La strana mappa del terrorismo islamico

Il terrorismo islamico sembra colpire a casaccio, senza una strategia, sembra sparare nel mucchio: fino ad ora ha colpito, seppure in modo più o meno drammatico ed eclatante, diversi Stati europei, Spagna, Gran Bretagna, Francia, Germania, Belgio, Svezia. L’Italia manca all’appello. In molti si chiedono come mai. Si tratta di una lacuna jihadista, di una distrazione terrorista, di un puro caso o di una scelta dell’Isis e dei suoi adepti?

Le ipotesi possono essere tante e provo ad elencarle in rapida successione, sperando di non “gufare” cabalisticamente e di non essere smentito prossimamente.

La prima ragione potrebbe riguardare un più efficiente controllo a livello poliziesco e dei servizi di sicurezza. Si è fatta strada infatti l’idea che l’Italia abbia in tal senso un apparato meglio organizzato, più capillare e più consistente rispetto ai partner europei. Noi siamo soliti sottovalutarci ed autoscreditarci, ma, in questo caso, dobbiamo pur ammettere di non essere secondi a nessuno, anzi… Non credo tuttavia   basti a giustificare una certa esenzione dal terrorismo.

Forse in Italia, tutto sommato, c’è più accoglienza, più integrazione e conseguentemente meno radicalizzazione degli islamici? Anche questo potrebbe essere un motivo valido da considerare: guardando spannometricamente la mappa del terrore in Europa, non sembra tuttavia individuabile una scala di intensità degli attentati collegabile al diverso livello e modello di integrazione degli immigrati.

Potrebbe trattarsi invece di una scelta tattica riconducibile al fatto che il nostro Paese sia molto esposto ai flussi migratori e quindi non convenga al jihadismo irritarlo col rischio di provocare innalzamento di “muri” e scelte politiche di sbarramento: una sorta di tolleranza verso la porta di ingresso da cui passano le correnti migratorie all’interno delle quali direttamente o indirettamente pesca la centrale del terrore a livello di foreign fighter di andata e di ritorno. A ben pensarci anche la Grecia, che può essere geograficamente assimilata   a questo tipo di discorso, non è stata significativamente colpita (almeno che io ricordi).

Oltre la geografia anche la storia potrebbe giustificare in parte questo esonero italiano: l’Italia nella sua politica passata e presente non è stata particolarmente aggressiva verso il mondo arabo (anzi…), non ha rappresentato una punta di diamante nella guerra all’Islam, non si è distinta a sostegno di operazioni belliche impegnative. Non si tratta certo di una medaglia al valor islamico, ma potrebbe collocarci ad un livello di rischio attentati inferiore rispetto ad altri Paesi ben più intolleranti e bellicisti.

In questi ultimi tempi ho sentito una fantasiosa ma interessante motivazione da bar sport, sulla quale confesso di avere esitato prima di accantonarla come la solita sparata chiacchierona. Qualcuno sostiene che ci difenda paradossalmente la mafia con i suoi infiniti tentacoli che arriverebbero anche alle centrali del terrorismo islamico. Che la mafia possa concludere affari con gli scafisti è molto probabile, che possa intravedere un business nella gestione dell’accoglienza e dell’integrazione degli immigrati pure, che ne approfitti per arruolare manovalanza a livello di sfruttamento del lavoro e financo di delinquenza da utilizzare non mi stupirei affatto, ma che possa addirittura incidere sulla strategia globale del terrorismo islamico candidandosi ad esserne una quinta colonna nel nostro Paese francamente mi sembra un po’ eccessivo.

Una cosa è certa, non possiamo illuderci di essere fuori dal mirino e di poter sbrigare all’italiana questa complessa pratica. Mi riferisco all’immigrazione ed alla lotta al terrorismo, due discorsi collegabili e collegati, non per l’assurda e razzistica equivalenza migrante=terrorista, ma nel senso di accogliere e gestire razionalmente le migrazioni a valle, di rimuovere a monte le cause del fenomeno migratorio e di evitare quindi un possibile brodo di coltura per il jihadismo islamico.

È una delle tante sfide, forse la più difficile, che il mondo pone all’Europa e che l’Europa fatica ad affrontare in modo coordinato ed integrato. Un muro di qua, un bel gesto di là, una sparata razzista qui, una iniziativa aperturista lì. Tra il macabro gioco del rimpallo degli immigrati e l’inconcludente spezzatino dei servizi di sicurezza. In questo modo non si va da nessuna parte.

Multiculturalismo non vuol dire multiviolenza

Si fa presto a dire multiculturalismo. Più difficile è accettarlo concretamente. Ancor più arduo coniugarlo con i principi assodati del nostro vivere civile. Il problema emerge quando si scoprono gli ostacoli che la nostra società frappone all’integrazione degli immigrati, ma anche quando gli immigrati non si impegnano nel difficile cammino dell’integrazione e si chiudono in un atteggiamento puramente difensivo al limite del rifiuto.

