La Rai non è un r(a)ing

Una delle contestazioni principali che vengono fatte a Erdogan, tese a dimostrare il graduale passaggio da democrazia a regime autoritario della Turchia, è quella di mettere il bavaglio alla stampa arrivando persino ad arrestare i giornalisti ostili al suo corso. In effetti la libertà di stampa è un dato costitutivo e qualificante della democrazia.

Di conseguenza non è accettabile alcuna censura preventiva o successiva anche sulle trasmissioni televisive che ospitano inchieste su argomenti eticamente delicati e socialmente rilevanti come la vaccinazione contro il papilloma virus.

Se il discorso riguarda il servizio pubblico televisivo, si fa ancora più pesante: servizio pubblico non vuol dire mandare in onda trasmissioni funzionali al sistema, che non ne denuncino cioè le incongruenze e le ingiustizie, ma mettere, senza reticenze e timori reverenziali, a disposizione dell’utente il maggior quantitativo possibile di elementi di giudizio su argomenti e problemi di interesse pubblico.

Restando al discorso della vaccinazione, un inchiesta televisiva non deve essere un mero spot a favore, ma nemmeno una faziosa e vorticosa contestazione. La Rai dovrebbe pretendere dai suoi giornalisti un atteggiamento obiettivo ed equilibrato, che rifugga da tentazioni   meramente scandalistiche da lasciare semmai all’iniziativa delle televisioni private.

Le libertà sono un bene irrinunciabile, ma “inabusabile”. Qualcuno tende ad approfittare salvo gridare allo scandalo e alla censura se una qualsivoglia autorità si permette di contestare il rispetto dei principi di obiettività e correttezza. Non vedo niente di grave se a livello parlamentare ci si chiede se una clamorosa inchiesta targata Rai sia una cosa seria o una gag teatrale. Non giudico una intromissione partitica il sacrosanto diritto di chiedere conto agli amministratori della Rai di cosa va in onda su problematiche fondamentali per la vita dei cittadini, non mi sorprendo se un amministratore Rai chiede conto di ciò al direttore generale e non mi stupisco se il direttore generale pretende spiegazioni dal direttore di rete e dal responsabile del programma per poi eventualmente adottare decisioni adeguate alla situazione.

Sui vaccini non si possono fare polemica fine a se stessa, informazione settaria, mera provocazione. Il problema è troppo importante per essere sbrigativamente liquidato con la registrazione unilaterale di gravi conseguenze indesiderate del vaccino, che hanno tutto il diritto di essere espresse e testimoniate, ma non possono essere l’unica voce che fa testo e orienta la pubblica opinione inoculandole dubbi e perplessità. Con tutto il rispetto per le capacità professionali e la verve giornalistica di Sigfrido Ranucci, attuale conduttore di Report, la trasmissione entrata nell’occhio del ciclone, sul discorso vaccini vorrei sentire anche il parere delle autorità scientifiche, di quelle sanitarie e di quelle politiche, possibilmente in modo contestuale e non en passant rispetto alle informazioni critiche ed alla messa in discussione dell’utilità dei vaccini.   Mi è dovuto come cittadino e Ranucci non può cavarsela, magari dicendo di avere invitato le Istituzioni, Ministero della Salute e Istituto superiore di sanità, che non hanno raccolto tale sollecitazione.

Sarebbe un errore far chiudere i battenti a una trasmissione rea di essere andata oltre il seminato dell’obiettività e della completezza informativa: potrebbe diventare addirittura lo sfogo per altri regolamenti di conti tra politica e televisione pubblica, un avvertimento per evitare critiche al sistema. Chi di dovere vigili attentamente: vigilare non vuol dire intromettersi né prevaricare. Chi ha la responsabilità di gestire l’informazione Rai esamini la situazione e, se del caso, corregga il tiro, prendendo le più opportune misure in linea con la libertà di stampa, con l’etica professionale e con il diritto dei cittadini ad essere informati correttamente, senza peli sulla lingua ma anche senza pelo sullo stomaco.

I giornalisti devono fare un bagno di orgoglio per quanto concerne le libertà costituzionali inerenti il loro mestiere, ma anche un bagno di umiltà per come utilizzano queste libertà a sevizio degli utenti. La Rai non è una qualsiasi emittente televisiva, è un servizio pubblico e chi ci lavora dentro deve saperlo e comportarsi di conseguenza, altrimenti può cambiare mestiere o emittente. Non saranno padri eterni i politici, ma non lo sono certamente nemmeno i giornalisti Rai e i loro strumentali difensori d’ufficio. La Rai non diventi l’interposta persona tramite la quale si scatena l’ira critica verso il sistema o la pregiudiziale difesa del sistema stesso.

