Quando cavillare sui voti serve a poco…

Il caso ha voluto che i risultati della fase interna del congresso PD siano stati diramati proprio nel giorno in cui l’attenzione mediatica è puntata sui problemi della sicurezza alla luce di una rapina a mano armata finita nel sangue della vittima, un barista di Budrio, un paese che oltre tutto aveva cercato di impostare una seria e ragionata azione preventiva di lotta alla criminalità.

Mi è venuto spontaneo accostare le due scene: da una parte un partito che termina una fase della sua vita democratica con assurde polemiche, dall’altra una società che, al di là delle solite vomitevoli strumentalizzazioni della destra, comunque la si voglia chiamare (estrema, radicale, populista, sovranista, ribellista, protestataria, qualunquista, anti-politicista etc.), si interroga sui fenomeni delinquenziali sempre più spietatamente e prepotentemente aggressivi.

Partiamo dal PD, che anziché evidenziare una notevole e significativa partecipazione dei suoi iscritti ad una battaglia democratica, si perde nelle polemiche interne sui dati considerati non convincenti dai due candidati perdenti, i quali diffondono risultati con percentuali leggermente diverse. Si badi bene le differenze sono risibili o quanto meno assai poco incidenti: Renzi 68%, Orlando 25%, Emiliano 6%, i dati comunicati dalla direzione del partito; Renzi 62%, Orlando 30%, Emiliano 8% quelli diffusi dagli sfidanti. Quelli ufficiali sarebbero numeri da propaganda secondo un autorevole sostenitore di Emiliano, il quale mi dovrebbe spiegare cosa si nasconderebbe di tanta importanza dietro la differenza tra il 6% e l’8%. Cerchiamo di essere seri: sono elezioni interne che non comportano una rappresentanza a livello parlamentare, ma segnano solo il consenso di un candidato, che nel caso di Emiliano, è comunque molto basso, quasi irrilevante. Ma anche il comitato di Orlando non scherza: Renzi, per arrivare a certi risultati, si è appoggiato sui capibastone (termine di chiara “etimologia” mafiosa, quindi…). Una dimostrazione di democrazia (un congresso è tale fino a prova contraria) viene stupidamente sciupata in polemiche senza senso.

E volete che la gente non abbia pensato: mentre il PD litiga sul conteggio dei voti, la gente viene ammazzata a causa di una dilagante delinquenza!? So benissimo che non è il modo di ragionare, ma solo quello di creare turbamento e sfiducia. Non mi associo al qualunquismo, mancherebbe altro…Ma anche il PD…si dia una regolata: ha trovato un ministro degli Interni, Marco Minniti, che sta lavorando seriamente, faccia quadrato intorno a lui e la smetta con queste schermaglie correntizie assurde, che alla gente non interessano un cazzo. Ma cosa volete che importi ai cittadini italiani se Emiliano ha preso il 6 o l’8 per cento… Caso mai interesserà il suo latente conflitto tra posizione di magistrato in aspettativa e politico di professione. Cosa volete che interessi al popolo italiano se Orlando abbia ottenuto la percentuale del 25 o del 30… Caso mai vorranno capire cosa stia combinando da ministro della giustizia, visto che non riesce a concludere uno straccio di riforma del settore.

Il PD è l’unico partito rimasto in piedi, il resto, a destra, sinistra e centro, è un marasma pseudo-politico: vada avanti per la sua strada, si occupi dei problemi, proponga delle soluzioni ed esca da questa diatriba continua che lo attanaglia, prima i frazionisti, adesso i correntisti, domani i disfattisti, dopo-domani gli anti-renzisti e via di questo passo.

Per tornare al discorso sicurezza, Marco Minniti sta combattendo a livello governativo una difficile battaglia per coniugare, da sinistra, giustizia e sicurezza, solidarietà e garantismo, aperture e regole. Lo aiutino e la smettano di contare i mesi e giorni di governo che ci separano dalle elezioni politiche, di perdersi negli equilibrismi interni, di cavillare sui risultati del congresso, di sferrare colpi bassi. Basta per cortesia! In nome del popolo italiano, soprattutto quello che vorrebbe credere in una forza di sinistra democratica e riformista.

L’infinita favola del “ghe pensi mi”

Pensavo ci fosse da ridere, ma quando ho visto le fotografie e ho letto i resoconti giornalistici del colloquio tra Angela Merkel e Silvio Berlusconi, a latere dei lavori del congresso Ppe di Malta, mi ha preso un senso di grande pena per entrambi gli interlocutori, anche se per opposti motivi.

Dopo essersi in passato ripetutamente sbeffeggiati si ritrovano in un ridicolo, artificioso ed ostentato tête a tête. Sul piano personale sembra che lui abbia negato le battute sessiste, mentre lei credo abbia fatto fatica a negare i sorrisetti ironici scambiati su di lui con Sarkozy (li hanno visti in tutto il mondo e sono stati la pietra tombale sull’esperienza di governo berlusconiana).

Lei avrebbe espresso le preoccupazioni per l’instabilità dovuta alla mina vagante M5S, lui avrebbe millantato di essere la diga   contro il pericolo grillino in quanto capace di tenere unito il centro-destra e di portarlo oltre il 40%: « A Grillo ghe pensi mi».

Lei avrà sicuramente esternato i timori verso il populismo e l’anti-europeismo di Matteo Salvini, lui sembra che abbia rassicurato la cancelliera con il solito inattendibile “a Salvini ghe pensi mi”.

Lei avrà probabilmente accennato all’inquietante ruolo putiniano e trumpiano sullo scacchiere mondiale ed europeo, lui avrà sicuramente ribadito: «A chi du lì, ghe pensi mi». Fra le varie rassicurazioni, tutto sommato, la più attendibile, vista la somiglianza impressionante tra i tre bulli del mondo attuale (diciamo meglio, due bulli e un bulletto). Molto bella la vignetta di Altan: “Trump sta esagerando!”, dice uno. E l’altro: “Diciamogli che se non la pianta gli scateniamo contro il cavalier Banana”.

Lo stesso giorno del “balletto Merkel-Berlusconi”, Lucio Caracciolo, noto esperto e studioso di politica internazionale, chiedeva una forte iniziativa dell’Italia a livello europeo per coprire gli inopinati spazi aperti dalla brexit. Anche a lui Silvio Berlusconi avrebbe risposto: «Ghe pensi mi».

