Giudici: zelanti sì, invadenti e confusionari no

Ho sempre avuto una forte attenzione verso l’amministrazione della giustizia. Non avendo potuto iscrivermi alla facoltà di legge (era il periodo in cui esistevano dei rigidi blocchi all’ingresso) e avendo dovuto ripiegare su Economia e Commercio, non mi restò altro da fare se non impegnarmi in modo particolare sui tanti insegnamenti di diritto inseriti nel mio curriculum e ficcare il naso nei processi penali di tribunale e corte d’assise.

Assistendo ad un processo per furto in cui erano imputati alcuni giovani delinquentelli, ebbi la ventura di assistere ad una scena piuttosto insolita. Dopo la lettura della sentenza, che per la verità prevedeva pene piuttosto miti per i colpevoli, il presidente della Corte si rivolse paternamente a questi ragazzi e al freddo linguaggio giuridico aggiunse alcune parole semplici, ironiche, incisive. Cito a senso, ma con una certa precisione dal momento che il fatto mi rimase scolpito nella mente: «Siamo stati clementi, vi siamo venuti in soccorso…mi raccomando, da domani ricominciate a rubare…». Migliore e più efficace ramanzina non poteva essere fatta. La giustizia che diventa educazione.

Me ne sono ricordato in questi giorni di clamorosa, fastidiosa e inquietante invadenza giudiziaria. Un procuratore della Repubblica, competente per territorio, insiste nell’ipotizzare fenomeni affaristici e speculativi a livello di Ong impegnate nel soccorso in mare ai profughi: collusione con gli scafisti e finanziamenti facili. Arriva addirittura a configurare un vero e proprio complotto al fine di destabilizzare il sistema economico dell’Italia.

Sono solito concedere a tutti la buona fede e anche in questo caso non ho elementi per pensare male: tuttavia ritengo, come minimo, che questo magistrato stia agendo con un inopinato eccesso di zelo, voglia contribuire cioè alla lotta alla criminalità lanciando allarmi (della serie “io ve l’ho detto per tempo”) alla politica e a tutte le autorità. Innanzitutto questi interventi a gamba tesa non si fanno sui media, a suon di interviste. Se riteneva in coscienza di dover avvertire le istituzioni competenti, lo poteva fare in altro modo, in via riservata e non sbandierando il possesso di prove extra-giudiziali, insinuando dubbi gravissimi e creando grave confusione, lasciandosi prendere da   smania di protagonismo (è purtroppo un difetto anche di molti suoi autorevoli colleghi).

In secondo luogo un magistrato non è un giornalista, un giallista, un educatore, un sacerdote, un presidente di commissione parlamentare. Fa un altro mestiere. «Non ho prove giudiziarie, ma ho la certezza che mi viene da fonti di conoscenza reale», così dichiara il procuratore di Catania. Di fronte a queste affermazioni non so se essere più preoccupato per la realtà che lui dice di conoscere (tutta da dimostrare) o per la paradossale invadenza di un magistrato nella vita della comunità (io so, ma non posso provarlo).

Non ci siamo! Mi dispiace perché sono sicuro delle rette intenzioni. Il ruolo della magistratura però è un altro. Diamoci tutti una bella e sana regolata. Anche perché stiamo disquisendo sulla pelle di migliaia di poveracci che rischiano e, troppo spesso, perdono la vita tutti i giorni. Anche perché qualcuno è sempre pronto a strumentalizzare ignobilmente le situazioni delicate e difficili.

«Da magistrato ho il preciso dovere di denunciare un gravissimo fenomeno criminale, per arginare il quale la politica deve intervenire tempestivamente»: sono sempre parole del suddetto procuratore della Repubblica. Forse non si rende conto della gravità e dell’assurdità delle sue affermazioni. Disponga indagini di polizia, se è nei suoi poteri. Compia tutti i passi che, come magistrato inquirente, gli sono consentiti. Faccia fino in fondo il proprio dovere. Non crei inutili allarmismi e non squalifichi tutto e tutti. Non cerchi di mettere a posto la sua coscienza, scaricandola sugli altri. Posso capire che, in un momento di confusione di ruoli e di debolezza della politica, un giudice voglia supplire in qualche modo. Grazie, ma basta così. La funzione didattica, educativa, dissuasiva e persuasiva della giustizia deve avvenire in altro modo, con inchieste rigorose e serie, con processi regolari, con tempi ragionevoli e con giudizi provati e motivati.

