abilità diplomatica di Gentiloni, la competenza tecnica di Padoan, la pelosa moral suasion del Commissario Moscovici, questo piccolo patrimonio di considerazione e stima si sta assottigliando. Qualcuno scriteriatamente ci gode, qualcuno cerca motivazioni diverse, qualcun altro ritiene che tutto il mal non venga per nuocere.

So benissimo che alcuni mi definiranno tout court un renziano. Un tempo, nemmeno troppo lontano, quando non si sapeva come controbattere a certe argomentazioni piuttosto obiettive, si finiva col definire l’interlocutore come fascista (poi arrivò la volta del cartellino rosso: comunista) e tutto quindi doveva finire lì.

Oggi…cambiano le mode, ma i pregiudizi restano…

 

P.S. Ai lettori interessati ad approfondire la tematica europeista mi permetto di consigliare la consultazione dello studio “Indagine sulla Brexit e il rischio sfascio dell’Europa – È POPULISMO? – Agli europeisti l’ardua sentenza” contenuto nella sezione libri di questo sito.

 

 

Una antica ricetta contro il bullismo

E se tornassimo alle vecchie maniere? Me lo sono chiesto di fronte alle discussioni sul bullismo, che ha trovato addirittura la sua versione informatica, il cyberbullismo. Il progresso è inarrestabile!

Un tredicenne viene riempito di botte da suoi coetanei: “gli fanno l’uomo addosso”, storia vecchia. Suo padre butta la questione in pasto a internet e gli psicologi si scatenano sull’opportunità o meno di postare sui social il volto tumefatto di quel ragazzo. Gli psicologi sono belli come il sole: non si preoccupano delle tumefazioni al volto conseguenza di un prepotente, delinquenziale e gratuito pestaggio, ma di tutelare il volto tumefatto della vittima. Da cosa non ho capito. Meno tutelato di così! Senza motivo viene picchiato a sangue e gli psicologi dissertano se sia o meno il caso di sbattere in faccia al mondo questa triste realtà del bullismo. Bene ha fatto questo padre a tentare di arrivare al punto usando le immagini, dal momento che viviamo nella società delle immagini. Io forse sarei andato per le spicce e avrei affrontato direttamente i genitori di quei bulli facilmente individuabili e raggiungibili per metterli con una certa energia di fronte alla triste realtà.

I carabinieri scoprono i cinque componenti del branco, i responsabili dell’aggressione: sono ragazzi che hanno meno di quattordici anni, non sono imputabili e saranno ascoltati dagli investigatori in presenza dei loro genitori. Un tempo mi risulta che i carabinieri portassero in caserma i protagonisti di queste che un tempo si chiamavano ragazzate e impartissero loro una memorabile lezione a suon di botte per poi rilasciarli e mandarli a casa, laddove il padre completava l’opera con un’altra mano di…bianco.

Detesto la violenza, ma forse quattro scapaccioni, anche cinque, ben dati non farebbero male. Mi auguro che i genitori di questi delinquentelli si assumano le proprie responsabilità e non comincino a scaricarle sulla scuola che non istruisce a dovere, sulla società che non offre momenti di sana aggregazione, sulla parrocchia che non accoglie più i ragazzi e gli adolescenti, sui quartieri che non offrono impianti sportivi, sulla televisione che istiga alla violenza, su internet che distrae dallo studio, sulla politica che non sostiene le famiglie, sui media che snocciolano cattivi esempi.

La digestione si fa in bocca e l’educazione si dà in famiglia. A un caro amico un poco in sofferenza nei rapporti con i figli, lo psicologo di turno disse: «I figli giudicano i genitori da due comportamenti molto precisi: da come si rapportano con il coniuge e da come affrontano il lavoro”. I ragazzi imparano da quel che vedono in famiglia, non tanto da quel che ascoltano.

E quando la pianticella prende una brutta piega bisogna avere il coraggio di drizzarla fin che si è in tempo. Non so cosa faranno i genitori dei bulli, ma se usassero le maniere forti, sarebbero da giustificare, se non addirittura da ammirare. Certo dopo la giusta dose di botte, deve arrivare qualcosa d’altro, perché se il papà, che picchia duro, poi fa il bullo con la moglie, con gli amici, con i colleghi, casca l’asino.

Ammetto che il “mestiere” del genitore sia il più difficile che possa esistere. Non ho esperienze dirette, se non dalla parte di figlio. Mi sembra tuttavia che il ritorno alle maniere forti si imponga. Cosa voglio dire. Bisogna fare sul serio e quando occorre…

 

Il coraggio di essere europeisti

Non ricordo in quale cultura si prevede, nel giorno del compleanno, di festeggiare i genitori e non il diretto interessato. A pensarci bene è un discorso razionalmente giusto ed eticamente opportuno. In fin dei conti, se io compio sessant’anni di vita, il merito e la riconoscenza principali vanno umanamente a chi mi ha messo al mondo, cioè a mia madre ed a mio padre.

Se quindi vogliamo celebrare come si deve il sessantesimo anniversario dei trattati di Roma, abbiamo l’obbligo morale prima che politico di rendere omaggio a chi all’Europa ha creduto, a chi l’ha concepita sul piano ideale e delineata a livello funzionale.