Peccato che a livello istituzionale sia il signor nessuno, più bello e sputtanato che pria (lo dico con un supplemento di pena: lo stesso giorno gli è arrivata l’ennesima tegola dalla procura milanese che lo accusa di corruzione per aver versato quasi 400 mila euro a tre ospiti delle sue serate ad Arcore), inibito a ricoprire cariche pubbliche (la Corte   europea si esprimerà presto al riguardo). Peccato che a livello politico, anche in casa sua, conti come il due di coppe: gli scappano amici e nemici. Ma i soldi sono sempre una grande risorsa…ricordiamocelo.

Se qualcuno avesse avuto il cattivo gusto di rammentargli questi piccoli impedimenti, lui avrebbe sicuramente risposto ai maggiori esponenti popolari europei: «Ghe pensi mi».

Ci avranno creduto? Ho seri dubbi al riguardo. I casi sono due: o la Merkel e i popolari sono talmente disperati da non sapere più a che santo votarsi (detto fra parentesi, io, al posto di Angela Merkel, davanti a quel buzzurro di Trump, che ostentatamente si negava alla stretta di mano, me ne sarei venuto via immediatamente: un gesto fuori galateo, che forse avrebbe smosso qualcosa) oppure fanno finta di ascoltarlo, cosa molto più probabile.

A favore della disperazione batte la recente nomina del forzista Tajani a presidente del Parlamento europeo: se i popolari infatti non hanno saputo o potuto trovare di meglio, dimostrano tutta la loro debolezza e/o il loro disprezzo per la massima istituzione.

Penso che Berlusconi creda veramente alle bugie che dice, almeno più di quanto ci credano i suoi interlocutori. Che pena! E pensare che l’Italia per un ventennio si sia prostrata ai suoi piedi e che non se lo sia ancora tolto dai piedi, è cosa incredibile che fa solo il paio con l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Almeno noi italiani, parlando del tycoon statunitense, potremo dire: «Noi ne sappiamo qualcosa, fatevi coraggio…prima o poi si guarisce». Ma in verità non siamo ancora guariti.

La solita politica e l’insolita Chiesa

La storia è piena di intromissioni clericali ed ecclesiastiche nella politica. Cammin facendo, alla conquista spregiudicata del potere ed all’esercizio diretto, oscuro e   cinico, dello stesso si è sostituita l’influenza esterna ed il perseguimento di privilegi, appoggi e vantaggi.

La ragion di Chiesa, nonostante le profetiche e benefiche aperture di Giovanni XXIII, le sofferte e profonde testimonianze di Paolo VI, il delicato e breve intermezzo di Giovanni Paolo I, gli universali annunci di Giovanni Paolo II, i rigorosi richiami dottrinali di Benedetto XVI (solo per richiamare le vicende vaticane a cui posso fare riferimento diretto), ha portato a sorvolare spesso e volentieri sui diritti umani violati o addirittura calpestati, a non affrontare di petto situazioni di gravi ingiustizie, a non combattere apertamente regimi dittatoriali, autoritari, repressivi, pur di salvaguardare le proprie aree di influenza e, talora, di ottenere un occhio di riguardo per i cristiani, ma soprattutto pur di mantenere le proprie fette di potere.

Pensiamo, da ultimo non ultimo, in Italia ai rapporti tra la Cei del cardinal Camillo Ruini ed il regime berlusconiano: tutto lecito, tutto concesso per il piatto di lenticchie delle agevolazioni fiscali, della scuola cattolica e della difesa di facciata dei cosiddetti principi non discutibili.

Indubbiamente il papato di Francesco ha segnato una svolta – non improvvisata e relativamente seminata anche da altri suoi predecessori e da altri uomini di Chiesa (si pensi per esempio al cardinale Carlo Maria Martini) – contrastata dall’interno, di separazione della Chiesa-istituzione dal potere nel rispetto reciproco degli ambiti di autonomia. Fino ad oggi la Chiesa era spesso finita nel gorgo della centralizzazione dei rapporti col potere, aveva scivolato di brutto, inciuciando con la peggior politica, aveva cercato compromessi col “diavolo”, mentre aveva stoppato i rapporti di base col “sociale”, riproponendo a questo livello quel proibizionismo così facilmente rimosso al vertice: della serie si può trattare con l’oppressore, ma non si può sposare la causa dell’oppresso. Con papa Francesco: Chiesa a porte chiuse verso il potere e in libera uscita verso i poveri. Un bel rovesciamento di prospettive, non c’è che dire.

Ma la politica non si rassegna, ha “bisogno” della Chiesa per strumentalizzarne l’influenza o per contestarne l’operato. Quando essa va in avanti, rischia di essere risucchiata all’indietro o quanto meno di essere tirata per la giacca. Proprio a Bologna, emblematica culla dei rapporti altalenanti tra politica e religione, si sono verificati due fatti, limitati nella loro portata, ma assai significativi.

Andrea Orlando, ministro e candidato alla segreteria del PD, va a colloquio con l’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi, uomo di Chiesa, interprete eccellente della non intromissione politica e della condivisione sociale. «Abbiamo parlato di lotta alla povertà, non di primarie. Si può guardare a Zuppi come a un punto di riferimento. Se non fosse rischioso direi anche politico» ha dichiarato incautamente Orlando dopo l’incontro avvenuto in sede Caritas. Se l’incontro, volendo, poteva anche starci, le dichiarazioni hanno suscitato non poche perplessità, dato il momento politico e il sospetto che il carisma di questo magnifico vescovo possa essere strumentalizzato. Mossa rozzamente azzardata, tatticamente sbagliata, goffamente inopportuna e mediaticamente pericolosa. Oltretutto scorretta nei confronti del vescovo, che si è visto indirettamente trascinato in un terreno che non è il suo. La solita politica che va alla ricerca della insolita Chiesa: se avevo dubbi e perplessità sulle capacità di Andrea Orlando ad assumere la guida del Partito Democratico, sono diventati certezze.

Il Bolognino, una simpatica rubrichetta della pagina bolognese de la Repubblica, ha così chiosato l’evento con un commentino a firma Federico Taddia: «Andrea Orlando, ministro e candidato alla segreteria del Pd, ha incontrato il vescovo Matteo Zuppi: gli ha chiesto se “Beati gli ultimi poiché saranno i primi” vale anche per le primarie».