In questi giorni, parlando di altre cose, mi è venuto spontaneo definire il “senso politico” come la capacità di prevedere le conseguenze pubbliche dei propri pronunciamenti istituzionali e professionali e financo dei propri comportamenti privati. Quando si dice fuori la politica dalla Rai, si dice una solenne minchiata. La Rai è politica, quella vera, quella a servizio dei cittadini e non ad uso dei partiti, dei dirigenti e dei giornalisti. Quando si ipotizzano formule neutre e tecnocratiche di gestione Rai, resto molto perplesso. Tutto sommato preferisco che a sovrintendere siano le Istituzioni col rischio della partitizzazione, piuttosto che lasciare il tutto nelle mani dei cosiddetti esperti   col rischio della giubilazione.

La contestualizzazione dei vaffa

È in atto un’escalation, quantitativa e qualitativa, di attenzione mediatica nei confronti del Movimento Cinque Stelle e del suo leader Beppe Grillo. Questo atteggiamento va ormai ben oltre la normale cronaca politica o la dietrologia editorialistica: non capisco tuttavia fino a che punto si tratti della solita opportunistica preparazione a salire sul carro del possibile vincitore e fin dove si vogliano snidare i grillini dallo splendido e velleitario isolamento in cui lucrano la generica rendita protestataria dell’antisistema, dell’antipolitica, dell’antiestablishment, dell’anti tutto insomma.

Sta avvenendo un cambio di passo giornalistico nella critica al M5S: dalla contestazione delle evidenti contraddizioni nella condotta istituzionale all’analisi dei massimi sistemi della (non) proposta politica. Anche Grillo, aiutato dalla fantasia di Casaleggio junior e da quel poco o tanto di intellighenzia mobilitata, sta uscendo abilmente e frettolosamente dall’ostentata ritrosia per buttarsi nel dialogo intellettualoide, seppure attestandosi sulla furbesca non-strategia che gli consente di dire e fare tutto e il contrario di tutto, tentando di capovolgere il percorso tradizionale   della richiesta del consenso (non più   dai partiti alla gente via voto, ma dalla gente ai movimenti via web).

La mega-intervista rilasciata ad Avvenire, il quotidiano cattolico per eccellenza, accompagnata da un abile e intrigante profilo del personaggio, con tanto di immediata eco sul Corriere della sera (intervista sull’intervista a Marco Tarquinio direttore di Avvenire), conferma in modo emblematico la tendenza di cui sopra. Consideriamo inoltre il pulpito da cui viene la predica. Sì, perché l’omelia in questo caso non l’ha fatta Grillo, che ha (s)parlato bene, ma il quotidiano dei vescovi: stia molto attento perché le strumentalizzazione dei preti rischiano di tornargli indietro con gli interessi anatocistici.

Trattandosi di un’autorevole voce della Chiesa cattolica italiana, che si muove in modo felpato, ma non a vanvera o per puro caso, considerato che l’atteggiamento risultante è quello di una seppur parziale apertura di credito verso i grillini, viene spontanea una domanda: siamo alla solita e “simoniaca” ricerca di un futuro ombrello protettivo, siamo ad una studiata trappola coinvolgente e devitalizzante o siamo nel campo di un mero e provocatorio confronto a trecentosessanta gradi sui temi che più stanno a cuore alla gerarchia cattolica (povertà-reddito di cittadinanza; primato del sacro-apertura festiva dei supermarket; pace-neutralismo tra est e ovest; equità-potere finanziario; giustizia-globalizzazione; difesa della vita-testamento biologico; immigrazione-trattamento dei clandestini; Europa dei popoli-Europa delle banche).

Ne esce una radiografia da cui si cerca a tutti i costi di ricavare un interessante stato di salute del M5S, partendo magari da questioni marginali ma socialmente e religiosamente (?) sensibili (il lavoro domenicale) per staccargli un prematuro ed affrettato certificato di buone intenzioni. Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, pur non tacendo alcune significative incongruenze politiche, arriva ad affermare che il M5S è un interlocutore del mondo cattolico. E fin qui niente di straordinario, trattasi di un dato oggettivo. Ma aggiunge: «Se guardiamo ai grandi temi (dal lavoro alla lotta alla povertà), nei tre quarti dei casi abbiamo la stessa sensibilità». E allora il discorso si fa piuttosto ammiccante e compromettente.

Potrebbe trattarsi della solita manovra scambista e politicamente scorretta: se con Berlusconi si era arrivati alla contestualizzazione delle bestemmie, con Grillo si può ben parlare di contestualizzazione dei “vaffanculo”.

Se la Chiesa vuole giudicare seriamente le forze politiche, deve avere il coraggio di analizzarne approfonditamente le proposte di metodo e di merito, anche se non sarebbe suo compito in una visione laica della politica. Se invece vuol far pesare la sua forza di orientamento elettorale, chiarendo fin dall’inizio che chi vuol governare deve fare i conti con lei, rischia un pericoloso tuffo nel passato remoto e recente.

A Beppe Grillo interessa solo catturare l’attenzione dei delusi della politica: siccome questo senso di sfiducia è certamente molto forte nei cattolici e dal momento che la Chiesa sta recuperando una certa influenza sulla mentalità della gente, la scalata al governo val bene un’intervista pelosa ad Avvenire con tutto quel che ne può seguire. Ma stia attento perché la danza non la condurrà lui e inoltre potrebbe trattarsi della prima vera buccia di banana.