I nomi sono ben noti: riandare a questi personaggi è sicuramente di stimolo, ma ci riporta anche sulle contraddizioni del cammino europeo e sulle miserie culturali e politiche del nostro tempo.

La strada percorsa dall’Europa non è in discesa e non corrisponde al tracciato delineato dai pionieri, né al viaggio ipotizzato dai padri fondatori, ma è lastricata di compromessi tra due visioni, che a volte hanno funzionato a volte hanno solo frenato.

Da un lato vi è l’europeismo internazionalista per il quale l’Europa è una unione (confederazione) di stati sovrani, che non dà luogo alla formazione di una nuova entità statuale. I trattati di diritto internazionale sono lo strumento principale attraverso il quale si realizza questa tendenza. Dall’altro lato vi è invece l’europeismo federalista, per il quale l’obiettivo è la costituzione di uno Stato federale dove la sovranità sia ripartita su diversi livelli di governo (locale, regionale, nazionale, sopranazionale). Queste due anime sono presenti fin dalle origini del processo di integrazione, le cui alterne vicende si spiegano a seconda del prevalere relativo dell’una oppure dell’altra. Accanto a queste due tendenze principali, gli studiosi dell’europeismo ne collocano in genere anche una terza, che si usa designare come la via “funzionalista” all’integrazione europea. Più che una terza tendenza, è possibile considerare il funzionalismo come la risultante del compromesso di volta in volta realizzato tra le due tendenze precedenti. È la via originale che il processo di integrazione ha imboccato nell’ultimo mezzo secolo e che non è però spiegabile se non come il risultato da un lato della tendenza degli Stati a conservare intatta (almeno formalmente) la loro sovranità e, dall’altro lato, dell’esigenza di superamento di tale sovranità. In questo senso, la via funzionale è risultata storicamente vincente in quanto punta a sottrarre gradualmente, in modo il più possibile indolore, quote di sovranità agli Stati, lasciando che questi assumano il ruolo di protagonisti del processo della loro stessa autolimitazione. La storia del processo di integrazione europea risulta così essere la storia delle ripetute sconfitte, di volta in volta, sia dell’europeismo internazionalista sia dell’europeismo federalista e delle vittorie della terza via dell’europeismo funzionalista, terza via che però non potrebbe realizzarsi senza la presenza delle altre due, come ebbe a riconoscere lo stesso Jean Monnet, il maggiore sostenitore di questa linea che a ragione viene considerato uno dei principali ispiratori del processo di unificazione europea.

Bisogna aspettare il 1957 con la firma dei trattati di Roma istitutivi della CEE (Comunità economica europea) e dell’EURATOM (Comunità europea per l’energia atomica) per l’avvio deciso della terza via “funzionalista”. La CEE vede di molto attenuati gli elementi di sopranazionalità, il potere decisionale è fortemente spostato a favore del consiglio dei ministri dove il voto all’unanimità assegna praticamente ad ogni Stato membro un potere di veto. Nonostante questo limite, la CEE raggiunge l’obiettivo di eliminare gradualmente al proprio interno i vincoli alla circolazione di beni, persone e capitali e di realizzare quindi un’unione doganale. La creazione di un grande mercato all’interno del quale cresce enormemente l’interscambio tra i diversi paesi è senz’altro una delle cause dello straordinario sviluppo economico che l’Europa sperimenta.

La sociologa Saskia Sassen sostiene tuttavia che “il peccato originale è proprio stato l’approccio “funzionalista”, quel procedere per settori, perché magari all’epoca serviva semplicemente uno spazio operativo per fare business. La logica estrattiva ha portato il sistema a un punto di rottura, per cui ora l’UE appare a molti come disfunzionale, ingiusta e tutto questo favorisce l’ascesa degli estremismi di destra. L’ossessione per l’austerity ha prodotto nuovi emarginati e molti arrabbiati”.

Emmanuel Macron, candidato all’Eliseo, convinto europeista moderno, ammette che “il Mercato unico è stato deviato nel suo utilizzo, è nato come uno spazio di libertà, ma anche di regole e solidarietà che, invece, non ci sono state. Questo squilibrio, rifiutato dai popoli. è stato spinto da alcuni stati ultra-liberisti, come la Gran Bretagna”. Gli ultra liberisti, dopo aver fatto il danno, ci lasciano la beffa di dover armonizzare fiscalmente e socialmente la UE.

Anche Eugenio Scalafari, da convinto federalista, ammette che “a distanza di sessanta anni dai Trattati di Roma siamo ancora in una struttura confederale e il nazionalismo è notevolmente aumentato. Un Continente come il nostro, dove ancora signoreggiano le singole ventisette nazioni confederate, ciascuna delle quali ha una sua politica estera, le proprie forze armate, la propria politica nei confronti dell’immigrazione – e addirittura in alcuni Paesi sono stati costruiti impedimenti anche fisici ai propri confini, come muri o fili spinati per contenere e alla fine impedire il flusso immigratorio – è molto lontano dall’aver realizzato il programma dei Trattati del 1957”.

C’è stato anche l’allargamento paralizzante. Ancora Macron annota come “alcune riforme non siano state fatte per non contrariare Britannici e Polacchi. Abbiamo visto il ringraziamento: i primi se ne sono andati, gli altri non rispettano i valori dell’Unione”.