Si verificano episodi che evidenziano in modo eclatante il corto circuito nei rapporti interculturali: mi riferisco agli atteggiamenti duri, violenti o ai limiti della violenza, di alcune famiglie che vogliono imporre ai loro figli i costumi dell’islamismo, nonostante queste giovani (si tratta infatti soprattutto di ragazze) intendano adottare lo stile di vita occidentale.

Da una parte c’è il diritto dei genitori a educare i figli secondo la loro cultura, dall’altra c’è il diritto dei figli ad integrarsi pienamente nella nuova società: in mezzo, spesso, episodi di maltrattamenti e violenze volti a frenare la spontanea adesione “all’affascinante” proposta occidentale.

A volte si rende necessario l’intervento di polizia, servizi sociali e magistratura per sottrarre i minori da queste situazioni conflittuali e violente: si rischia di lacerare le famiglie, di creare ulteriori traumi, di recidere legami parentali, di isolare le persone dal contesto culturale originario, di sottovalutare i valori trasmessi all’interno della famiglia, ma nello stesso tempo bisogna difendere l’incolumità di queste ragazze, tutelarle da atti di maltrattamento e da un clima educativo oppressivo e violento.

Credo non esistano ricette facili e generalizzabili: ogni caso va seriamente affrontato nella sua particolarità e specificità. Mi sembra tuttavia che si possa cercare un punto critico al di là del quale occorre intervenire: la violenza. Quando la difesa dei valori scantona nella imposizione degli stessi, quando la proposta educativa diventa una prigione, quando i rapporti famigliari si trasformano in dure imposizioni, quando la persuasione diventa sanzione violenta, quando la cultura si trasforma in una camera di tortura, quando la dignità della donna viene calpestata, bisogna intervenire con equilibrio e tatto, ma senza eccessivi riguardi.

Gli islamici devono rendere compatibile l’osservanza della loro religione con i principi fondamentali del vivere in una società occidentale che li ospita e che intende integrarli (seppure in mezzo a mille contraddizioni e difficoltà di vario genere), così come da parte nostra non possiamo pretendere che gli islamici abbandonino la loro storia per tuffarsi acriticamente nella nostra.

L’integrazione è un cammino arduo da ambo le parti: non sono ammesse le scorciatoie del radicalismo. Non esiste altra soluzione rispetto al dialogo.

La corrispondenza biunivoca dei macellai

Mio padre era estraneo alla mentalità militare, ne rifiutava la rigida disciplina, era allergico a tutte le divise, non sopportava le sfilate, le parate etc., era visceralmente contrario ai conflitti armati. Quando capitava di ascoltare qualche notizia riguardante provocazioni fra nazioni, incidenti diplomatici, contrasti internazionali era solito commentare: “S’ag fis Mussolini, al faris n’a guera subita. Al cominciaris subit a bombardar”.

In Siria è successo proprio così. Alla strage effettuata con armi chimiche dal regime di Assad, Donald Trump ha pensato bene di rispondere inviando una sessantina di missili contro le postazioni militari dell’esercito siriano, sotto l’occhio attonito di Vladimir Putin e con l’approvazione di parecchi Stati, tra cui l’Italia. Per fare giustizia ai bambini siriani massacrati col gas? No, per battere un colpo a livello internazionale e riprendersi il ruolo di superpotenza, per risalire a livello interno la china di un disastroso avvio della sua presidenza, per smentire chi lo dava in ignobile connubio con la Russia, per avvertire la Cina e per recuperare i rapporti in crisi con la UE.

Per dirla fuori dai denti abbiamo messo le sorti dell’umanità in mano a due populisti macellai patentati. Uno viene dalla scuola comunista dell’Est, Vladimir Putin, un freddo e sanguinario capo dei servizi segreti dell’URSS, che non so quanti cadaveri abbia sulla coscienza e quanti crimini contro l’umanità abbia commesso nel passato remoto e prossimo e nel presente.

L’altro viene dalla scuola capitalistica coniugata con tutti i peggiori “ismi” della storia, dal razzismo al protezionismo, dal nazionalismo al populismo. Si chiama Donald Trump: è un folle tycoon prestato alla politica.

Sono perfettamente in sintonia, forse in questa fase stanno facendo finta di litigare, perché i loro subdoli accordi (espressi o taciti) stavano venendo un po’ troppo a galla e allora meglio ripiegare sullo schema tipico dei “ladri di Pisa”.

Qualcuno pensava (forse si sta ricredendo in fretta e furia) addirittura che dalla combinazione di questi due squallidi personaggi potesse arrivare una ventata di novità: bisogna avere molta fantasia… Il terrorismo, tutto sommato è funzionale alle loro scorribande internazionali. Se per combattere i macellai del terrorismo islamico abbiamo bisogno di questi due super-macellai attorno ai quali ronzano i peggiori capi di stato del mondo, stiamo freschi. È un po’ come combattere la delinquenza facendo patti con la mafia. La storia qualcosa ci dice al riguardo: gli Usa non si fecero scrupolo di farsi aiutare dalla mafia per sconfiggere il nazi-fascismo annidato nel meridione d’Italia. Oggi ci si fa aiutare da Assad, Erdogan e compagnia bella.