I diversamente democratici

Si tratta di un problema vecchio come il cucco: come ci si deve porre nei confronti di un Paese a regime autoritario, dittatoriale o comunque che non rispetti i canoni fondamentali della democrazia, almeno quelli ritenuti basilari nella nostra concezione.

Si deve puntare al suo isolamento oppure si devono tenere rapporti di dialogo; è meglio rompere ogni e qualsiasi legame o è più giusto, almeno opportuno, mantenere i collegamenti.

Il problema si ripropone, per la verità da parecchio tempo, per quanto concerne i rapporti dell’Unione Europea con la Turchia.   Questo Paese da una parte si è candidato all’ingresso nella Ue, dall’altra ha imboccato una deriva autoritaria sempre più netta e marcata, di cui il recente referendum – tra l’altro celebrato sul filo del rasoio del rispetto della correttezza elettorale e con il preludio di scaramucce diplomatiche con alcuni Paesi europei – segna un ultimo e deciso, se non decisivo, passo.

Credo che i canoni a cui richiamarsi possano essere sostanzialmente due: coerenza e dialogo senza cedimenti. Sul piano della coerenza non ci siamo proprio. Non si può un giorno prendere “ideologicamente” le distanze ed il giorno dopo stringere “opportunisticamente” alleanze, non è corretto e leale distinguere il piano politico da quello economico e militare.

Con la Turchia esistono paradossalmente tre livelli di rapporti: l’adesione alla Ue viene tenuta in frigo e non si ha il coraggio di dichiarare apertamente che, stante la palese e patente violazione dei principi democratici, essa è improcedibile. Si preferisce tenere la Turchia sulla corda: una bacchettata di qua, una carezza di là. Questo atteggiamento piuttosto debole della Ue è dovuto forse anche al fatto che all’interno dell’Unione esistono Paesi che non sono certo stinchi di santo in materia di principi democratici e che minano dall’interno la credibilità europea: l’Ungheria e, per certi versi anche la Polonia, non sono in ordine riguardo ai principi democratici. Nemmeno l’Europa occidentale è esente da tentazioni populiste ed antieuropeiste, per ora solo a livello di intenzioni ellettoralistiche, ma in futuro…

Poi c’è il discorso delle alleanze militari: la Turchia è membro della Nato, anche se flirta a corrente alternata con la Russia e, nei rapporti con il mondo medio-orientale, adotta strane, sguscianti e zigzaganti tattiche.

Viene di seguito il problema dell’immigrazione: ebbene, l’Europa ha stipulato “pragmatici” patti con la Turchia considerandola un’essenziale barriera (non importa con quali metodi) al flusso dei disperati in fuga dalla guerra, dalla fame, dalla tortura. Così facendo ci si è esposti al ricatto turco che affiora continuamente. Fior di miliardi di euro a condizione che da quel fronte non arrivino migliaia di migranti. Il prezzo oltre tutto potrebbe anche aumentare.

Senza considerare i soliti interessi economici di fronte ai quali si piega ogni e qualsiasi intransigenza a livello di principi. A chi fa affari con la Turchia interessano poco le minoranze curde, il pluralismo, la libertà di stampa, la separazione dei poteri, il rispetto della libertà di voto, etc. Si è disposti a chiudere un occhio, forse anche due, pur di concretizzare commesse di lavoro e interessi commerciali. D’altra parte i recenti colloqui tra Donald Trump e il leader cinese hanno dato una clamorosa dimostrazione (se ce n’era ancora bisogno) che i diritti degli uomini vengono ben dopo gli interessi commerciali.

La coerenza si va a far benedire, la credibilità della critica ne soffre vistosamente, il dialogo procede tra impuntature teoriche e cedimenti pratici, assai lontano da lealtà e chiarezza. Aggiungiamoci pure un quadro internazionale estremamente intricato, delicato, complesso e in continuo cambiamento: la Turchia in questo contesto è un elemento di ulteriore grave incertezza. Erdogan gioca su parecchi tavoli con carte più o meno truccate: prima o dopo pagherà il conto, ma intanto crea solo confusione.

Di fronte a questi scenari la politica perde spessore, si ha la sensazione che tutto si giochi a prescindere da essa e dalla democrazia sottostante o sovrastante ad essa. Con gli Usa nelle mani di un antipolitico, con la Russia e la Cina politicamente capaci di tutto, solo l’Europa, pur con tutte le sue debolezze e contraddizioni, può tenere accesa la luce della politica e della democrazia. Responsabilità enorme!

 

Europa tra elogi e rimproveri

«L’Italia oggi è ammirata da tutta l’Europa, salvo che dagli italiani. Non siete abbastanza fieri del vostro Paese. Gli italiani danno sempre l’impressione di essere frustrati, quando in realtà sono dei campioni. (…) L’Italia meriterebbe il Nobel per la pace in considerazione di quello che fa per salvare vite umane nel Mediterraneo». Sono due passaggi di una recente intervista rilasciata dal presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker.