Torniamo ai giorni nostri: al dibattito fra internazionalisti, federalisti e funzionalisti si è sostituito quello fra antieuropeisti, euroscettici e possibilisti: rischiamo di cancellare sessant’anni di storia, lasciandoci incartare dalle sirene populiste, sovraniste, nazionaliste e protezioniste.

Qualcuno se ne è già andato, qualcun altro ci sta seriamente (?) pensando, altri si comportano più o meno come se la UE non esistesse, chi intende rimanere sta ipotizzando un “Europa ad obiettivi”, intorno ai quali creare condivisione di programmi e strutture comuni, un Europa a macchia di leopardo per la quale si fa molta fatica a trovare il tessuto connettivo e il filo conduttore.

Il documento che dovrebbe rilanciare l’Europa, il nuovo Trattato di Roma, sembra essere un capolavoro diplomatico e lessicale, ben lontano dalle premesse “funzionaliste” e dalle speranze federaliste del 1957 e vicino ad una nuova impostazione (la quarta), che definirei “pendolarista” tra nord e sud, tra est e ovest, tra economia e socialità, tra sicurezza interna e apertura all’esterno.

In un’occasione come quella del sessantennio europeo bisognerebbe essere seri e parlare di cose serie, ma bisogna pur fare i conti con l’oste e le osterie. Per rimanere nella cucina politica italiana (non tanto diversa da quelle degli altri Paesi europei), stando ai sondaggi, abbiamo oltre il 50% di elettorato che segue forze politiche che sostanzialmente non credono all’Europa: il M5S si colloca fra gli euroscettici e dice di voler provare la pressione europeista direttamente ai cittadini (un modo subdolo per non assumersi le proprie responsabilità e per sfruttare a livello referendario l’onda populista che abbiamo già visto dove porti); Lega e FdI si schierano con gli antieuropei ormai presenti in tutti i Paesi, dietro il dito della comoda scusa di combattere pregiudizialmente burocrazia e tecnocrazia; come sostiene Macron, una parte della sinistra si radicalizza e una parte si avvicina ai liberali, davanti a una destra conservatrice che si dissolve o si lascia condizionare dagli estremisti.

In questo quadro piuttosto sfilacciato e confuso l’europeismo viene più balbettato che sbandierato. La contrapposizione tra sinistra e destra viene coniugata soprattutto nello scontro tra europeismo   e antieuropeismo, tra europeismo aperto ed europeismo chiuso.

A livello continentale siamo in bilico in attesa delle elezioni in Francia e Germania. Dall’esterno si fa il tifo per l’antieuropeismo. Nelle istituzioni europee prevalgono tatticismi e ostruzionismi. Personaggi in grado di rilanciare alla grande il discorso dell’unità europea sinceramente se ne vedono pochi.

“Serve uno scatto di coraggio”, dice Sergio Mattarella. Sì, servirebbe proprio questo, ma come dice don Abbondio nei Promessi sposi, “il coraggio uno non se lo può dare”. Sarebbe ora invece che gli europeisti se lo dessero. Altrimenti…

 

 

 

 

P.S. Ai lettori interessati ad approfondire la tematica europeista mi permetto di consigliare la consultazione dello studio “Indagine sulla Brexit e il rischio sfascio dell’Europa – È POPULISMO? – Agli europeisti l’ardua sentenza” contenuto nella sezione libri di questo sito.

Sparla Dijsselbloem, entusiasma Mattarella

A certi livelli le dichiarazioni difficilmente vengono rilasciate a caso, hanno sempre un loro senso, anche quando sembrano veri e propri lapsus più o meno freudiani. È il caso piuttosto clamoroso di Jeroen Dijsselbloem, ministro olandese e presidente dell’Eurogruppo, che con una certa arroganza ha detto: «I Paesi del Sud Europa spendono tutti i soldi per alcol e donne e poi chiedono aiuto». Queste parole hanno fatto rapidamente il giro d’Europa suscitando reazioni diversificate, piuttosto incazzate da parte dei Paesi chiamati in causa, Italia in primis, che ne hanno chiesto le immediate dimissioni. Il partito socialista europeo, a cui l’olandese aderisce, gli ha chiesto di lasciare. Juncker, capo della Commisione, ha fatto una sviolinata, non si sa quanto sincera, ai paesi del Sud. Lo hanno difeso i tedeschi con il loro acido ministro Schaeuble: gli olandesi a livello UE, indipendentemente dai partiti di appartenenza, ne sono i fedeli ventriloqui. Anche il governo francese non ha espresso critiche e si dice che sia pronto a difendere il presidente dell’Eurogruppo. Gli altri Paesi membri sono in ben altre faccende affaccendati. Per tutti è partito il politicante e nazionalista toto successore.