Mi rivolgo direttamente a questo giudice. Cosa ne direbbe se qualcuno, contraccambiando la solerzia da lei dimostrata, chiedesse al Consiglio Superiore della Magistratura di aprire un fascicolo a suo carico? Mi spiacerebbe molto, ma obiettivamente forse ce ne sarebbero le ragioni. Non succederà, me lo auguro perché continuo ad essere convinto della sua buona fede. Ma adesso, la prego, basta!

 

 

Attenti a quei tre, anzi, a quell’unico candidato

Ho seguito su Sky tg24 l’unico confronto elettorale televisivo tra i candidati alla segreteria del partito democratico: una passerella impostata in modo sbrigativo e superficiale al limite dell’insopportabile. Purtroppo è la politica che si piega alle esigenze televisive e non viceversa. La politica, nonostante tutto, credo sia una cosa seria e non possa essere trattata come un giochetto televisivo. Se la democrazia consuma i suoi riti in questo modo, rischia grosso: ne è uscita infatti un’immagine di partito “ludico”, evanescente e inadeguato. Spero che il congresso nei circoli e il successivo dibattito nei tour dei candidati sia stato più sostanzioso ed approfondito.   Se l’affluenza alle urne delle primarie dipendesse dal dibattito televisivo, temo che sarebbe un flop.

Matteo Renzi può stare tranquillo perché è emersa comunque tutta l’estrema debolezza dei suoi improvvisati competitor: uno nei pressi dell’uscita, un piede dentro e uno fuori dal partito, col piglio fisico e stilistico del buttafuori; l’altro un personaggio tatticamente imbarazzato, un “maddaleno pentito”, un coccodrillone che piange dopo avere condiviso per anni la gestione del partito e soprattutto l’esperienza di governo. Ulteriore dimostrazione che non esiste alternativa seria e credibile alla leadership renziana.

A Renzi è successo tuttavia quel che capita a scuola, quando si è interrogati assieme a compagni impreparati: si viene coinvolti in una brutta figura e si dà comunque l’impressione di non essere all’altezza della situazione. Il governatore di un’importante regione (la Puglia) e il ministro impegnato in un dicastero delicato (Giustizia) hanno mostrato tutta la loro debolezza culturale e politica. È triste ammetterlo, ma Michele Emiliano e Andrea Orlando non sono adeguati al compito a cui aspirano.

Per Matteo Renzi il discorso è diverso: costretto ad uscire dal governo, appare in difficoltà, non riesce più ad esprimere e trasmettere quella freschezza e novità di proposta che ne avevano caratterizzato la prima fase di impegno. Si sta logorando nel tira e molla fra legge elettorale e rapporti con i gruppetti della sinistra, non riesce ad affrancarsi dalla fuffa politica in cui è finito nel post-referendum, fa molta fatica a riprender in mano la situazione, soffre il governo Gentiloni, ha perso smalto e grinta.

La situazione internazionale gli sta dando ragione: la nostalgia per Obama, l’affinità con Macron, la crisi dei partiti tradizionali, la giustezza delle scelte europee, la personalizzazione della politica, la dimostrazione di orgoglio e fiducia verso il proprio Paese, la scelta sviluppista contro i soloni del rigorismo, la capacità di fronteggiare, nel metodo e nel merito, le spinte populiste, etc.

Ciononostante soffre lo splendido isolamento in cui si è imprigionato. Deve riuscire a coniugare la spinta maggioritaria del suo partito col dialogo, non tanto per giochicchiare con i pur seri appelli di Giuliano Pisapia, con i pretenziosi consigli di Romano Prodi, con gli astiosi rimproveri di Enrico Letta e, ancor meno, con le insulse e presuntuose ripicche bersaniane e dalemiane, con i ricattini dello sperduto centro-destra moderato, con gli stucchevoli richiami al recupero del consenso delle periferie sociali, con i nostalgici inviti a rinverdire il passato ideologico, ma per riprendere a tessere una tela di rapporti virtuosi con chiunque abbia qualcosa di serio e duraturo da chiedere e da proporre. Un partito aperto e concretamente innovativo e progressista, consapevole di essere il perno della vita democratica italiana e non solo italiana.

Renzi ha in mano un partito debole, al centro, ma soprattutto in periferia: deve sforzarsi di selezionare ed allargare il gruppo dirigente senza timori di mettersi in discussione e di confrontarsi con esperienze e mondi a lui non perfettamente omogenei. Per usare un’espressione forte e teatrale dovrebbe passare da primadonna a direttore d’orchestra.