Mi si dirà: è la guerra bellezza. Lo so e proprio per questo torno agli insegnamenti paterni: mio padre ogni volta che sentiva notizie sullo scoppio di qualche focolaio di guerra reagiva auspicando una obiezione di coscienza totalizzante: «Mo s’ pól där ch’a gh’sia ancòrra quälchidón ch’a pärla äd fär dil guèri?»

 

Il caotico traffico fra politica e magistratura

Il nuovo presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Eugenio Albamonte, ha rilasciato immediatamente dopo la nomina un’intervista. Mi aspettavo affrontasse innanzitutto e soprattutto i problemi inerenti il funzionamento della giustizia, invece, forse fuorviato dall’intervistatrice (Liana Milella de la Repubblica), forse spinto dai forti richiami all’attualità, ha puntato sul rapporto tra politica e magistratura o meglio sulla possibilità dei giudici di accedere alle cariche politiche (andata) e sulle condizioni per poter rientrare dopo aver fatto politica (ritorno).

Sinceramente non capisco questa smania dei giudici ad impegnarsi direttamente in politica: la loro funzione e la loro carriera, checché se ne dica, li mettono in una condizione difficile rispetto alla politica attiva. Vale anche per un magistrato il diritto costituzionale all’elettorato passivo, ma occorre rendere tale diritto compatibile con la separazione dei poteri e con l’autonomia di giudizio da garantire ai cittadini.

Il viavai tra procure della repubblica, aule giudiziarie e aule parlamentari non mi convince. Ho un concetto molto alto di magistrato, lo colloco al di sopra delle parti e quindi desidererei fosse totalmente ed inequivocabilmente distaccato rispetto alle vicende politiche, che invece sono di parte, anche se non necessariamente di partito.

Mettiamo pure vincoli e condizioni sia all’ingresso che all’uscita, ma rimarrà pur sempre il dubbio che le due esperienze possano intersecarsi e condizionarsi a vicenda. La Corte di Strasburgo, alcuni anni fa, ricorda Albamonte, ha detto che il pregresso incarico parlamentare non costituisce causa di ricusazione e non crea di per sé un pregiudizio di parzialità sulla decisione presa dal giudice, dal momento che la sua terzietà può essere valutata leggendo le motivazioni della sentenza. Certo, ma per arrivare a sentenza c’è un processo e anche durante questo bisogna che il giudice sia terzo, e che la sua terzietà sia trasparente fin dall’inizio, non solo quindi dimostrabile a posteriori, ma indiscutibile a priori.

I paletti di legge serviranno, ma resto del parere che serva soprattutto una deontologia professionale rassicurante: i giudici prima di sentirsi intoccabili devono dimostrare di esserlo, prima di pensare ai propri diritti si preoccupino di quelli dei giudicandi. Il loro potere è grande. Hanno, totalmente o parzialmente, in mano il destino delle persone. Quando mi seggo davanti ad uno di essi per essere giudicato, devo potermi sentire tranquillo sulla sua autonomia e sulla sua obiettività.

Ci sono delle professioni che mal si conciliano con la politica. Per i giudici come per i medici la commistione non è il massimo. Non è un caso che per queste due funzioni sia previsto anche un abito esteriore ad hoc, camice o toga che sia, a significare la totale adesione esistenziale alla missione vera e propria.

Di fronte a tanta responsabilità l’Associazione dei magistrati faccia quindi ben altre battaglie: per avere mezzi e risorse migliori, per avere una legislazione di base più chiara e precisa possibile e norme procedurali efficaci e snelle, per essere preservati da ogni e qualsiasi pressione e/o intromissione, per contare su trattamenti economici e normativi equi e tali da rappresentare una difesa contro le tentazioni sempre possibili. I giudici non sono isole, ma tutto quanto sa di corporativo e di politico mi sembra superfluo se non fuorviante. La politica lasciamola ai politici… È meglio per tutti.

L’imboscata degli imboscati

La vicenda della nomina del presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato assume per me un rilievo tutto particolare, considerata la grande amicizia e prima ancora la grande stima che nutro nei confronti del senatore Giorgio Pagliari, candidato dal PD a ricoprire questo incarico e purtroppo vittima di una vera e propria imboscata parlamentare.

In Parlamento, come nella società, la persona non vale niente, non conta nulla l’interesse generale, prevalgono su tutto gli interessi di parte ed in base a quelli ci si orienta e ci si muove. La candidatura era di alto spessore e tale da garantire correttezza in un dibattito politico in cui l’importante è gridare offese a vanvera, in una situazione politica delicata che viene affrontata col garbo dell’elefante nel negozio di cristalleria.

Questa Commissione dovrà occuparsi della riforma elettorale: sono sicuro che Giorgio Pagliari l’avrebbe presieduta con competenza, professionalità e rigore, senza prevaricazioni, senza forzature, nell’assoluto rispetto dei colleghi appartenenti a tutte le forze politiche. Non sarebbe andato a fare il portavoce di Matteo Renzi pur essendo espressione del Partito Democratico, non avrebbe forzato la mano su un sistema elettorale pur aderendo alle proposte del suo partito, avrebbe tenuto certamente conto di tutte le sensibilità ed opzioni di maggioranza e di opposizione, operandone, nei limiti del possibile e dei suoi poteri, una leale sintesi, quale utile base per il lavoro parlamentare d’aula sulla materia.