Se da una parte esiste la tentazione di strumentalizzare il nuovo corso ecclesiale (aveva già maldestramente provato, qualche tempo fa, il sindaco di Roma, Ignazio Marino, prontamente e drasticamente rimbrottato dal Papa stesso), dall’altra emerge la rissosa verve contestatrice mossa, sempre a Bologna, dai centri sociali nei confronti di don Luigi Ciotti, protagonista di un’affollata conferenza-lezione all’Università. Utilizzando in modo vergognosamente strumentale la ormai storica frase “siamo tutti sbirri” pronunciata a Locri da don Ciotti, quale risposta ai rigurgiti di una certa cultura filo-mafiosa che lo aveva definito “sbirro” sui muri della città, il collettivo Hobo, dopo le scaramucce conseguenti alle misure di sicurezza adottate (chiuso l’accesso alla facoltà di Giurisprudenza), ha scritto su facebook: «Altro che “siamo tutti sbirri”, gli sbirri oggi sono gli sgherri del Pd, sono quelli che picchiano gli studenti in biblioteca, sono gli stessi che massacrano il Salento. Fuori dall’università gli sbirri e i loro amici! Da che parte sta don Ciotti lo sappiamo da sempre, ben prima che con il suo “siamo tutti sbirri” mettesse definitivamente la divisa della polizia alla cosiddetta “società civile”. Don Ciotti è da sempre, a Torino, l’uomo dello sfruttamento del sociale, della Fiat e della magistratura, l’amico di Caselli e dei santi inquisitori dei movimenti».

Farneticanti espressioni, piene di assonanze con i comunicati delle Brigate Rosse, echi di una stagione fortunatamente superata, ma conferma di un antagonismo stupido e di cattiva maniera, capace solo di distruggere senza alcuna capacità di costruire. Un altro modo per la politica militante di rispondere scriteriatamente e nostalgicamente all’impegno ecclesiale. Della serie i poveri sono nostri e guai a chi ce li tocca.

Don Ciotti ha replicato in modo piuttosto soft: «Lasciamo stare, io ho pronunciato quella frase davanti ai parenti delle vittime delle forze dell’ordine. Poi lo so anch’io che bisogna distinguere. Da anni questo corso riempie sempre l’aula: vuol dire che ci sono tanti giovani che vogliono conoscere, non vivere di informazioni di seconda mano o per sentito dire».

La Chiesa se si pone nei giusti termini evangelici dà fastidio ai potenti di turno (gerarchie religiose comprese), che tentano magari persino di blandirla, ma pure ai ribelli di comodo che la vivono come ingombrante antagonista; così come Gesù, osteggiato dai primi fino alla morte e beffeggiato dai secondi fino al tradimento.

Il voto a prescindere

I commentatori politici, quando fanno previsioni sui provvedimenti adottabili a livello governativo, tendono ad escludere quelli che comporterebbero sacrifici in vista delle elezioni, perché toglierebbero voti a chi governa e ne darebbero a chi sta all’opposizione.

In tal modo viene adottato uno schema piuttosto banale, che innanzitutto manca di rispetto agli elettori, considerati come banderuole influenzate dall’aria che tira o, peggio ancora, come personal computer in carne ed ossa capaci di tradurre il proprio voto in frettolose analisi costi-benefici; in secondo luogo viene evocato un meccanismo elettorale che forse non ha mai funzionato, prima a causa del muro ideologico che assorbiva le valutazioni pragmatiche, oggi a causa del muro isolante rispetto alla politica.

Purtroppo temo che gli italiani, per lo meno la loro maggioranza, votino a prescindere. Da cosa? Un po’ da tutto. Dalle ideologie, ma anche dai valori. Dalle promesse, ma anche dai programmi. Dalle parole, ma anche dai fatti. Dalla storia, ma anche dall’attualità. Da quanto succede nel mondo, ma anche da quel che capita nel proprio orticello.

Un voto ideologico a rovescio, in ossequio all’ideologia dell’anti-politica, del rifiuto dei politici, dell’allergia alle classi dirigenti, del fastidio verso la burocrazia. Un tempo si chiamava qualunquismo visto dalla parte del cittadino, oggi   populismo visto dalla parte di chi vuol governare.

La campagna elettorale del recente referendum sulle riforme costituzionali la dice lunga al riguardo. Al di là degli errori tattici commessi indubbiamente da Matteo Renzi, si può comunque concludere che non ha funzionato nessun meccanismo di raccolta del consenso.

Si è tentato di spiegare le riforme in tutti i modi; visto che questo approccio non funzionava troppo si è provato a tradurre le riforma in chiave di risparmio dei costi della politica; poi si è puntato sulla sforbiciata al numero dei politici; poi sulla personalizzazione del consenso; poi sul rischio del perpetuo immobilismo; poi sulla maggiore partecipazione dei cittadini; poi sul disboscamento delle burocrazie centrali e periferiche; poi sull’Europa che ci chiedeva le riforme; poi sull’imprenditoria che ci chiedeva semplicità e certezza prime di investire in Italia. Nessuno schema attecchiva. Bisognava votare contro! Perché? Per mandare a casa la politica e i politici, a nulla valendo che con il No si facesse comodamente rientrare dalla finestra quanto si voleva sbattere drasticamente fuori dalla porta. Una rivalsa psicologica attorno alla quale hanno giocato i diversi strumentalizzatori del caso.

Se si osserva l’andamento dei sondaggi, per quel che possono valere, si nota che i consensi sono schizofrenicamente neutri rispetto agli avvenimenti clamorosamente e potenzialmente incidenti sulle intenzioni di voto.

Sembra che il voto al M5S non subisca alcun contraccolpo dalle disavventure della giunta comunale di Roma, dalle gaffe europee dei pentastellati, dagli ostentati spadroneggiamenti grillini, dalle fughe interne: niente.

Sono curioso di vedere, ma sono sicuro che le rivolte delle piazze russe contro Putin non sortiranno alcun effetto negativo su quanti in Italia strizzano l’occhio a questo inqualificabile personaggio. Le invasioni sovietiche nei paesi satelliti non scalfivano il consenso del PCI. Sta succedendo, più o meno, lo stesso fenomeno.