Non mi ha stupito Dijsselbloem: ha voluto molto probabilmente stare clamorosamente dalla parte del manico. Dal momento che la battuta, a mio avviso, è rivolta soprattutto all’Italia, penso che con Renzi presidente del consiglio non se la sarebbe permessa, ma con Gentiloni…Forse ha voluto riprendersi la scena, dopo aver perso la faccia alle ultime elezioni del suo Paese con la pesantissima sconfitta dei laburisti, anche se lui è un socialista che ama fare il verso ai popolari. Forse ha voluto fare un piacere alla Germania che in questo momento pre-elettorale non può permettersi il lusso di polemizzare apertamente con i   partner meridionali di cui potrebbe avere presto anche bisogno. Forse ha voluto pavoneggiarsi quale miglior fico del bigoncio europeo, un bigoncio che, per la verità, fa acqua da tutte le parti. Forse ha voluto sporcare l’immagine dell’Italia che sta ospitando il summit del sessantesimo anniversario e sul quale si sta spendendo con grande autorevolezza e convinzione il Presidente Sergio Mattarella. Forse avrà voluto togliersi qualche sassolino accumulato nelle scarpe o sputare qualche rospo ingoiato a livello della Commissione, che regolarmente attutisce i colpi dell’Eurogruppo sui Paesi più deboli. Forse avrà voluto lanciare qualche avvertimento a chi eccede nel fare il furbo con i conti (Renzi compreso). Forse sarà, come ha detto Prodi, invidioso.

Fatto sta che probabilmente ha spifferato quanto i Paesi nordici pensano di quelli meridionali: un dualismo storico. Stupisce la Francia che fa il pesce in barile, ma è storia vecchia e tuttavia ci disturba non poco. Che dire? Speriamo in Shultz e Macron.

Per ora mi accontento di quanto afferma solennemente Sergio Mattarella in seduta solenne alla Camera: «L’Europa spesso appare ripiegata su se stessa e incerta sulla strada da seguire, ma non c’è alternativa alla casa comune, nessun paese da solo può farcela in un mondo di giganti. (…) Bisogna uscire da una visione tecnica e burocratica dell’Unione che ha finito per creare incomprensione fra i cittadini della comunità».

Mattarella ha chiesto coraggio, solidarietà della ragione e sentimento della giustizia. Si è richiamato ad Alcide De Gasperi. Ha affermato che la soluzione alla crisi dei debiti sovrani e a quella del rallentamento dell’economia non può essere la compressione dei diritti sociali dei Paesi membri e l’occasione di grossolane definizioni di Nord e Sud d’Europa.

Ha finito dicendo: «Abbiamo fatto gli Europei, ora bisogna fare l’Europa».

Grazie Presidente!!!

Il brexiterrorismo

Non appena ho appreso dell’attentato al cuore politico della Gran Bretagna, attacco al Parlamento britannico col preludio del massacro sul ponte di Westminster, mi è venuto spontaneo connettere questo evento terroristico con l’inizio ufficiale del percorso brexit e con la celebrazione dei sessant’anni dal Trattato di Roma, il sessantesimo sostanziale compleanno della UE.

Per approfondimenti sugli aspetti politici, religiosi, sociali e psicologici del terrorismo islamico mi permetto di rimandare il lettore, che abbia interesse e tempo, agli studi sull’argomento contenuti in questo mio sito, soprattutto nella sezione libri.

Vorrei invece affrontare l’argomento con il taglio spontaneo immediatamente suggeritomi dalla concomitanza di certi eventi e dall’aria che si muove intorno ad essi. C’è un drammatico nesso fra questo attentato e la sciagurata decisione inglese (uso l’aggettivo inglese in senso riduttivo, perché la decisione non è della Gran Bretagna, ma dell’Inghilterra, visti al riguardo i dissensi gallesi, scozzesi e irlandesi) di uscire dall’Unione europea?

Il primo pensiero a caldo mi ha portato ad ipotizzare una sorta di tragico e sadico avvertimento della storia al presuntuoso passo anti-storico della brexit. Come se il terrorista o i terroristi protagonisti del fattaccio volessero significare di essere i messaggeri di questo macabro telegramma, intendessero dire di aver preso di mira questo Paese perché è più debole, perché si è isolato, perché sta prendendo posizioni troppo filo-trumpiane, perché sta facendo marcia indietro rispetto al suo storico multiculturalismo, alla sua disponibilità all’accoglienza degli immigrati, perché il vento isolazionista rischia di interrompere il processo di integrazione degli immigrati stessi se non di preludere ad una loro espulsione, perché in Gran Bretagna è aumentata la possibilità che attecchisca il virus della lotta senza quartiere all’infedele ed è cresciuta la probabilità di una sollevazione consistente da parte dei musulmani moderati.

Non so se i terroristi in questo specifico caso siano così raffinati nella loro strategia e così abili nella loro tattica, ma qualcosa sotto ci deve essere, quasi un subconscio storico che li ha indirizzati verso Londra in questo particolare momento ed in vista di un certo futuro.

La reazione inglese all’attentato, pur contenuta nei modi, ha subito mostrato di aver accusato il colpo politico. Tutti hanno affermato che trattasi di un attacco simbolico al cuore del sistema parlamentare e politico occidentale, nessuno ha osato dire che possa essere direttamente o indirettamente anche un portato di brexit. Per come è scaduto lo scontro politico in Italia, se trasferissimo virtualmente in Gran Bretagna il modo italiano di fare politica, l’opposizione laburista strumentalmente, riscattandosi da precedenti tiepidezze europeiste, darebbe tout court le colpe dei morti alla brexit chiedendo un dietrofront immediato, mentre gli antieuropeisti, cavalcando la paura, troverebbero il modo di chiedere una ulteriore, auspicabile e veloce concretizzazione della brexit stessa.