Il forte senso autocritico a livello individuale e collettivo evita certamente di cadere nella presunzione di superiorità molto pericolosa e che a livello nazionale può essere foriera di autentici disastri nei rapporti con gli altri Paesi. La storia passata e presente ce lo insegnano. Al riguardo preferisco l’esagerata e ingiustificata frustrazione italiana all’aria di   sufficienza che pervade l’atteggiamento tedesco e del Nord-Europa.

L’eccesso di auto-disistima anziché funzionare da stimolo al miglioramento può però rappresentare un freno all’impegno ed alla partecipazione e comportare il rischio di crogiolarsi e paralizzarsi nei propri difetti.

Non è comunque il caso di psicanalizzare gli italiani, ma di cercare i punti critici delle nostre difficoltà oggettive che non sono generalizzabili in un gap totale rispetto al resto dell’Europa, ma individuabili in alcune questioni peraltro tra loro strettamente collegate: l’inefficienza della macchina burocratica pubblica, l’evasione fiscale, il fenomeno della corruzione, il divario nord-sud. Il pesante filo causa-effetto di collegamento è il debito pubblico, che zavorra la nostra navigazione.

Nonostante i reiterati tentativi di semplificazione e di modernizzazione, l’apparato burocratico rimane pesante, frenante e condizionante, esposto, nella sua macchinosità e impenetrabilità, al vento della corruzione, farraginosa copertura e comodo alibi per tutti i fenomeni di evasione fiscale e contributiva. Il sostegno al meridione non ottiene risultati apprezzabili anche per effetto della piovra mafiosa che divora gli investimenti e assorbe le spinte imprenditoriali. Tutto si ripercuote sul debito pubblico.

Dice ancora il presidente della Commissione Europea: «Mi rattrista vedere che l’Italia perde competitività di giorno in giorno, di anno in anno. Ci sono riforme strutturali importanti che vanno fatte, sia pure con saggezza. L’Italia deve ritrovare un tasso di crescita che oggi è troppo debole. L’Europa le ha dato spazi che occorre saper sfruttare. La flessibilità ha permesso al Paese un margine di manovra senza che la mannaia del patto di stabilità gli cadesse sul collo. I bassi tassi praticati dalla Bce offrono una tregua di cui deve saper approfittare. Abbiamo apprezzato la riforma del mercato del lavoro. Osservo con simpatia la serietà e gli sforzi con cui il governo Gentiloni affronta la crisi delle banche. Noi vogliamo che il sistema bancario italiano esca più forte e robusto da questa fase difficile. Vedo gli sforzi per correggere i conti pubblici. Se prende le iniziative giuste, l’Italia ha tutti gli strumenti per diventare una forza motrice dell’Europa».

Quando Juncker ci chiede riforme strutturali credo faccia riferimento alle piaghe di cui sopra. Nelle sue parole non vedo acredine. Dopo gli aperti elogi, arrivano i sommessi rimproveri. Impariamo ad ascoltare ed a fare tesoro degli uni e degli altri. Impariamo a stare in Europea, senza architettare impossibili e assurde vie di fuga, senza vittimismi e senza velleitarismi, senza furbizie e senza debolezze, con grande dignità e impegno.

Liturgia o parodia

Qualcuno sostiene che, paradossalmente, coloro che deprecano papa Francesco lo danneggiano quanto coloro che lo esaltano acriticamente. Non faccio parte sicuramente della prima categoria, ma non voglio nemmeno rientrare nella seconda, cioè di quanti personalizzano la riforma della Chiesa, attendendola miracolisticamente e improvvisamente in tutto e per tutto dal Papa, pensando che possa smuovere le montagne della conservazione senza il coinvolgimento metodico di vescovi, sacerdoti, religiosi e laici.

Tuttavia in questi giorni mi viene spontaneo rivolgergli una critica, evidenziare una contraddizione. Ho assistito televisivamente alle liturgie pasquali, che si sono svolte a Roma in San Pietro, dalla messa Crismale, alla celebrazione della Passione, alla Veglia, alla Messa nella Risurrezione.

Il sacro triduo pasquale si è però aperto il Giovedì Santo con la Messa in Coena Domini, celebrata dal Papa tra i detenuti del carcere laziale di Palliano, in provincia di Frosinone, durante la quale Francesco ha lavato i piedi a dodici reclusi, tra cui tre donne, due ergastolani e un musulmano, rivolgendo ai carcerati parole toccanti in un clima affettuoso e famigliare. Giustamente le telecamere non sono state ammesse proprio per non rovinare l’atmosfera ed anche l’omelia non si è potuta mediaticamente ascoltare e nemmeno la si è letta nel testo integrale ma la si è intuita dalle sintesi riportate piuttosto sbrigativamente dai giornali. Sono trapelate, tuttavia e indirettamente, l’intensità e l’autenticità di quella liturgia, calata nella realtà di una casa di pena: il dramma di Cristo inserito pienamente nel dramma umano. La lavanda dei piedi è stata pienamente riscattata dal folclore rituale per diventare segno efficace di comunione con chi soffre realmente.