La politica in quanto tale ha perso il suo appeal e quindi l’elettore è in balia dell’anti-politica. Fino a quando? Non lo so. Spero sempre ci sia un punto di ritorno. La storia ci insegna che, purtroppo, per liberarsi di certe derive sono state, direttamente o indirettamente, necessari guerre, bagni di sangue, crisi profonde, guerre civili.

Più prende piede l’anti-politica e più la politica tende a peggiorare adeguandosi. Un meccanismo perverso che prende spinta dal basso, ma viene incoraggiato dall’alto. La corruzione dilagante è il carburante fondamentale di questa macchina senza autista   e senza meta.

L’Europa rientra perfettamente in questo gioco allo sfascio: la brexit, l’euroscetticismo, l’anti-europeismo, l’insofferenza verso le burocrazie e le tecnocrazie europee, spingono ulteriormente la macchina su percorsi disastrosi. Trump ci sta dando una bella mano ad andare nel fosso.

Un tempo i giovani protestatari sostenevano che tutto è politica. Sì, anche l’anti-politica, la peggior politica possibile e immaginabile.

Il sano realismo dà un calcetto…nel culo alla faziosità

Non so quante volte ho riletto le ultime dichiarazioni del ministro del Lavoro Giuliano Poletti (con le successive precisazioni), rese durante un’assemblea di studenti a Bologna, e che riporto di seguito: «Il lavoro è prima di tutto un rapporto di fiducia. Per questo lo ottieni giocando a calcetto più che mandando in giro curriculum».

Sono andato alla pignola ricerca dell’appiglio scandalistico, che in molti hanno colto arrivando a chiedere le scuse (un cartello esibito dal leghisti al Senato “Poletti chieda scusa” con il contorno di una sfera blu da regalare al ministro “Pallone gonfiato”), le dimissioni (i Cinquestelle: “Parole vergognose e inqualificabili, per il renzismo il merito non conta” oppure “Che vergogna! Mandiamolo via”), a spendere parole pesantissime (“Sciagurato e indegno”, così ha detto Matteo Salvini), a organizzare un flash mob davanti al ministero del Lavoro (Sinistra Italiana: “Lavoretto o calcetto?”), a buttarla pesantemente in politica (Enrico Rossi, governatore toscano, sostiene che sia il “segno del degrado che avanza”).

Che lo scontro politico avesse raggiunto un livello inqualificabile, me ne ero accorto da tempo, ma confesso che, in questo caso specifico, mi sono decisamente stupito (alla faziosità non c’è mai limite).

Sono perfettamente d’accordo col ministro Poletti nel metodo e nel merito. Dalle mie episodiche ma significative frequentazioni con i giovani d’oggi ho ricavato impressioni, perfettamente collimanti con i consigli del ministro Poletti. Vivono il lungo periodo scolastico e universitario come se fossero sulla luna in attesa di rientrare sulla terra. Molto spesso trascinano stancamente lo studio (a danno delle loro troppo generose famiglie), quasi a voler esorcizzare e rimandare il difficile e problematico impatto col mondo del lavoro. Una volta raggiunto il titolo di studio viene il bello. Hanno l’inconscia speranza che il lavoro possa essere dietro l’angolo ad aspettarli e allora mandano in giro il loro biglietto da visita (curriculum) via internet, nella segreta illusione che possa bastare per farsi conoscere e per conoscere. Naturalmente, salvo autentici colpi di fortuna, non succede nulla e allora sotto con corsi di specializzazione, con master, con altri interventi formativi per alzare il livello della loro preparazione e per aggiungere paragrafi al curriculum.

Sia chiaro, migliorare la preparazione culturale e professionale è buona cosa indipendentemente da tutto. In riferimento allo sbocco lavorativo si registrano però due tendenze: da una parte il mondo delle imprese sembra cercare alti profili culturali e professionali, dall’altra sembra appiattire tutte le preparazioni, dai voti di laurea ai corsi post-laurea, a meno che non siano direttamente connesse ai propri programmi di formazione e di inserimento del personale.

Quindi tutto resta in sospeso, l’impatto si allontana nel tempo, la frustrazione aumenta e l’approccio al mondo del lavoro diventa sempre più difficile. I giovani hanno assorbito la mentalità dello studio, ma non hanno quella del lavoro: quando si accorgono della dicotomia fra le due sfere rischiano la crisi esistenziale. Molto capaci, fin troppo, di tessere rapporti di amicizia e sentimentali fra coetanei, dimostrano una timidezza endemica, sfociante nel disinteresse e nell’isolamento, verso la società nelle sue dinamiche strutturali (partiti, sindacati, associazioni, imprese di vario tipo). Ciò che di positivo riescono a combinare (ed è molto) viene realizzato nello spontaneismo individuale e di gruppo. Sono effettivamente estranei (colpa anche della famiglia, della scuola, delle generazioni precedenti, etc.) ad una mentalità relazionale, che possa metterli a diretto contatto col mondo del lavoro, non hanno la pazienza e la perseveranza per affrontarlo. Ecco quindi la provocatoria opportunità del consiglio metodologico polettiano: lasciate perdere i curriculum e cercate di farvi conoscere intessendo relazioni a ciò finalizzate.

In secondo luogo bisogna realisticamente considerare come è strutturato ed articolato il mercato del lavoro e quali sono i meccanismi che fanno incontrare la domanda e l’offerta. Il settore pubblico viaggia a concorso. La rete che il Jobs Act ha previsto per supportare concretamente i disoccupati in cerca di lavoro è di là da venire e sembra più orientabile su interventi di emergenza che su un organico e generalizzato percorso.

Allora tutto è lasciato all’iniziativa delle singole imprese, delle agenzie private e dei singoli candidati: le une cercano e gli altri si propongono. Durante la mia modesta ma intensa vita professionale ho agito anche in questo campo, in qualità di responsabile del personale. Cosa facevo? Ricevevo le domande di lavoro corredate dal curriculum. Facevo una prima grossolana selezione a seconda delle mansioni da coprire. Convocavo i candidati per colloqui piuttosto approfonditi, a volte prevedevo anche prove scritte sulle materie inerenti il potenziale lavoro da svolgere, acquisivo informazioni e segnalazioni esterne. Sottoponevo i casi meritevoli di maggiore attenzione al vaglio di una ulteriore selezione, coinvolgendo i responsabili d’ufficio interessati al riguardo. Adottavo una mia scala di meritocrazia costruita sulla base di alcuni criteri testati nel tempo, tra cui aveva un peso di rilievo la preparazione scolastica, e quindi arrivavo alla scelta.