Questo voto, a dir poco anomalo, mette in obiettiva difficoltà, non tanto il Governo, ma il Parlamento che, in questo modo, ha lanciato il deleterio segnale di preferire subdole trasversalità a leali confronti, opachi accordi a franche discussioni. Continuino così e la distanza coi cittadini diventerà sempre più incolmabile.

Innanzitutto stupisce (?) che in questa logica cadano, fra gli altri, anche coloro che si ergono a portatori di una diversità nel vivere le Istituzioni. Mi riferisco al M5S. Perché non hanno avuto il coraggio di esternare il loro intendimento ed hanno preferito rifugiarsi nel voto segreto,   operando un attacco politico che nulla ha a che vedere con l’Istituzione di cui si doveva eleggere il presidente? Se proprio volevano distinguersi, come hanno fatto diverse volte, avevano altre possibilità: il non votare, il votare scheda bianca, il votare un loro candidato. Invece hanno fatto convergere tatticamente i loro voti su un outsider di maggioranza, solo ed esclusivamente per creare confusione o, ancor peggio, per sostenere chi promette loro un piatto di lenticchie sulla legge elettorale, per la quale fino ad ora non hanno voluto saperne di dialogare seriamente con nessuno.

Vengo brevemente al comportamento parlamentare del nuovo Movimento dei Democratici Progressisti, i fuorusciti dal PD, che avevano lasciato intendere un leale appoggio al governo Gentiloni: su 934 voti espressi da quando è nato questo nuovo raggruppamento alla Camera, in 329 casi i Demoprogressisti hanno votato contro il governo (dati forniti dal capogruppo PD Rosato e non smentiti). Sorgono seri dubbi sul loro comportamento in generale e anche su quello tenuto nella vicenda in questione.

Ed eccomi ad Area popolare, il gruppo di Alfano: da un po’ di tempo non nasconde una certa insofferenza verso le linee dell’alleato PD e del governo di cui fa parte. Lascia emergere o subisce una candidatura alternativa a quella di maggioranza e su quella viene ottenuto il voto delle minoranze; Alfano, piccolo leader (?) di un piccolo ondeggiante partito, messo alle strette, farfuglia qualche scusa, prova a rivoltare la frittata che gli brucia in mano, punta sul ravvedimento operoso, ma Salvatore Torrisi, il presidente eletto, sembra non volerne sapere di farsi da parte a costo di espulsione (tanto, cambiare camicia, per i neo-centristi, è un divertimento).

Seguo la politica da quando avevo quattordici anni, non sono un ingenuo e nemmeno un “bacchettone”, ne ho viste e sentite di tutti i colori. Proprio per questo non mi si vengano a raccontare balle che stanno in poco posto. Non c’è bisogno di fare della dietrologia per capire cosa è successo: una “porcata” in vista della legge elettorale, laddove porcata chiama porcata. Non è un caso che il leghista Roberto Calderoli – lui di porcate se ne intende – lo abbia chiaramente spiegato ed abbia esultato, intravedendo la possibilità di votare una legge, che non risponda ai principi di rappresentatività, governabilità e stabilità tanto sbandierati, ma allo scopo ben preciso di votare in fretta dando un colpo a Renzi. Continua il disegno referendario: tutti uniti contro Renzi.

Uniti sì, ma contro la DC, si urlava nelle piazze degli anni settanta. Uniti sì, contro Renzi, si sussurra in Parlamento. Ne ha fatto le spese il senatore Giorgio Pagliari, troppo bravo per essere votato. Lo ammette, direttamente e indirettamente, perfino il sedicente playmaker dell’imboscata, Roberto Calderoli. D’altra parte non era già successo a Giorgio Pagliari per la candidatura a sindaco di Parma? Guarda caso allora, nel 2012, artefici di quella inqualificabile manovra furono Bersani e c. Sappiamo i risultati che ottennero.

La storia si ripete, non proprio con identiche manifestazioni e identici protagonisti, ma la morale della favola è sempre la stessa. Allora fu consegnata Parma a un grillino, che oggi abiura (con qualche ragione) alla sua fede. Di questi tempi si finirà col dare il governo in mano a un grillino per portarci alla deriva in Italia, in Europa e nel mondo. Grazie di tutto!

La mafia non è una malattia ereditaria

Una giovane neo-laureata in economia si è suicidata. Non per la disperazione di non trovare lavoro, non per una grossa delusione sentimentale, non sotto l’effetto di stupefacenti. Sembra – il condizionale è oltremodo d’obbligo trattandosi di scandagliare il profondo dell’animo di una persona, laddove si può concepire una simile tragica scelta di non vita – per il vuoto sociale creatosi intorno a lei in conseguenza del fatto di avere candidamente ammesso di essere la nipote e la figlia di noti appartenenti alla ‘ndrangheta calabrese.