Questa esperienza di “carnale” partecipazione liturgica è rimasta però un lieve e isolato preludio, una mera parentesi tra i riti celebrati in Vaticano, in S. Pietro, con tutta la loro pesante e ingessante spettacolarizzazione. Tornati precipitosamente e aristocraticamente in basilica, si ha la sensazione di assistere ad assurde messe in scena degne del miglior Franco Zeffirelli: tutto accuratamente predisposto, perfettamente eseguito, professionalmente interpretato, cerimoniosamente (non) vissuto.

Persino l’impareggiabile e densa sciorinata del predicatore pontificio assume i toni della “sviolinata” al sovrano attento e compiaciuto. Anche la Via Crucis al Colosseo finisce col soffrire questa impostazione, austera sì, ma fiacca nei gesti, bella, stimolante ma intellettualoide nei testi.

Dove voglio arrivare? Eccomi! Ho l’ardire di rivolgermi provocatoriamente al Papa: «A quando una ventata di aria fresca anche in questo campo? A quando il licenziamento dell’insopportabile ed impettito maestro di cerimonie, protagonista instancabile di un marcamento papale a uomo? A quando un uso più contenuto della musica sacra che tanto vale e piace? Sembra di assistere ad un concerto di musica sacra inframmezzato da qualche azione teatrale o viceversa.   L’arte e la musica dovrebbero essere al servizio della liturgia e non il contrario. A quando una scenografia più sobria ed essenziale? A quando un minimo di partecipazione del popolo di Dio? Si va ad assistere ad uno spettacolo o si partecipa ad un evento salvifico? Le parole delle omelie papali, sempre così palpitanti, rischiano di perdersi nell’atmosfera artificiosa e rarefatta in cui il pontefice ritorna ad essere un “re” (cattedra di un padre ascoltato dai figli o trono di un re ossequiato dai sudditi?) attorno a cui si svolge una mastodontica parata. Parata o parodia?».

Non insisto. Ho avuto però l’impressione che la “liturgia carceraria” sia stata sommersa e sciolta dalla “liturgia teatrale”. Credo che l’Eucaristia fosse molto più a suo agio, molto più libera, bella e sanguigna in carcere, tra gli ultimi che saranno i primi, che non in basilica, imprigionata nei riti anemici, asettici e pomposi, tra i primi che saranno gli ultimi.

Pasqua di coraggio

Il sentimento popolare e individuale che caratterizza la presente fase storica è la paura. Le nostre scelte di vita rischiano di esserne condizionate a tutti i livelli ed in tutti i sensi. Abbiamo una tremenda paura di non trovare o perdere il lavoro e, prima ancora, di cadere in povertà (a volte si tratta solo di timore per un minore ricchezza): la crisi economica ci allarma, molto probabilmente ci rendiamo conto che non riusciremo più a tornare al benessere di qualche tempo fa, che dovremo, poco o tanto, tirare la cinghia e tutto ciò ci preoccupa e ci inquieta.

Alla paura economica però aggiungiamo quella sociale: abbiamo cioè, per dirla brutalmente, paura degli altri. Un tempo cercavamo nelle altre persone gli interlocutori a livello culturale, i sodali a livello sindacale, i compagni a livello politico. Oggi ci sentiamo drammaticamente soli, ci chiudiamo in difesa, negli altri vediamo solo pericolosi contendenti: questi atteggiamenti trovano la loro egoistica esplosione soprattutto nei confronti dei migranti, percepiti come usurpatori del nostro quieto vivere.

Abbiamo paura della violenza, della delinquenza, del terrorismo. Ci sentiamo insicuri, precari, deboli e soli. Pensiamo di difenderci con i muri, con le armi, con le condanne, con le carceri. Più ci preoccupiamo, più ci isoliamo, più ci chiudiamo in noi stessi e più restiamo attanagliati e paralizzati dalle nostre paure.

A ben pensarci anche i discepoli e gli apostoli di Gesù, di fronte alla “brutta piega” che stava prendendo la vita del Maestro e quindi anche la loro storia, furono presi e dominati dalla paura, dalle paure di cui sopra. Delusi da uno strano Messia che non li rassicurava affatto nei loro problemi, che non dava alcuna prospettiva interessante alle loro ansie di riscatto politico, economico e sociale. Spaventati dal clima conflittuale che si era scatenato intorno a loro, dalla contestazione che stava montando verso il loro capo, dall’estrema incertezza sul loro futuro. Terrorizzati dall’attacco forsennato e violento contro la loro piccola comunità che stava implodendo nel tradimento e nel rinnegamento. Rimasero totalmente spiazzati dagli avvenimenti, scapparono, si chiusero in casa: la paura li aveva sconvolti.