Gli Inglesi preferiranno, come fanno di solito, far finta di niente e proseguire imperterriti sulla loro strada, sdrammatizzando e nascondendosi dietro il loro tradizionale senso di superiorità. Basti dire che la Scozia ha rinviato sine die il ventilato referendum indipendentista. Tutte dimostrazioni di senso dello Stato, ma anche di smisurata e incrollabile supponenza in merito alla bontà dei loro riferimenti storici e politici.

Anche i commentatori si sono tenuti lontani dal taglio spietato da me adottato: forse sto esagerando o forse sto dicendo quella triste verità che nessuno ha il coraggio di dire per carità di mondo. Solo Ellekappa, nella sua vignetta su la Repubblica, sfiora il discorso. «Ci sono sentimenti che nessuna brexit può cancellare» dice uno. E l’altro risponde: «L’Europa è saldamente unita almeno nella paura».

 

Fanno la festa all’Europa

Sta per essere celebrato l’anniversario dei 60 anni dei Trattati di Roma con un vertice dei ventisette membri UE, che a Roma dovrebbero solennemente firmare una dichiarazione sul futuro dell’Europa. Mentre si festeggia questo compleanno incombe la faticosa uscita della Gran Bretagna, la brexit sta per prendere corpo diplomatico, aprendo una lunga trattativa dalle conseguenze ancora tutte da scoprire. Come se in una famiglia si festeggiasse l’anniversario di matrimonio mentre un figlio sta preparando le valigie per scappare da casa.

Ma non è finita. Mentre si cerca di quadrare il cerchio trovando un’intesa per rilanciare i patti integrativi fra gli Stati membri, nel tavolo accanto si discute accanitamente se in futuro si dovrà andare avanti insieme, seppure con tanta fatica, o se non sia meglio, partendo da una stazione comune già raggiunta (Confederazione), salire su due treni parallelamente separati e viaggianti a due velocità, su cui saliranno, a seconda della convinzione a raggiungere speditamente la meta (Federazione), i 27 (forse troppi) componenti della strana famiglia europea. Da una parte si stipulano ulteriori patti per rimanere uniti, dall’altra si pensa già a dividersi pur senza dirsi addio, sperando poi di ritrovarsi un giorno a chiudere il cerchio.

Ma non è ancora finita. Sul figlio che sta per intraprendere la via di fuga (Gran Bretagna) si scatena un attacco terroristico, simbolicamente assai preciso e piuttosto cruento, a significare che su di esso incombe più che mai la minaccia di trovarsi solo a combattere contro il terrorismo. Ma ormai è tardi e bisogna scappare dall’UE, qualcuno in Gran Bretagna ha seri dubbi (i Lord), qualcuno vuol rimanere a costo di dividersi dalla famiglia di origine (Scozia, Galles, Irlanda del Nord), ma la mamma (Theresa May) non ne vuol sapere: tutti uniti, fuori dalla UE. Chi si contenta gode.

E non è ancora finita. In mezzo alle minacce di recrudescenti attacchi terroristici, in mezzo alle risorgenti smanie di potenza americane, russe, e cinesi, in mezzo ai contrasti sul futuro, in vista di test elettorali molto incerti e condizionanti la vita futura della UE, c’è chi fa il tifo contro, ci sono i nemici interni, quelli che vorrebbero distruggere la UE o quanto meno ridurla ai minimi insignificanti termini. La torta di compleanno, invece di mangiarla, qualcuno la vorrebbe scagliare in faccia ai famigliari per poi scappare dalla porta di servizio.

E non è ancora finita. Al momento del brindisi augurale, sul più bello della festa (?), si alza un importante componente della famiglia (quello che “tiene dietro alla cassa”), solleva il calice e, anziché fare gli auguri a tutti, rimbrotta alcuni componenti della famiglia definendoli, di brutto, spendaccioni, ubriaconi,   donnaioli, che non mantengono i patti e spillano quattrini a tutto spiano. Qualcuno gli fa presente che se ha voglia di fare il disfattista sarebbe meglio si facesse da parte, qualcuno gli dà addirittura ragione, lui, dopo lo strano cin-cin, si risiede a tavola come se niente fosse.

Avete mai visto una famiglia simile? Così schizofrenica? Io sì, si chiama UE. Il brutto è che si tratta della mia famiglia e non ne vedo una migliore.

 

 

La botte Rai dà il vino che ha

Monsignor Riboldi, vescovo di Acerra, durante un convegno affermò di preferire la pornografia pura a certi spettacoli televisivi ammantati di perbenismo. Vorrei applicare questa sua affermazione alla deriva Rai: preferisco lo show smaccatamente sessista alle subliminali, continue e gossipare menate di programmi vuoti come calze, ma formalmente inattaccabili.

Cosa voglio dire? Che da un programma che si presenta per quello che è posso difendermi a ragion veduta, mentre verso i programmi perbenisti, ma sostanzialmente negativi, che giorno dopo giorno immettono falsa cultura non c’è difesa.