Il procuratore capo della Dda ha dichiarato: «È un episodio gravissimo che deve toccare la coscienza di tutti. Siamo tutti responsabili di questa tragedia. Abbiamo perso una ragazza che si è fatta una strada nella vita scolastica per la propria onestà, perché non abbiamo avuto la sensibilità di comprendere che vi sono mutamenti a cui tutti devono concorrere. Se noi perdiamo queste occasione per recuperare la libertà, l’onestà, l’etica, non c’è speranza per il futuro».

Stando alle dichiarazioni degli insegnanti, dei suoi colleghi ed al suo comportamento in ambito universitario, la situazione famigliare non avrebbe pesato più di tanto sui rapporti sociali e allora si tratterebbe solo di un estremo disagio psicologico a livello etico, una sorta di rifiuto della propria esistenza così come poteva emergere dai suoi legami parentali: in parole povere si sarebbe suicidata per vergogna.

Un suicidio – lo dico anche per triste esperienza – lascia in chi rimane una insondabile eco angosciosa, una sorta di rimorso per non averne capito per tempo le ragioni e per non aver avuto la sensibilità e il coraggio di affrontarle assieme alla persona schiacciata sotto il peso della disperazione. Il dramma è questo, non quello di disquisire sulla moralità della scelta e sull’astratto principio del rispetto per la vita.

Quando una giovane di 24 anni prende una simile decisione, qualunque sia la causa che l’ha spinta, pone inquietanti interrogativi a tutti. Vorrei però riflettere un attimo sull’ipotesi socialmente più delicata, vale a dire quella che sembra risalire agli imbarazzanti legami famigliari con la mafia.

Se questa persona è rimasta schiacciata sotto il peso di questo marchio, magari dopo averne verificato l’incancellabilità, ci chiede di non fare mai giustizia sommaria o semplicistiche generalizzazioni: ogni persona vale per quello che è e non per la sua genealogia e va aiutata a liberarsi di certe brutte eredità che la possono condizionare.

Mi sforzo di capire il dramma interiore di un figlio o di una figlia di un mafioso, che non aderisce alla scelta criminale del padre, anzi la condanna apertamente, ma nello stesso tempo non può rinnegare il legame sentimentale col proprio padre: più che all’isolamento sociale penso a questo devastante conflitto interiore quale possibile causa del suicidio della giovane calabrese. Certo, avrebbe avuto bisogno di essere capita ed aiutata e invece probabilmente si è vista circondata dal sospetto e dalla freddezza, se non addirittura dalla tacita condanna.

La seconda riflessione mi porta ad annoverare tra le vittime della criminalità organizzata anche i famigliari coinvolti loro malgrado in queste storie: si può essere vittima della mafia anche in questo senso. Dobbiamo abituarci ad inserirli nel lungo elenco e tra i primi auspicabili protagonisti del riscatto culturale e sociale dal fenomeno mafioso.

Un ultima parola di elogio per il magistrato che sta seguendo con tanta attenzione e sensibilità l’inchiesta: sta facendo onore alla categoria, gliene do atto molto volentieri, nonostante i dubbi e le perplessità su certi atteggiamenti della magistratura.

 

La statistica fra Trilussa e Pirandello

Il mio rapporto difficile con la statistica risale ai tempi dell’università: l’unico esame di fronte al quale dovetti chinare la testa, ritirandomi dalla prova scritta, successivamente ripetuta, e rimediando alla fine un voto piuttosto basso, dopo una prova orale stiracchiata. Tutte le volte che vengo in contatto con dati statistici scatta in me una specie di repulsione: è proprio vero che la scuola spesso segna pericolosamente e per tutta la vita l’approccio, positivo o negativo, a certe discipline.

Questa premessa/confessione per giustificare la mia allergia ai dati statistici riguardanti l’andamento dell’economia ed in particolare a quelli relativi all’occupazione: balletti di cifre che tutti si affrettano ad interpretare a loro modo ed effettivamente leggibili in chiave pirandelliana.

Le ultime percentuali diramate dall’Istat segnano un leggero miglioramento dell’occupazione, quella giovanile in particolare, rispetto ai mesi precedenti. C’è un però: in assoluto il numero degli occupati rimane stabile e il dato percentuale in crescita è dovuto al fatto che ci sarebbero 83.000 persone in meno che cercano lavoro. Se ho ben capito è diminuito il numero dei pesci che nuotano nel bacino e quindi per quelli che rimangono è relativamente più facile sopravvivere (una versione aggiornata della statistica trilussiana). Quegli 83.000 cosa penseranno di fare? Riprendere a studiare, lavorare in nero, stringere la cinghia, vivere di espedienti, mettersi a carico della famiglia, aspettare la non-pensione, traccheggiare in attesa di tempi migliori? Difficile stabilirlo, possibile solo fare delle (strane) ipotesi.

Un altro dato riguarda il tasso di occupazione, vale a dire il rapporto fra gli occupati e la popolazione di età compresa tra i 15 e i 64 anni: il 57,5% come nel 2004. Una percentuale oggettivamente bassa, che può dipendere da tanti fattori, ma che certamente evidenzia una certa staticità della nostra economia.