Penso che le trafile siano, più o meno, ancora così. Certo, se potevo attingere in tutto o in parte ad un bacino predisposto dall’ente di formazione a cui ero istituzionalmente collegato, le cose andavano meglio da tutti i punti di vista. I candidati arrivavano all’appuntamento dopo aver frequentato un corso di specializzazione ad hoc e quindi la scrematura avveniva in un contesto di proficuo raffronto scuola-lavoro.

Qualcuno teme e sospetta che relazione finisca col diventare raccomandazione e meritocrazia faccia rima con aristocrazia e persino con massoneria. D’altra parte per evitare questi eventuali rischi degenerativi non vedo la possibilità di interventi pubblici al di là di quelli già ipotizzati dalla riforma del mercato del lavoro; credo soprattutto nella automaturazione, dalla parte dell’offerta e della domanda di lavoro, di metodologie di ingaggio più serie, razionali ed approfondite.

Giuliano Poletti ha ben più esperienza imprenditoriale di me e conosce pregi e difetti, limiti e aperture delle procedure in atto e molto bene ha fatto a scoprire gli altarini, usando un’immagine eloquente e provocatoria (quella del calcetto), che costringa i giovani a riflettere ed a concretizzare i loro intendimenti e comportamenti .

Quando i ministri sono dei politici puri, fanno pena perché vivono e operano al di fuori della realtà; quando provengono da esperienze tecniche e professionali concrete, sono fuori posto perché mancano della dimensione politica; quando espongono programmi, sono dei venditori di fumo che eludono i problemi e illudono i cittadini; quando parlano terra-terra, offendono la gente, devono solo chiedere scusa.

Mio padre, quando ascoltava un oppositore esporre le sue prevenute, gratuite e feroci critiche all’operato di un esponente di governo, diceva con il suo solito sarcasmo: «Mo metgol lu, cal fa gnir al vén in-t-l’uvva…».

Pensate, se ministro del Lavoro fosse Salvini o Di Battista o Enrico Rossi o Fratoianni o Scotto, i giovani non avrebbero nemmeno bisogna di sparpagliare il loro curriculum, verrebbero prelevati a domicilio e catapultati sul posto di lavoro. Se poi ministro fosse Pierluigi Bersani, i giovani sarebbero tutti addirittura assunti come direttori. Di cosa? Non si sa, ma questo è un altro discorso…

Il cappio al collo e la palla al piede

In Russia sembra che le piazze dicano sul serio, che la gente, toccata nel vivo dalla crisi economica (è sempre il portafoglio che spinge anche le più nobili battaglie) – una crisi che risente anche delle sanzioni poste dall’Occidente in conseguenza dei comportamenti aggressivi verso l’Ucraina e non solo – e logorata dalle ingiustizie a cui si accompagnano i soprusi dell’oligarchia dominante e i disastri della corruzione dilagante, stia reagendo in modo deciso e largo. Lo zar Putin si starebbe preoccupando, vedendo, tra l’altro, la sua marionetta Medvedev scoperta con le dita (mani e piedi…e tutto il resto) nella marmellata (perverso sistema affaristico coinvolgente i boiardi di stato e i governanti in un mix mafioso e intollerabile).

Come spesso accade, soprattutto ai regimi dittatoriali o autoritari, alle difficoltà interne si cerca di rispondere con la politica estera, ai nemici interni si tenta di contrapporre gli amici esterni. Per la Russia si tratta dell’intervento armato contro l’Isis che è diventato l’alibi per tessere le più strane ed improbabili alleanze tattiche: dal nuovo piccolo compagno di merende, il turco Erdogan, al grande commensale Trump, dai “tardivi serpenti incantati” dell’Est Europa, ai precipitosi e vomitevoli Europei “sputatori nel piatto dove mangiano”.

Fra tutti costoro chi mi irrita maggiormente sono gli antieuropei italiani – anche se forse molto più pericoloso è il Front National di Marine Le Pen, corsa recentemente a baciare la pantofola del sanguinario Zar di Russia ed a promettergli il ritiro di ogni e qualsiasi sanzione – in particolare quei leghisti, che, agli inizi degli anni novanta del secolo scorso, esponevano il cappio in Parlamento per protestare ed aizzare le folle in occasione di tangentopoli.

A parte che “tanto contesta la gatta il lardo che ci lascia lo zampino” – mi riferisco ai coinvolgimenti di esponenti leghisti in faccende politicamente sporche e squallide – oggi questi signori fanno l’occhiolino a Putin il cui sodale Medvedev, quanto a tangenti, fa sfigurare l’Italia. Non capisco cosa trovino di interessante per il futuro del nostro Paese in un’intesa con personaggi simili, dico personaggi perché i leghisti non nascondono una certa simpatia anche per Donald Trump a cui Matteo Salvini, in piena campagna elettorale americana, aveva addirittura carpito un selfie.

Devo rivalutare convintamente Umberto Bossi (per il quale non credo nemmeno al coinvolgimento in un giro sporco, in cui probabilmente amici e famigliari hanno abusato del suo nome e della sua posizione, approfittando della sua evidente menomazione psico-fisica), un gigante, politicamente parlando, a fronte del nanerottolo Matteo Salvini (qui si cambia sempre in peggio). Questo assurdo leader sta vendendo per un piatto di lenticchie in salsa russa, una storia italiana, europea, occidentale, che forse non conosce nemmeno. Questo signore fa il populista schierandosi con la peggior specie di affamatori e oppressori del popolo. Follie pure! E il tredici per cento di Italiani sarebbero disposti a votarlo. E gli altri esponenti del centro-destra gli balbettano addosso offerte di intesa e collaborazione.