Solo alcune donne ebbero il coraggio di non fuggire, volevano vedere, capire, soffrire assieme al loro leader che le aveva emancipate: gli dovevano un minimo di riconoscenza. Vinsero la paura con la condivisione, fino in fondo, fin sotto la croce, fin verso la tomba. Rischiavano grosso. Pensiamo a Veronica, un personaggio assai plausibile anche se non documentato nei vangeli: si accosta a Gesù che sta salendo al Calvario, piange, lo guarda con dolcezza, gli deterge il viso, la scostano brutalmente, ma lei sa solidarizzare, anche solo con un gesto di pietà verso questo uomo distrutto dalla umiliazione e dalla sofferenza. Furono le prime a rendersi conto della Risurrezione e non furono credute. Non ebbero paura della paura. E noi continuiamo a non credere alle donne e a torturarle…

Mi piace interpretare la Pasqua come la sconfitta della paura, la vittoria del coraggio che si esprime nella solidarietà verso gli altri, nel servizio, nel dono.

O, credenti e non credenti, sapremo recuperare questo senso della vita o rimarremo prigionieri della paura, vittime dei nostri limiti, in balia degli illusionisti.

Auguro quindi una Pasqua di coraggio per vincere le paure, tutte riconducibili, stringi-stringi, a una, quella di morire.

 

Verrà un giorno…, anzi, è già venuto.

In una recentissima intervista al quotidiano la Repubblica papa Francesco ha affermato: «L’ho detto più volte e lo ripeto: la violenza non è la cura per il nostro mondo frantumato. Rispondere alla violenza con la violenza conduce, nella migliore delle ipotesi, a migrazioni forzate e a immani sofferenze, poiché grandi quantità di risorse sono destinate a scopi militari e sottratte alle esigenze quotidiane dei giovani, delle famiglie in difficoltà, degli anziani, dei malati, della grande maggioranza degli abitanti del mondo. Nel peggiore dei casi può portare alla morte, fisica e spirituale, di molti, se non addirittura di tutti». Ogni commento è superfluo.

Il tempo di girare la pagina di giornale e mi sono imbattuto in una incredibile dichiarazione di Donald Trump: «Io e Xi stavamo mangiando una bella torta al cioccolato quando ho ordinato l’attacco alla Siria». Ogni commento è superfluo.

Sempre lo stesso giorno leggo sul quotidiano Avvenire l’intervista a Jared Daimond, scienziato e premio Pulitzer Usa, nella quale questo illustre personaggio esterna le sue riflessioni: «Sto pensando a questo pianeta dal futuro così incerto e sempre più in balia delle decisioni di pochi uomini. Sto pensando al rischio nucleare. Se Trump spingerà un bottone, anche la Cina spingerà un bottone. A una guerra atomica resisteranno gli insetti; ma dei mammiferi non sopravviverà nessuno. Moriranno uomini ed elefanti. Penso spesso a quello che può combinare il presidente americano e confesso di aver paura. Penso che guidare un grande stato non sia esercitarsi su twitter; è qualcosa di enormemente complesso». Ogni commento è superfluo.

Accendo il televisore e su televideo appare una notizia: la leader del Front National, Marine Le Pen, candidata alle elezioni presidenziali francesi, in un intervista al quotidiano La Croix ha detto di essere “estremamente cattolica”, ma al tempo stesso “arrabbiata” con papa Francesco per le sue parole sui migranti. Che il Papa faccia appello “alla carità, all’accoglienza dell’altro, non mi meraviglia”, ma che inviti gli Stati a “non porre condizioni all’accoglienza degli immigrati, può costituire un’interferenza politica”, spiega Le Pen. Ogni commento è superfluo.

Nell’agenda della visita che il presidente Usa farà in occasione del G7 di Taormina (26-27 maggio) non figura la tappa in Vaticano per l’udienza dal Pontefice. Nessuna richiesta è arrivata al Vaticano dallo staff della Casa Bianca. A questa punto mi concedo un breve commento: meglio così, mangi le sue torte, lanci le sue bombe, dica le sue cazzate, si goda le sue ricchezze, prosegua nelle sue follie a suon di muri, pugni di ferro, minacce e blandizie. Continui a prender per i fondelli gli americani che l’hanno votato e quanti nel mondo simpatizzano per lui. Faccia visita a Marine Le Pen, Viktor Orbán e, se vuole rimanere in Italia, a Matteo Salvini e Beppe Grillo. Sappia comunque che, come dice Fra Cristoforo a don Rodrigo nei Promessi sposi, anche per gli uomini (pre)potenti come lui, “verrà un giorno…”. Anzi è già venuto, è la Pasqua di Cristo!

 

Un estremo calcio al calcio

La cessione del Milan ai Cinesi segna la fine di un’epoca negli assetti societari del calcio italiano e non solo italiano. Con Berlusconi il mondo pallonaro era stato adottato dall’alta imprenditoria (?) Fininvest, che ne aveva fatto un elemento strategico della galassia economico-finanziaria ruotante attorno al cavaliere. Era un astro, un pianeta, un satellite? Di tutto un po’. Una stella luccicante attorno a cui ruotavano gli occhi bovini dei tifosi e quindi un formidabile collettore di consenso. Un pianeta ruotante attorno all’astro berlusconiano, inserito perfettamente nel coacervo di interessi dalla pubblicità alla politica, dai media alla finanza, dal mattone al pallone; nello stesso tempo ruotante su se stesso alla megalomane ricerca di un mecenatismo di ultima ed assurda generazione. Un satellite funzionante come dependance, come cortile di lusso in cui far giocare figli, amici e cortigiani: la ciliegiona del calcio parlato, talmente importante e invitante da mettere in second’ordine la torta del calcio giocato .