Le mie riflessioni sono due: una di metodo e una di merito. Quanto al metodo ritengo che i dati statistici sparati alla viva il parroco non servano a nulla e creino solo infondate aspettative o falsi allarmi. È come quando si leggono in proprio i referti delle analisi del sangue: presi alla lettera e visti con l’occhio del profano sembrano preludere ad una salute ferrea o ad una morte imminente. Poi, esaminati dal medico, contestualizzati e relativizzati, perdono quasi sempre la loro drammaticità e recuperano la loro concretezza.

Nel merito, mentre tutti si affannano a considerare i dati come una pagella per i governanti in carica o per quelli passati, sono propenso a ritenere che, nel nostro sistema, la politica economica abbia effetti molto limitati e affatto immediati. Non affanniamoci pertanto a bocciare o promuovere il governo, il ministro, la nuova legge: questa è roba da fumo negli occhi. La politica non è la matematica e quindi va giudicata senza usare improbabili termometri, men che meno quelli economici.

Se un tempo si davano giudizi politici in base alle ideologie, oggi si rischia di votare con gli indici istat alla mano o, ancora peggio, con questi indici interpretati ad uso e consumo dei demagoghi o degli arruffapopolo di turno. Dalla astratta teoria alla brutale pratica. In mezzo ci dovrebbe stare il giudizio ragionato e motivato. In mezzo cioè dovrebbe esserci la democrazia, che viene prima e dopo il voto. Invece adesso si tende a sostituire il dibattito con una cliccata, il voto a un candidato con un sì o con un no sulla scheda o sul computer. Semplice ma pericolosissimo.

La brutta pace e la bella guerra

Un mio simpatico e schietto parente, tra il serio e il faceto, trovava paradossale e ridicolo un abusato modo di dire, utilizzato a sintetico commento della scomparsa per malattia di una persona, vale a dire ”È morto di un brutto male…”. Si chiedeva infatti: «Sarei curioso di sapere chi è morto di un bel male?». La piccola gag formulata in dialetto ha un carattere ancora più incisivo e dissacrante.

Ebbene, quando cogliamo le manifestazioni più clamorosamente brutali e violente della guerra, ci auto-sorprendiamo ipocritamente ed esclamiamo singolarmente o comunitariamente: «Non è possibile arrivare a tanto!». Sta succedendo in questi giorni in concomitanza con il raid che ha colpito con armi chimiche una cittadina siriana ancora in mano ai ribelli, provocando la morte atroce di 58 persone di cui 11 bambini e danni gravissimi a trecento feriti prevalentemente civili.

La descrizione degli effetti di questo bombardamento è veramente choccante: soffocamenti, convulsioni o contrazioni, giramenti di testa, perdita di coscienza, spaesamento, pressione bassa, pupille ridotte, arrossamento agli occhi, allucinazioni, paralisi. Un vero e proprio sofisticato avvelenamento di massa.

È partito il solito pianto sul latte versato, il disgustoso gioco al rimbalzo delle colpe, la vergognosa corsa al pietismo del giorno dopo, l’insulsa recriminazione sulla mancanza di limiti all’uso delle armi. Della serie: com’è brutta questa guerra! Troppo brutta! E io rispondo rubando la battuta a mio cugino: «Trovatemi una guerra bella o almeno accettabile…».

Lasciamo a certa letteratura del passato la nobiltà e lealtà degli scontri cavallereschi. La guerra è guerra. Non si può essere in guerra solo un po’. Ogni arma è valida pur di vincere ed annientare il nemico. Non scandalizziamoci a valle, semmai impegniamoci a monte. Per me non fa molta differenza che queste armi chimiche le abbia usate il regime di Bashar al Assad o la Russia di Putin o i ribelli siriani o i Turchi o l’Isis o Al Nusra. La guerra è guerra. Quando si è deciso di annientare il Califfato non ci si poteva illudere di portare avanti una guerra chirurgicamente mirata ai soli militanti dell’Isis: gli effetti collaterali si mescolano a quelli principali in un inestricabile ginepraio di morte e distruzione. Figuriamoci in una situazione bellicosa dove amici e nemici si intersecano, dove ognuno ha i suoi nemici che non corrispondono a quelli dell’alleato, dove le coalizioni si mescolano in un putiferio di motivazioni strategiche e tattiche.

E che a soffrirne le conseguenze siano le persone incolpevoli e i soggetti più deboli è altrettanto inevitabile. Se questi ragionamenti vengono giudicati cinici, meglio il cinismo della verità all’ipocrisia della tardiva diplomazia internazionale. I Francesi e gli Inglesi, propensi a colpevolizzare il debordante intervento russo, chiedono una riunione straordinaria del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Loro, che non hanno mai esitato, anche in tempi recenti, a dichiarare frettolosamente guerre a destra e manca, guerre che si sono rivelate immotivate ed inutili. Federica Mogherini, al cui occhio do atto, come fa Andrea Chenier nei confronti di Maddalena di Coigny, di uno sguardo europeo di umana pietà, scarica la responsabilità sulla folle resistenza del regime siriano di Assad (è certamente solo una delle concause). Ma la più “bella” delle reazioni è quella di Donald Trump: è tutta colpa di Obama e dei suoi tentennamenti, della sua ingenua fiducia nei gruppi ribelli e della sua testardaggine a pretendere l’emarginazione di Assad. Del tipo se guerra doveva essere, tanto valeva farla subito e che la facessimo noi…Ci sapremo regolare per il futuro.