Che Paola Perego, dopo aver fatto traboccare il vaso col suo “parliamone sabato”, vada finalmente a quel paese, non mi dispiace affatto, ma la cultura uscente dal festival di San Remo pensiamo sia meglio?

Troppi soldi, troppa audience, troppa pubblicità, troppa futilità, troppe sciocchezze, troppe chiacchiere. La televisione sarebbe una cosa seria. Quella pubblica lo dovrebbe essere due volte. Invece…

È perfettamente inutile scandalizzarsi delle punte dell’iceberg. Nella televisione tutto fa spettacolo meno lo spettacolo. Le star sono i conduttori, non gli attori o i cantanti. Lo sport in televisione lo fanno i giornalisti sportivi e non gli atleti. Un’inversione totale di ruoli che copre il vuoto di proposta.

Ben vengano i programmi clamorosamente stupidi, chissà che non servano a toccare il fondo da cui risalire. Da una presidente come Monica Maggioni non mi aspetto niente: era penosa da giornalista, assurda da direttrice di Rai news 24, immaginiamoci ora che siede sul trono. Deludentissimo anche il direttore generale Antonio Campo Dall’Orto: molto fumo e poco arrosto. Ho l’impressione che sotto la crosta Rai si celino tali e tante porcherie da compromettere sul nascere ogni buona intenzione riformatrice.

Non mi illudo più. Faccio una semplice cosa: cerco disperatamente di scegliere quel poco di buono che c’è su certe reti. Mi riferisco soprattutto a rai cultura e rai storia, ma non solo. Imparare a scegliere, perché se uno spettatore piuttosto sprovveduto si lascia prendere dallo zapping o si ferma dove capita, è letteralmente fregato.

Quasi quasi sono grato ai protagonisti dello svarione sessista che sta facendo parlare. Forse costringerà gli utenti Rai ad aprire gli occhi. Speriamo.

Mio padre sosteneva: «Mi al vén al port. E po’ bisogna ésor bón ‘d bévor». Intendeva vantare la capacità di scegliere la giusta quantità, ma anche la migliore qualità. Se sul primo punto ho sempre avevo qualche perplessità, sul secondo non avevo dubbi. Mi capitò di assistere ad una scena clamorosa al riguardo. Durante l’intervallo di una partita di calcio andammo insieme a bere presso la precaria mescita che veniva aperta nel dietro della “tribunetta” dei distinti, gestita da un amico. Mio padre si fece servire un bicchiere di vino bianco. Ne bevve un sorso e lo sputò clamorosamente dicendo: «Mo cò met dä?». Io ebbi il timore che si potesse scatenare uno spiacevole alterco. Invece, senza fare una piega, il barista chiese delicatamente: «Mora, net piäzol miga col vén chi, ‘spéta…at nin dag un bicér ‘d n’ätor…». Mio padre lo assaggiò e disse: «Cost al ne va miga mäl» e lo bevve tranquillamente. Tornando sugli spalti gli chiesi: «Papà era veramente così balordo?». Mi rispose: «L’era balórd cme l’alsía e mi dal vén balórd nin voj miga, an bév miga tant par bévor …».

Se lo spettatore Rai fosse capace di sputare i programmi spazzatura e anche qualche altra trasmissione che se la pretende, qualcosa forse cambierebbe. In fin dei conti il pallino ce l’ha in mano lui e non Campo Dall’Orto. Proviamo a far sì che il servizio pubblico radiotelevisivo parta dal pubblico e non dalla politica, tanto meno dagli addetti ai lavori.

Il resto, la lottizzazione dei partiti, lo spadroneggiamento degli agenti, la schiera di inutili dirigenti, gli stipendi da nababbo, i cachet milionari, i raccomandati di ferro, gli sprechi di risorse, i doppioni e le ripetizioni a livello giornalistico, mi sembrano roba intoccabile. Vedo un peggioramento progressivo. Che peccato! Bisogna solo cercare di difendersi…

Contro le mafie due “sbirri” di razza

Parma: una tiepida serata di fine settembre 2014 che sembrava spingere i parmigiani a raccogliere penosamente gli avanzi della finta spensieratezza estiva; la quasi totale e vergognosa indifferenza dei media, preoccupati solo di non disturbare il manovratore; un centro storico pieno di rumore e di ansia giovanile volta alla distrazione del sabato sera; la sparuta presenza del clero parmense: non riusciva a darsi il coraggio che non ha (avevo contato ben due sacerdoti, avevo notato l’assenza del vescovo: non c’era che dire, un perfetto inizio di anno pastorale). In questo quasi ostile contesto si presentava nella nostra città don Luigi Ciotti a riprendere, dopo tanto tempo, gli incontri culturali nella chiesa di Santa Cristina: il parroco Luciano Scaccaglia lo accoglieva con l’orgoglio di aver ospitare in passato tanti personaggi dalla cultura scomoda e provocatoria e di offrire alla città e alla comunità cristiana una rara occasione di destarsi dal torpore. Ho avuto in quell’occasione la possibilità di incontrare brevemente don Ciotti: mi salutò, senza conoscermi, come un vecchio amico. Gli espressi tutta la mia ammirazione e la mia solidarietà, ma non potei esimermi dal chiedergli scusa per la sordina con cui Parma lo accoglieva. Mi tranquillizzò dicendomi: «Questo fatto non mi sorprende e non mi preoccupa…». «Lo so, infatti sono io ad essere preoccupato di vivere in questa indifferente città…» gli risposi, ma lui si tuffò nei suoi appunti. Lo vidi stanco e piuttosto provato, probabilmente stava ricaricando le pile. Santa Cristina, nonostante il subdolo boicottaggio, era piena come un uovo: temevo di peggio.