E Beppe Grillo? Non ha nascosto qualche simpatia putiniana e trumpiana, ma ondeggia. Probabilmente molto dipenderà dalla piega che prenderà in Russia la rivolta “delle scarpe da ginnastica”: a Grillo ne servirebbero parecchie paia, al posto delle forbici che usa a piene mani, da far calzare ai suoi colonnelli (maschi e femmine) per farli camminare senza troppi riguardi, sia prima che dopo le loro nomine. Ultimamente si sta rifacendo un verginità europea con l’ipotesi di una moneta fiscale italiana. Quando una persona si trova in imbarazzo, si usa ironicamente auspicare per lei una domanda di riserva. Per Grillo ci vuole una moneta di riserva e, forse, per chi gli va dietro qualcos’altro di riserva…

 

Deficit comune, mezzo pareggio

Nel ginepraio di percentuali, i cui decimali comportano spostamenti di miliardi di euro come se fossero noccioline, nella sovrapposizione tra manovra correttiva sul bilancio 2017 (3,4 miliardi di tagli alla spesa o di maggiori entrate) da effettuare a brevissimo termine e previsioni sul bilancio 2018 (la Ue prevede un deficit strutturale da ritoccare, si fa per dire, di 18,7 miliardi vale a dire 8,5 miliardi di aumento storico a cui si aggiunge la richiesta di aggiustamento di 10,2 miliardi per rientrare nelle regole e nei parametri previsti), c’è effettivamente da perderci la testa per i cittadini e da lasciarci la faccia per i governanti del nostro Paese.

Sembra tuttavia che la drammatica situazione dei conti pubblici italiani possa migliorare usufruendo per il 2018 di un maxi-sconto dello 0,5% (8,5 miliardi) grazie ai normali margini di tolleranza inseriti nelle regole europee. Resterebbero solo, si fa per dire, 10,2 miliardi da trovare ad ottobre. C’è però una speranza: potrebbe arrivare un altro bonus da 5 miliardi. Come mai tanta generosità in arrivo da Bruxelles? Il motivo riguarderebbe il fatto che per il 2018 una mezza dozzina di Paesi dell’eurozona, i quali dovrebbero risanare in modo robusto i propri conti, sarebbero orientati a chiedere una riforma delle regole della moneta unica, al fine di ottenere la riscrittura della cosiddetta “matrice” dimezzandone le implicazioni. Se ho ben capito (se mi sbaglio, semmai mi corriggerete…), per l’Italia si tratterebbe del dimezzamento della quota da colmare, portandola da 10,2 miliardi a 5,2 miliardi, con un bel sospiro di sollievo per il governo italiano in odore di procedure di infrazione.

Morale della favola: non sono solo gli Italiani gli spendaccioni di turno, hanno altri importanti compagni “di bevute e di scopate”. E allora mal comune, mezzo gaudio, o per meglio dire, deficit comune, mezzo pareggio.

Forse sarà il caso che l’Europa rinunci a queste regole ad elastico, che oltretutto lasciano il forte dubbio di essere molto rigide per gli sfigati e molto morbide per i bulli. In quale categoria rientri l’Italia dipende molto dagli umori dei partner e dai momenti storici. L’Italia continua a chiedere flessibilità per il terremoto, per i migranti, per i giovani, per il risanamento ambientale e strutturale. Forse esagera. L’Europa risponde: abbiamo già dato. Poi arrivano i raccomandati di ferro e i cordoni della borsa tendono a riaprirsi. La scia aperta dai bulletti serve anche agli sfigati.

Mio padre ricordava spesso gli autentici salti mortali che era costretto a fare per entrare al teatro Regio, quando la povertà non gli consentiva il regolare biglietto e bisognava arrangiarsi per non privarsi della impagabile soddisfazione dell’opera lirica. Una sera davano un’opera diretta dal concittadino maestro Podestà. Si misero in due ad aspettarlo davanti all’entrata del palcoscenico, in largo anticipo sull’orario normale (gli artisti sono in teatro un’ora prima dello spettacolo), per chiedergli se avesse potuto farli entrare assieme a lui per poi sgattaiolare in sala e sistemarsi in qualche modo. Dopo aver capito che si trattava di veri appassionati che non avevano effettivamente la possibilità di pagare l’ingresso, acconsentì con la promessa che non sarebbero rimasti in palcoscenico, cosa assolutamente vietata, e avrebbero trovato una soluzione accettabile. Si accodarono al maestro e fecero per entrare, ma il controllore chiese: «Méstor, chi eni chi dú chi?». «Lasa pasär, jen con mi…». Fin qui tutto bene, ma altri capirono l’antifona e si intrufolarono. «Ànca chilù?» chiese l’inserviente. «Sì» rispose il maestro. E la storia si ripetè per altri. Ad un certo punto l’addetto alla portineria chiese spazientito: «Méstor…». Podestà non gli fece neanche finire la domanda e gli rispose senza possibilità di appello: «Mo sì, tùtti…». Conosceva la passione dei suoi concittadini e la loro povertà. Che stia succedendo un po’ così anche a Bruxelles?

 

Andate a farvi benedire…

La scrittrice Jennifer Niven, impegnata nella letteratura per i giovani, in una intervista rilasciata a la Repubblica a commento dell’uscita del suo ultimo libro “L’universo nei tuoi occhi”, dice: «Il bullismo è uno dei problemi più gravi delle nostre società, che in un modo o nell’altro quasi ogni ragazzo si trova ad affrontare. Tutti noi conosciamo teenager bulli o, più spesso, bullizzati: nella vita reale, ma anche in quella virtuale, visto il dilagare del fenomeno online. Credo che anche le opere di fantasia, come le mie, servano a sensibilizzare, a tenere i riflettori accesi su questi ragazzi, sulle loro famiglie. L’importante è che se ne parli, che il dibattito resti vivo. L’attenzione, in situazioni come queste, è tutto».

Il torrenziale giornalista Francesco Merlo, sempre su la Repubblica, scrive a commento dei ricorrenti fenomeni di bullismo e di violenza giovanile: «Abbiamo scoperto, a Vigevano, che insegnanti, bidelli, genitori e vicini di casa, insomma gli adulti, non si erano accorti che dieci dei loro figli minorenni, organizzati in banda, assaltavano treni e aggredivano gli altri ragazzi per strada. Erano arrivati a violentare e a ridurre in schiavitù un loro compagno di 15 anni portato al guinzaglio, come in un film di Tarantino. Eppure nessuno ha segnalato nulla, né un carattere che si guastava, né un dettaglio di violenza a scuola, né una stranezza in casa. Come accade con quei suoni che hanno una frequenza che l’udito non percepisce, così un’intera comunità, in anestesia morale, non vedeva cosa le passava sotto il naso: per ignavia, per paura di compromettersi, per vigliaccheria perbenista».