Qualcuno dirà che la guerra all’Isis era sacrosanta, è una guerra difensiva, non si poteva fare diversamente. Se è così, dobbiamo essere pronti a pagarne tutte le conseguenze, senza indulgere a falsi pietismi. Se non si riesce a regolamentare la vita pacifica, immaginiamoci se si potrà mai riuscire a regolamentare la guerra: anche le più banali tregue armate, saltano dopo poche ore in uno scontato e infantile ping-pong di responsabilità.

Personalmente agli inevitabili danni di una guerra, preferisco i possibili danni di una pace: sempre meglio una “ingiusta” e testarda pace di una “giusta” e arrendevole guerra, sempre meglio una inguardabile pace di una brutta guerra. È una delle poche radicalità politiche che mi sono rimaste in testa e nel cuore.

 

 

 

 

La fuffa di governo

Un mio collega, grande esperto ed autorevole consulente in materia fiscale, a chi gli chiedeva conto delle novità in discussione a livello parlamentare o governativo rispondeva: «Faccio una fatica enorme a districarmi tra le leggi in vigore, mi rifiuto categoricamente di leggere i provvedimenti in gestazione, aspetto e poi si vedrà quando sarà il momento».

Era una opportuna norma di comportamento a livello professionale, ma potrebbe essere anche un utile consiglio nel dibattito sempre aperto sulle manovre, manovrine, manovrette. Ogni giorno cambiano le carte in tavola: una volta si punta sul taglio delle spese, un’altra sullo sgravio fiscale, un’altra ancora sulla diminuzione del cuneo fiscale, poi si parla di disboscamento delle agevolazioni e detrazioni tributarie, di spinta ai consumi, di aumenti delle tasse su giochi e sigarette, di accelerazione degli investimenti, di ulteriori privatizzazioni.

In questo groviglio gioca un ruolo negativo l’informazione che, correndo dietro alle indiscrezioni, aggiunge incertezza e confusione ad un quadro di per sé già sufficientemente complesse e problematico: la UE chiede rigore e correzione dei conti, l’Italia vorrebbe spingere sull’acceleratore dello sviluppo aprendo i cordoni della borsa, il governo si barcamena, i partiti di governo, PD in primis, non vogliono pagare lo scotto elettorale su provvedimenti restrittivi, le associazioni imprenditoriali puntano sul benefico shock fiscale per le imprese, i sindacati dei lavoratori chiedono interventi di alleggerimento fiscale per le persone fisiche a basso e medio reddito, i media cattolici spingono per provvedimenti a favore della famiglia.

Da questo ginepraio di annunci, regolarmente disattesi nel giro di poche ore, il cittadino ricava un deleterio senso di incertezza (ancor peggio rispetto alla certezza di sacrifici) e l’impressione di non essere governato e di vivere alla giornata.

Occorrerebbe che i governanti parlassero meno e solo quando avessero precise decisioni da adottare e comunicare, che non facessero filtrare indiscrezioni atte a creare scompiglio e apprensione, che tornassero all’ufficialità delle dichiarazioni.

Si fa un gran parlare di fake news, di bufale, di notizie false diffuse ad arte sul web per creare confusione. Sui provvedimenti governativi non siamo a questo livello, ma quasi…

Temo che questo clima sia l’ideale per chi vuole pescare nel torbido, per chi gioca allo sfascio, per chi vuole cavalcare lo scontento. Se la politica non riesce a contenersi ed a controllarsi, rende un ottimo servizio alla cosiddetta anti-politica. Se la politica rincorre le provocazioni e si butta nella mischia mediatica alla ricerca epidermica del consenso, perde ulteriormente credibilità.

Donald Trump in totale spregio alle regole democratiche, durante la campagna elettorale, sosteneva che, se anche fosse uscito in strada e avesse cominciato a sparare all’impazzata, gli americani lo avrebbero votato ugualmente, tanta era la loro voglia di ribellarsi al sistema.

Ebbene, non vorrei che la politica pensasse di recuperare consenso uscendo in strada a sparare cazzate a raffica, dicendo e disdicendo in continuazione. Calma, sangue freddo, discrezione e serietà. Il resto è fuffa!

 

Le certezze e i dubbi del vero ambientalismo

Ammetto di non avere una spiccata sensibilità verso le questioni ambientali. Ad esse ho sempre preferito, probabilmente sbagliando, quelle di carattere socio-economico. Mi sento portato a farmi carico della mancanza di lavoro per tanti soggetti, prima e più che del taglio di 211 alberi di ulivo. So benissimo che si tratta di un approccio manicheo alla realtà: contrapporre o anteporre gli interessi degli uomini a quelli dell’ambiente in cui vivono è certamente sbagliato e fuorviante. Ne stiamo forse facendo uno schema culturale: rischiamo di creare lo scontro tra il “cretinismo” ecologico e il “furbismo” economico.