Per scrivere su don Luigi Ciotti e della sua azione contro le mafie ho voluto prendere la rincorsa, partendo da quel settembre ormai lontano per arrivare ai nostri giorni. L’ndrangheta è ancora lì, più bella e più influente che pria. Ma qualcosa si muove, come hanno dimostrato le recenti manifestazioni nella Locride, alla presenza di due “sbirri” di razza: Sergio Mattarella e don Luigi Ciotti.

Non ho conoscenza diretta dell’ambiente calabrese, me ne parlò mia sorella dopo avervi fatto una breve ma significativa immersione in occasione della visita ad una famiglia di amici residenti nella zona calda a livello di ‘ndrangheta. Era rimasta impressionata dalla disinvoltura   con cui sentiva parlare del fenomeno a loro fisicamente così vicino, dalla conoscenza precisa che dimostravano di avere su fatti e persone coinvolte, ma soprattutto dalla fatalistica e quasi ammirata contemplazione del “bene” (sic) che questi “personaggi” facevano alla gente.

Credo che il punto dolente da smantellare sia proprio questa assurda e paradossale capacità di convivenza, in un certo senso positiva, tra le persone comuni e la insinuata e radicata struttura mafiosa. Una sorta di choccante pre-omertà diffusa.

Mia sorella mi raccontava come questi amici, peraltro bravissime persone per nulla coinvolte in faccende ed in rapporti poco puliti, le facessero da “ciceroni” nell’indicarle i santuari della criminalità organizzata e come le avessero tessuto gli elogi per le iniziative “benefiche” portate avanti: posti di lavoro, alloggi, protezioni, difese, etc. etc.

Per i Calabresi, mi riferisco a quarant’anni fa, l’ndrangheta era l’istituzione di riferimento, non subita quale corpo estraneo e opprimente, ma come opportunità da sfruttare.

Da quanto leggo la situazione è cambiata, ma non troppo. Chi combatte apertamente l’ndrangheta è visto come un fastidioso “sbirro” da sbeffeggiare sui muri della città: la mafia è la struttura, l’antimafia la sovrastruttura.

È importante tuttavia che, a livello istituzionale, lo Stato, nella persona credibile del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e la Chiesa, schierata con il suo capo-fila don Luigi Ciotti, fortunatamente ben collegato al papato di Francesco ed in sintonia con i nuovi indirizzi episcopali, si facciano prossimi alle genti calabresi ed ai loro drammi.

È l’unica, paziente e coerente battaglia che riesca a togliere la terra sotto i piedi al potere mafioso. Le perfide reazioni “blasfeme” degli imbrattamenti murali lo stanno a dimostrare. Irridono, ma soffrono. È un buon segno. Don Ciotti è l’interprete autentico di questa coraggiosa e fattiva riscossa esistenziale e culturale. Qualcuno dice che parla poco di Dio, in compenso lo testimonia molto rischiando la propria vita. Che Dio lo benedica!

 

Fra Travaglio e Ichino ci metto il ditino

Si è fatto un gran parlare e scrivere del voto espresso dai senatori contro la decadenza dalla carica del loro collega Augusto Minzolini condannato in via definitiva a due anni e sei mesi per peculato, reato commesso quando era dipendente Rai.

La vicenda può essere affrontata da diversi punti di vista. Escludo a priori l’aspetto prettamente legale, quello cioè se l’intervento del Senato, in base alla legge Severino, sia da considerare una mera presa d’atto della fattispecie concreta comportante l’automatica decadenza o se comporti una valutazione del caso, non per ritoccare o riformare la sentenza (cosa impossibile per la netta separazione dei poteri), ma per esaminarne gli aspetti influenti sull’ applicazione della decadenza. Il concetto giuridico di decadenza, stando alle mie scarse reminiscenze di carattere giuridico, dovrebbe comportare un automatismo, ma, come dicevo, non voglio entrare in questo merito, lasciandolo agli specialisti.

Stando alle dichiarazioni dei più loquaci e trasparenti senatori PD, che si sono oltretutto smarcati rispetto all’indirizzo del loro gruppo politico,   i componenti del Senato avrebbero soprattutto considerato la contraddittorietà delle diverse fasi processuali a carico di Minzolini, la partecipazione alla sentenza di condanna di un giudice ex-senatore appartenente ad un gruppo politico obiettivamente ostile a quello di Minzolini, la condanna pesante rispetto alle richieste della Pubblica accusa, come elementi tali da comportare il serio e coscienzioso dubbio rispetto all’applicazione della decadenza.

Non tocca certo a me rovistare nella coscienza dei senatori, nella loro buona fede, anche perché tra di essi, mi riferisco a quelli del PD, non ci sono certo amici sviscerati o subdoli di Minzolini e della sua parte politica, né personaggi inclini a manovre di palazzo, che qualcuno si è affrettato a vedere, né appartenenti a quella casta impenetrabile tendente a compattarsi ed autoassolversi, al cui generico assalto si sta dedicando il populismo in tutto il mondo.