Mia sorella, acuta ed appassionata osservatrice dei problemi sociali, nonché politicamente impegnata a cercare, umilmente ma “testardamente”, di affrontarli, di fronte ai comportamenti strani, drammatici al limite della tragedia, degli adolescenti era solita porsi un inquietante e provocatorio interrogativo: «Dove sono i genitori di questi ragazzi? Possibile che non si accorgano mai del vulcano che ribolle sotto la imperturbabile crosta della loro vita famigliare?».

Ebbene, in questo bailamme di trasgressione e violenza, riconducibile direttamente o indirettamente ad una profonda crisi valoriale, in questo desolante panorama che mette tristezza, un nutrito gruppo di genitori e maestri, con tanto di comitato Scuola e Costituzione, faceva ricorso al Tar al fine di proibire le benedizioni pasquali a scuola in nome del principio della laicità della scuola pubblica. Il Tribunale amministrativo accoglieva l’istanza in quanto la scuola “non poteva essere coinvolta nelle celebrazioni di riti religiosi, attinenti alla sfera individuale”. A distanza di due anni il Consiglio di Stato cambia giurisprudenza e sentenzia che “non può attribuirsi al rito delle benedizioni pasquali, se fuori dell’orario scolastico e facoltative, un trattamento deteriore rispetto ad altre diverse attività ‘parascolastiche’ non aventi alcun nesso con la religione, di natura sportiva o culturale”. Se ho ben capito il giudice sostiene, con molto buon senso, che, se a scuola, in orario extra e senza obbligo, si fanno i cineforum o le gare di atletica, si possono tranquillamente anche fare le benedizioni in occasione della Pasqua cristiana.

Ma non è finita qui, dove almeno il buon senso dovrebbe consigliare di chiudere la questione, i genitori ricorrenti annunciano di volersi rivolgere alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la stessa che si è già pronunciata in senso altalenante sull’analoga questione dei crocifissi nelle aule. A mio giudizio dimostrano di avere del tempo da perdere in un settore, quello dell’educazione e della formazione dei giovani, che avrebbe bisogno semmai di recuperare in fretta il tempo perduto.

Viene spontanea a me credente, non tanto in quanto culturalmente e politicamente rispettoso del principio della laicità, ma in quanto assertore della forza intrinseca del messaggio cristiano, che non ha certo bisogno della ostentazione di simboli e del favore di sentenze per porsi all’attenzione degli uomini, una reazione del tipo: «Ma vadano a farsi benedire! Non vogliono il crocifisso e l’acqua santa? Se si accontentano di così poco…accontentiamoli!».

Certo sarebbe molto meglio che i genitori anziché rincorrere i fantasmi dell’ostilità religiosa, che è cosa diversa dalla laicità, anziché coltivare l’intransigenza laicista che è cosa diversa dalla laicità, anziché sfogare il loro anticlericalismo di facciata che è cosa diversa dalla laicità, si dedicassero ad approfondire e fare meglio il loro mestiere, perché ce ne sarebbe bisogno. I simboli cristiani e la proposta che essi sottendono, seppure inseriti in un rigoroso e proficuo contesto multiculturale e multireligioso, non possono certo disturbare né i giovani in cerca di bussola, né i loro educatori che dovrebbero loro fornirla.

Mio padre – non era un cattolico praticante, ma nemmeno un ateo impenitente, forse un diversamente credente, soprattutto molto tollerante e rispettoso nei confronti della Chiesa cattolica e delle sue istituzioni – di fronte alle battute degli amici che, in un mix di machismo e di anticlericalismo, osservavano nei suoi figli una educazione rigorosamente cristiana, impartita dalla moglie, rispondeva in tono minimalista, ma assai eloquente: «I van in céza…mäl al neg fa miga sicùr…». «E po’, aggiungeva, tùtta la mè   famija la va in céza, mè mojéra e i mè fiô par pregär e mi…par lavorär». Eseguiva infatti spesso decorazioni e affreschi in chiese di campagna: il lavoro che lo gratificava di più.

Laicità, rispetto per la religione, buon senso, umiltà, serenità d’animo, occhio ai valori, con l’aggiunta di un pizzico di sana ironia: tutto quanto oggi manca e se ne vedono i risultati.