L’intreccio tra calcio e affari non è stata un’invenzione berlusconiana, viene più da lontano, ma il cavaliere lo ha istituzionalizzato, aggiungendovi da una parte la raccolta del consenso politico e dall’altra uno stretto, scoperto e spudorato legame aziendalistico con le realtà imprenditoriali del gruppo.

Anche se oggi i commentatori vanno leccaculisticamente a gara nel trovare i meriti e i successi di questo lungo sodalizio, enumerando i tanti trofei conquistati, bisogna riconoscere criticamente che si è trattato di una tappa fondamentale e decisiva nel cammino snaturante, deviante e squalificante dello sport in genere e del calcio in particolare. Berlusconi ha tolto al calcio l’ultima parvenza sportiva che gli rimaneva per trasferirlo definitivamente e completamente nel mondo degli affari con tutte le conseguenze del caso.

Forse però è finito anche questo ciclo integrato, che potremmo definire “imprenditoriale”: la crisi economica non consente distrazioni ed eccoci arrivati alla fase puramente “finanziaria e speculativa”, con il calcio ridotto a bene rifugio in cui investire spregiudicatamente grossi capitali provenienti dall’estero, dal capitalismo emergente (Cina) e da quello deviato (Russia), una sorta di mega-forno in cui riciclare i puzzolenti rifiuti finanziari del capitalismo più equivoco se non sporco.

Non riesco a intravedere quale sarà l’impatto sul livello qualitativo e spettacolare dello sport, perché noto una sempre più netta e insanabile frattura tra la proprietà e l’utenza. Forse sta iniziando il calcio estraneo, il calcio “estremo”, dove non c’è nemmeno un posticino in curva per gli appassionati, forse nemmeno più davanti al video; il tifo prezzolato diventerà la regola, gli stadi diventeranno contenitori polifunzionali, lo sport sarà solo un pretesto per ben altri discorsi. Può darsi che si restringa drasticamente il numero degli attori protagonisti (costano troppo, allora pochi ma buoni) e che molta gente che vive ai margini del circo debba cambiare mestiere e questo non sarebbe poi un gran male.

Un mio zio da disincantato osservatore del fenomeno calcio diceva con grande e simpatica ironia: «Vintidu òmmi ca còrra adrè a ‘n balón… mi andrò a veddor il partìdi quand ag sarà vintidu balón ca còrra adrè a ‘n omm…». Ci stiamo per caso avvicinando, in un certo senso, alla fantasiosa e provocatoria ipotesi di mio zio? Con l’aggiunta di un elemento fondamentale: i sòld chi fan còrror tùtti.

Il mostro di Budrio

Guardando le immagini della caccia al bandito Igor, responsabile di crimini orrendi e in disperata ed estrema fuga, mi prende una grande pena per le vittime che ha seminato lungo il suo cammino, assieme a un incontenibile scetticismo per la romanzesca sfida che è stata ingaggiata contro di lui, per il paradossale dispendio di energie e di risorse in questa caccia all’uomo, per l’illusoria consolazione conseguente all’enorme spiegamento di forze impiegate, per la clamorosa ed enfatica dimostrazione di presenza dello Stato.

Da una parte colgo tutta la necessità di assicurare alla giustizia un orrendo criminale, dall’altra vedo l’esagerata mobilitazione per una “piccola” emergenza di ordine pubblico e faccio una riflessione estremamente provocatoria: se tutto questo impegno fosse messo in campo anche per la ricerca dei latitanti mafiosi…Ogni tanto ne viene arrestato uno, che magari viveva in una splendida latitanza da chissà quanti anni.

Mi si dirà che quello di Igor è un fatto straordinario e che una simile mobilitazione non è possibile mantenerla nel tempo, generalizzarla nello spazio, finalizzarla su tutta la criminalità organizzata. Lo capisco benissimo. Però…

Di fronte agli episodi più clamorosi di criminalità continuiamo a reagire su due piani. Vorremmo difenderci da soli, con la copertura totale della legge, con la facile detenzione di armi, con l’inasprimento delle pene carcerarie. Poi ci lasciamo incantare dalle rassicuranti e persino inopportune immagini di centinaia di uomini schierati alla caccia del killer e dalle rasserenanti parole del capo della polizia che garantisce il massimo sforzo. C’è già una forte contraddizione tra i due atteggiamenti.

Se poi allarghiamo la visuale ci accorgiamo che probabilmente stiamo solo focalizzando e ingigantendo un piccolo particolare, facendone un caso emblematico e spettacolare di guerra tra la società e un uomo, che abbiamo eletto ad “affascinante” prototipo di tutti i delinquenti, rischiando tra l’altro di provocare ulteriori vittime in un clima di caccia al mostro di Budrio. Abbiamo bisogno di mostri: servono a materializzare ed esorcizzare le nostre paure.