Da quello che ho potuto intuire, se mi fossi trovato al loro posto, sul piano personale mi sarei comportato probabilmente come loro: non me la sarei sentita di buttare fuori dal Senato un collega eletto dal popolo, sulla base di un procedimento giudiziario alquanto strano e tutt’altro che lineare. È pur vero che la legge (la Severino) vuole difendere le istituzioni dalla presenza di persone che ne possano minare la credibilità e l’autorevolezza, essendo stati condannati per reati confliggenti clamorosamente con il profilo costituzionale di chi ricopre cariche pubbliche, ma bisogna sempre essere cauti e sereni nello squalificare o meno una persona comunque si chiami ed a qualsiasi partito appartenga.

Sgombrato il campo dai risvolti personali del voto, resta l’aspetto politico: è stato politicamente opportuno lasciare libertà di voto ai senatori dem? A parte il fatto che tale libertà non è gentilmente concessa dal gruppo di appartenenza, ma dalla Costituzione italiana, resta il discorso dell’indicazione politica che un gruppo ha il diritto/dovere di dare ai suoi aderenti. Sulla questione concordo pienamente con il ragionamento del ministro Del Rio: «Il Paese ha bisogno di chiarezza, non devono esistere privilegiati di fronte alla legge. I nostri senatori votano come credono, ma non avrei lasciato la libertà di coscienza. Il caso Minzolini va oltre il merito: abbiamo dato un messaggio sbagliato. La legge Severino ha un principio giusto: chi governa ha il dovere di essere più trasparente di chi è governato». Su questo piano le controdeduzioni dei senatori dissenzienti dalla linea del gruppo PD (oltretutto in commissione i componenti del PD avevano votato per la decadenza) appaiono rispettabili, ma piuttosto deboli: in buona sostanza hanno prevalso le motivazioni squisitamente personali rispetto al significato politico del voto.

C’era sul tavolo senatoriale anche il precedente relativo al senatore Antonio Azzollini risalente al 2015. Su di lui il Senato respinse a suo tempo la domanda di arresto formulata dal Gip, poi annullata dal giudice del Riesame su richiesta degli stessi pm. Sul punto si è scatenata una ulteriore polemica fra Pietro Ichino e il noto giornalista Marco Travaglio. Il primo, uno dei senatori dem contrari alla decadenza di Minzolini, ha enfatizzato l’importante precedente creando un po’ di confusione sulle vicende processuali di Azzollini e chiedendo a Travaglio di chiedere scusa per aver criticato il voto della maggioranza in Senato che nel 2015 negò l’arresto del senatore Azzollini. Naturalmente e prontamente Travaglio, col suo solito piglio saccente e giustizialista, non ha mancato di precisare che Antonio Azzollini rimane a tutt’oggi rinviato a giudizio o rischia il rinvio a giudizio per diversi reati.

Al di là della confusione venutasi a creare e della impossibilità caratteriale di Marco Travaglio ad ammettere un errore e ancor meno a chiedere scusa (quando si è perfetti non si sbaglia mai…e lui si crede perfetto), una cosa è certa: il Senato respinse la domanda di arresto per il suddetto senatore e qualche mese dopo la magistratura competente annullò l’ordinanza di custodia cautelare disposta dal gip e bloccata appunto dal Senato. Evidentemente erano più che fondate le perplessità in merito al fumus persecutionis, se successivamente il provvedimento è stato annullato.

Il dibattito deve essere quindi ripulito: smettiamola di “giustizializzare” la politica, (la critica pur spietata è ben altra cosa); non accetto il discredito generalizzato dei parlamentari e non credo che essi vogliano comunque assolvere o condannare i propri colleghi invadendo il campo della magistratura; dovrebbero in coscienza solo garantire gli stessi colleghi da eventuali abusi o forzature d’autorità. E nel caso suddetto (quello di Azzollini) è successo proprio così come   è avvenuto per il senatore Minzolini (la questione è diversa, ma con accentuati profili di similitudine): il Senato non li ha giudicati innocenti, ma, nutrendo qualche dubbio sulle procedure giudiziarie cui sono stati sottoposti, ne ha respinto l’arresto in   un caso e ne ha messo in discussione la decadenza nell’altro.

Altro è il discorso del trattamento diversificato riservato ai membri del Paralmento rispetto agli altri normali cittadini. È pur vero però che un parlamentare svolge un ruolo particolare e la legge gli concede alcune tutele per un più libero espletamento del suo mandato. Un tempo esisteva una vera e propria immunità. Oggi le garanzie sono assai più limitate.

Altro il discorso di rivedere e migliorare la legge Severino, chiarendone magari meglio l’ambito applicativo e dando il compito di far scattare o meno la decadenza ad un organo terzo rispetto alle aule parlamentari.

Altro discorso ancora è quello dell’opportunità politica di ricorrere con troppa frequenza al voto di coscienza. Non dovrebbe diventare una comoda scappatoia all’assunzione delle proprie responsabilità: questo però è un problema dei partiti da affrontare anche alla luce della loro già scarsa credibilità.