L’altare e la polvere

In questi ultimi giorni sono successi due fatti che hanno lasciato intravedere strani ed imprevedibili sviluppi per il futuro della storia statunitense e russa. È improvvisamente emersa la potenziale debolezza politica dei due uomini forti della scena internazionale: il neofita Trump e il collaudato Putin. Due mondi, due personaggi, lo stesso intento di aggirare la democrazia.
Ogni simile ama il suo simile e infatti i due sembrano quei cani che si fiutano per valutare la possibilità di fare insieme animalesche porcherie. Uno è appena salito al potere, l’altro si è letteralmente avvinghiato al potere da diciassette anni. Uno viene da un sistema democratico di cui è un frutto bacato, l’altro da un regime comunista di cui era un feroce protagonista. Uno è un imprenditore spregiudicato prestato alla politica sporca, l’altro un politico sanguinario prestato agli affari loschi: il loro metodo mafioso, il loro stile populista, la loro visione cinica li destinano ad un ignobile connubio sulla pelle del mondo intero. In questi giorni però due sassolini sono entrati nei loro oliati congegni.
Trump ha perso in casa, nel Parlamento dove il suo partito domina, una prima partita, quella della riforma sanitaria: voleva spazzare via la legge vigente nelle sue pur contraddittorie e parziali aperture sociali, per tornare ai brutali meccanismi del liberismo dal volto disumano e del capitalismo assai poco compassionevole, ma ha dovuto mettere nervosamente le pive nel sacco. Quel po’ di separazione dei poteri esistente negli Usa ha funzionato al di là degli schemi e delle maggioranze di partito.
Putin ha perso feeling con le piazze, laddove lui giganteggia da anni. I russi danno qualche importante segnale di insofferenza e puntano a sfidarlo, attaccando il suo burattino Medvedev, colpito e sbeffeggiato da una forte protesta anti-corruzione.
Non c’è da illudersi più di tanto: le maggioranze silenziose possono in ogni momento prevalere sulle minoranze politicizzate, anche se la storia molto spesso l’hanno fatta, nel bene e nel male, certe minoranze. Probabilmente Trump riuscirà a far rientrare la fronda parlamentare e Putin riuscirà a soffocare la rivolta. Per ora basta sapere che nelle due super-potenze c’è ancora chi ragiona con la propria testa.
A latere c’è la Cina, una miscela esplosiva tra comunismo politico e capitalismo economico, che prima o poi imploderà, quando cederanno le pazzesche ingiustizie e contraddizioni sociali su cui si regge.
In mezzo c’è l’Europa che deve trovare le sponde in se stessa per competere: ne ha il potenziale economico, non ne ha la coesione e la convinzione politica.
Negli USA è iniziata una capitalcrazia democratica, in Russia abbiamo una democratura oligarchica e mafiosa: denominatore comune il populismo che incanta e affascina le masse scettiche e insoddisfatte. La gente a volte fa alla svelta a mutare le opzioni, basta poco.
Un caro amico che ha fatto qualche viaggio in Russia in cerca di affari per la società di cui è abile manager, mi diceva che in Russia si respira un’aria mafiosa che ti avvolge in tutto e per tutto, si avverte una incredibile cappa oppressiva . Non so se potrà bastare l’oppositore russo Aleksej Navalnyj ad incendiare e “sistemizzare” la rivolta, battendo il chiodo della corruzione.
Non ho idea se l’orgoglio democratico statunitense, risvegliato magari da un Obama in versione casual, basterà a inceppare il meccanismo trumpiano.
Non capisco se la Cina potrà essere il terzo incomodo, ma soprattutto non vedo il ruolo concreto dell’Europa. Gli Usa e l’URSS aiutarono gli europei a sconfiggere il nazismo ed il fascismo. Riuscirà l’Europa ad aiutare americani e russi a liberarsi, prima che sia troppo tardi, dei loro Napoleoni da strapazzo. Sperar non nuoce. Allora funzionò la globalizzazione della guerra, speriamo che oggi funzioni la globalizzazione della democrazia e della pace.

La fiera dell’irresponsabilità

A qualsiasi parte si rivolga l’attenzione si incappa immancabilmente in comportamenti e parole choccanti, non tanto per la loro eclatante originalità, ma per la loro sorprendente irresponsabilità.

Alcune sere or sono mi è capitato di ascoltare, durante un dibattito televisivo, le dichiarazioni filo-putiniane di Matteo Salvini: non faceva mistero delle sue simpatie politiche per il presidente russo fino ad arrivare ad una perentoria scelta del tipo “fra Merkel e Putin scelgo Putin”. Contestato dagli interlocutori, ha rincarato la dose sostenendo che Russia e America per lui pari sono e, badate bene, non si riferiva al fatto della caduta in basso trumpiana, ma esprimeva un tacito ed inquietante “me ne frego” della democrazia, perché ogni nazione deve guardare ai propri interessi e quindi… In quel momento se non lo avevo ancora chiaro, ho capito perché Umberto Bossi abbia preso le distanze dalle derive pseudo-culturali e politiche della Lega salviniana. Tutto infatti ha un limite.

Il giorno stesso avevo letto l’intervento del giudice di Treviso Angelo Mascolo, il quale, dopo un litigio a livello di traffico automobilistico, non solo ha deciso di girare armato, ma ha snocciolato una serie di dichiarazioni da bar del tribunale…: «Ho capito che senza un’arma oggi un cittadino è indifeso, in balia dei violenti…Se non ti difendi ti ammazzano e se ti difendi vieni rovinato dagli avvocati o finisci in galera…Non credo affatto nella capacità rieducativa del nostro sistema carcerario…D’ora in poi mi porterò dietro la pistola che fino a ieri ho tenuto vicino al letto. Gli altri si arrangino…meglio un brutto processo che un bel funerale…I delinquenti sono ovunque e di tutti i colori, anche se li arrestano, se li condanniamo, il giorno dopo scorrazzano liberi…I giudici sono come quei soldati a cui ordinano di scavare una buca e poi di riempirla subito, tanto per tenerli calmi e occupati…Fino a quando i terroristi delle Brigate Rosse colpivano poveri cristi erano “compagni che sbagliano”. Dopo che hanno assassinato Aldo Moro lo Stato ha reagito e li ha annientati. Purtroppo questo mondo va così…Non ho alcuna mira elettorale, tanto meno con la Lega. Se Salvini applaude è perché lui la pensa come me, non io come lui…La legittima difesa è un problema secondario, come asciugare l’acqua quando si rompe un tubo. L’emergenza sono le tubature, ossia lo Stato che non controlla più il territorio».

Ho affiancato queste inqualificabili boutade a quelle di Salvini non a caso, ma perché le unisce un filo, quello dell’irresponsabilità etica e di un neo-fascismo (a)culturale. Se un politico in auge, se un magistrato in carriera la pensano e la cantano così, cosa penserà la gente? Ho paura che molti, troppi, siano d’accordo con loro. Non siamo ai fenomeni di costume, al nord-est che ruggisce, al qualunquismo che batte un colpo, siamo alla demenza politica dilagante. Tutti al bar a sparare cazzate di stampo squisitamente fascista.

Mio padre era figlio dell’oltretorrente, il quartiere più polare di Parma, ne conosceva tutti gli abitanti, in esso contava moltissimi amici, ne aveva frequentato le osterie (dove si osava parlar male del fascismo e di Mussolini), le barberie (luogo allora di ritrovo e del gossip più antico e leale), aveva cantato e discusso di musica nei covi popolari e verdiani, aveva respirato a pieni polmoni un’aria sana e democratica. A proposito di osterie mi raccontava come esistesse un popolano del quartiere (più provocatore che matto) che era solito entrare nei locali ed urlare una propaganda contro corrente del tipo: “E’ morto il fascismo! La morte del Duce! Basta con le balle!”.

Ci sarà ancora qualcuno che avrà questo coraggio? Ce ne sarebbe bisogno.