Con tutto il rispetto possibile per le vittime di Igor e la solidarietà per i loro famigliari, non abbiamo il senso delle dimensioni sociali: il particolare lo adottiamo come generale, mentre il generale ci sfugge e pensiamo di avere sistemato così la società e la coscienza, di risolvere un problema enorme guardandolo col microscopio.

Persino la moglie di Davide Fabbri, il barista ucciso durante il tentativo di rapina, intervistata dopo avere coraggiosamente riaperto il bar, ha manifestato un ammirevole pudore rispetto alla bagarre mediatica scatenatasi intorno all’avvenimento, ma soprattutto un correttissimo distacco dalla mastodontica operazione di polizia avviata per catturare il criminale in fuga. Ha detto quasi con fastidio un “basta” molto eloquente, lasciando intendere di non sentirsi affatto risarcita dalla mobilitazione, ritenendola una semplice cautela per evitare altri episodi ad opera dello stesso soggetto e rinviando giustamente il discorso alla effettiva prevenzione del fenomeno criminalità.

La politica populista, che ci viene incontro e ci liscia il pelo, risponde invece allo sciocco anelito di banalizzare e spettacolarizzare i problemi. Non ho ancora sentito invocare la pena di morte: se continuiamo così, ad incutere terrore, a martellare l’opinione pubblica, a soffiare sul fuoco, lo sbocco deleterio e fuorviante è quasi obbligato.

Le foto di guerra per fare la guerra

Quando ho visto l’ambasciatrice statunitense all’Onu Nikki Haley mostrare al Consiglio di Sicurezza le foto sulla strage in Siria con le armi chimiche ho ricordato immediatamente quella di Colin Powel allora segretario di Stato americano che mostrava   un reperto a dimostrazione della presenza di armi atomiche in Iraq. Allora fu l’inizio di una guerra inutile volta ad abbattere il regime di Sadam Hussein, oggi potrebbe essere l’avvisaglia della virata bellicista   contro il regime di Assad nell’ambito della guerra contro l’Isis.

A volte, nella storia passata e recente, sono state adottate decisioni epocali e drammatiche sulla scorta di elementi falsi (guerra all’Iraq), di ricostruzioni romanzate, di finte battaglie di principio (guerra alla Libia), di menzogne spudorate sciorinate per catturare consenso all’interno del proprio Stato, di questioni democratiche messe in campo per coprire sporchi interessi speculativi. Non dimenticherò mai appunto l’impudenza con cui fu preso in giro il Consiglio di sicurezza dell’Onu con autentiche “patacche spionistiche”: ne nacque una guerra in Iraq con migliaia e migliaia di morti le cui conseguenze stiamo ancora pagando e probabilmente pagheremo per non so quanto tempo.

E che dire del Presidente francese Sarkozy che promosse una guerra, spalleggiato dai soliti guerrafondai inglesi, quella contro Gheddafi, non perché questi fosse un dittatore sanguinario e feroce, non perché la Libia meritasse finalmente un po’ di democrazia, ma perché bisognava puntare su una forte iniziativa internazionale per ricuperare il consenso a livello nazionale: oltretutto non gli bastò nemmeno ad essere confermato presidente.

Si dirà che questa volta l’hanno fatta grossa, che ci sono le prove, che non si può sorvolare, che il sangue dei giusti grida vendetta, che va dato un segnale forte di reazione.

Purtroppo le guerre hanno sempre alla propria base pretesti plausibili, anche piuttosto convincenti, che poi si sgretolano miseramente nel divenire della storia. Talora possono dare persino l’illusione di essere giuste, di poter ripristinare un ordine clamorosamente violato. Ci si continua a cascare: la fretta opportunistica nel voler abbattere certe dittature, magari sostenute e puntellate in precedenza, senza che esistano i presupposti per un cambio effettivo di regime a livello democratico; la sbrigativa vendetta contro violazioni delle regole umanitarie e del diritto internazionale senza considerare le conseguenti reazioni a catena. Sono le più praticate motivazioni a supporto di operazioni belliche che non portano mai a nulla di positivo.

I missili statunitensi contro la base siriana servono solo a Donald Trump per battere un colpo, ma non servono certo a risolvere i problemi del Medio Oriente e del terrorismo islamico. Posso capire una epidermica reazione di consenso: un “basta” gridato a suon di bombe. Ma non è un basta, è solo l’inizio di una serie interminabile di ulteriori brutture e tragedie. Le foto di quei bambini martoriati dal gas nervino in Siria non ci chiedono assurde vendette o ulteriori guerre, ci chiedono solo di tornare ad essere uomini e non di continuare a comportarci da bestie feroci. L’unica arma da usare è quella della diplomazia, non in seconda battuta, ma come prima ed assoluta scelta. Anziché sfruttare le facili motivazioni per fare la guerra (ce ne sono a iosa), bisogna pazientare alla ricerca delle difficili opportunità di pace.