No Tav (no al Treno ad Alta Velocità – Torino-Lione – per il suo forte impatto ambientale), no Tap (no all’approdo a Melendugno, in Puglia – provincia di Lecce, del gasdotto Trans Adriatic Pipeline che porterà in Europa il gas dell’Azerbaijan): qualsiasi opera infrastrutturale ha un impatto ambientale, si tratta evidentemente di ridurlo al minimo senza privarsi dei vantaggi che tali opere dovrebbero comportare a livello di sviluppo economico, di occupazione, di commerci, di traffici, di progresso.

Trovare il punto di equilibrio non è facile e anziché impegnarsi in questa problematica ricerca ho l’impressione che si tenda a radicalizzare le questioni rifiutando aprioristicamente ogni e qualsiasi ricaduta ambientale e/o enfatizzando pregiudizialmente i vantaggi della realizzazione di imponenti opere.

Ne soffre il dibattito, che resta in superficie e scade a livello di rissa ideologica a prescindere dai reali problemi. Non ho elementi scientifici e culturali sufficienti (colpa della mia ignoranza e della mia pigrizia) per schierarmi a favore o contro la Tav o la Tap: sarei favorevole a condizione che venisse salvaguardato al massimo l’ambiente interessato; sarei contrario a condizione che l’ambiente ne uscisse irrimediabilmente deturpato o danneggiato.

Non mi sento neanche di intromettermi nel secondario dibattito sulle forme di protesta. Nel Salento vengono schierati in prima linea persino i bambini per fermare i camion che trasportano gli ulivi sradicati ed è partito il solito contorno di dotte dissertazioni psicologiche ed educative. Se infatti il rischio di danno ambientale è molto significativo, si possono arrivare a giustificare forme ostruzionistiche di opposizione al di fuori della violenza, ma comunque forti e pesanti. Se al contrario il rischio è blando, diventano insopportabili proteste invasive, contestatrici e ribellistiche. Il problema non è tanto come si protesta, ma contro cosa si protesta. Se la Tap distruggerà l’ambiente è giusto che anche i bambini siano in prima linea a protestare, perché saranno loro i futuri danneggiati. Se, al contrario, il danno ambientale sarà compatibile e rimediabile la protesta dovrà assumere altri connotati, vale a dire puntare su determinate garanzie e controlli.

Le scelte si fanno ancor più drammatiche quando c’è di mezzo l’immediata difesa della salute pubblica a fronte della salvaguardia dei posti di lavoro. A parte che a volte i due interessi si sovrappongono, ma anche se non collimano bisognerebbe comunque dare la precedenza all’imprescindibile interesse generale alla salute rispetto al pur sacrosanto diritto ad avere un posto di lavoro.

Alla luce di questo inquietante dilemma ho letto le dichiarazioni dell’ex ministro del lavoro Enrico Giovannini alle prese col taglio della spesa pubblica con cui coprire la riduzione delle tasse e altri interventi a sostegno della ripresa economica. L’ex ministro propone un esempio: «Un rapporto assai poco notato del ministero dell’Ambiente quantifica in 16 miliardi l’anno i contributi ad attività dannose per l’ambiente. Ridurli consentirebbe di andare nella direzione degli accordi di Parigi e inoltre di diminuire i rischi di multe europee visto che l’Unione è sempre più attenta al proposito. Però ci si scontra con lobby potenti: ogni volta che viene solo ventilato il taglio dei contributi al gasolio, le città vengono invase dai Tir».

Sono sicuro che non sarà solo questione di lobby affaristiche e avide di utili, ma anche di lavoratori che vedranno messo in discussione il loro posto. Cosa fare? Occorre un’analisi dei costi-benefici anche se i costi rischiano di cadere su cittadini diversi rispetto a quelli che si avvantaggerebbero. Quindi bisogna trovare anche meccanismi di compensazione. Governare è molto difficile. È più facile scendere in piazza. Ma bisogna anche scendere in piazza, quando è ora e non solo per fare casino. Trovare quest’ultimo confine dovrebbe essere mestiere dei sindacati e della associazioni imprenditoriali e ambientalistiche.

Ricordo un politico di razza, a cui mi sentivo molto vicino per mentalità e cultura prima che per motivi politici: Mino Martinazzoli, allora segretario del Partito Polare nato sulle ceneri della Democrazia Cristiana. Ad una domanda secca su un problema complesso rispose con ammirevole equilibrio e grande onestà intellettuale, dicendo (riporto a senso): «Sento molti miei colleghi che ostentano certezze a tutto spiano, io rischio di esprimere solo forti dubbi, perché di certezze ne ho ben poche…». Sono sicuro che, dall’alto della sua intelligenza di pensiero, associata all’umiltà di proposta, direbbe così anche su Tav, Tap e per i contributi a certe attività pericolose per l’ambiente. Poi però bisogna scegliere. Non invidio chi deve farlo.