La sua normale e inevitabile debolezza culturale può essere ovviata non inasprendo ed enfatizzando i toni, ma collaborando con personaggi diversi e credibili. Il partito democratico non esce rafforzato dal congresso: non è questione di tempi e di modi per la celebrazione dello stesso, come sostengono i criticoni interni ed esterni. Non è nemmeno questione del numero dei votanti alle primarie: certo la partecipazione al voto è un dato positivo, ma non decisivo.

I congressi, ne ho vissuti tanti nella Democrazia cristiana, accentuano la dialettica interna e non bastano a costruire una proposta credibile per l’esterno, per il Paese. Spetta a chi esce vincitore provarci seriamente con il suffragio del maggior consenso possibile democraticamente raccolto.

Volare basso

Me l’aspettavo, ma non ci posso credere. Il no al piano di rilancio di Alitalia da parte dei lavoratori ha per me qualcosa di inspiegabile e di paradossale. Ammetto che nella vita di questa azienda siano stati commessi errori madornali sul piano politico, dal punto di vista gestionale, in campo sindacale. Capisco che accettare grossi sacrifici sul piano economico e della permanenza in azienda possa essere un peso notevole. Tuttavia quando non esistono alternative serie e praticabili, mi hanno insegnato che sia meglio tagliarsi un dito piuttosto che la mano. Qui addirittura ci si è tagliati il braccio.

Ho provato a mettermi nei panni di questi lavoratori incazzatissimi (lo posso capire), sfiduciati (il passato indubbiamente non è incoraggiante), dubbiosi (il piano avrà sicuramente avuto notevoli margini di incertezza). Il governo ha provato a lanciare qualche messaggio positivamente provocatorio: si dice abbia ottenuto l’effetto contrario. I sindacati confederali si sono espressi a favore, seppure con molta fatica: sono stati smentiti alla grande e si sono giocati un po’ di credibilità, non ne era rimasta molta, ora ne hanno ancor meno. Sicuramente altri soggetti avranno tentato di influire sul referendum con argomenti razionali: non hanno sortito alcun effetto.

Qualcuno pensa che abbia giocato la spes ultima dea della nazionalizzazione: messo di fronte al disastro il governo si sarebbe piegato. È una strada impraticabile a tutti gli effetti. Quando un’azienda è in odore di fallimento, nei lavoratori scatta sempre il timore che si tratti di una messa in scena tesa a forzare la situazione e ad ottenere concessioni. Nel caso di Alitalia la situazione era nota da tempo e nella sua drammaticità non poteva essere considerata un giochino al ribasso verso i diritti dei lavoratori.

Qualcuno pensa sia psicologicamente più difficile rinunciare ai privilegi (sicuramente nella compagnia aerea c’è chi ne ha goduto) che rischiare il posto di lavoro (parecchi riusciranno a riciclarsi). Forse non esiste più alcuna solidarietà fra i lavoratori, che in ordine sparso rischiano di andare alla sicura sconfitta.

Le ho pensate tutte e non ci sono saltato fuori. Il fatto mi mette in crisi, di coscienza prima che politica. Non sono fra quanti brutalmente dicono che quando un’azienda deve fallire è meglio lasciarla al proprio destino. Non ho questo cinismo liberista nelle mie vene. Non mi sento neanche di escludere che come comunità nazionale si possa fare qualche ulteriore sacrifico: non accetto questi ultimatum e le chiusure egoistiche che li dettano.

Certo anche le più grosse disponibilità rischiano di infrangersi sulle chiusure di un triste “muoia Alitalia con tutti coloro che l’hanno gestita”. Per provare a risolvere problemi gravi e complicati bisogna volare basso e invece i lavoratori hanno irrazionalmente scelto di volare alto, così alto da andare fuori dalla realtà, così da mettersi in condizione di non aiutarsi e di non farsi aiutare. Una sconfitta in tutto e per tutti.

La pena di morte non ha scadenza

Lo stato dell’Arkansas (Usa) sta facendo una corsa contro il tempo per riuscire ad eseguire alcune condanne a morte (tre già eseguite in questi giorni) prima della scadenza del farmaco utilizzabile allo scopo, che, tra l’altro, provoca inutili, crudeli e inaccettabili sofferenze al condannato.

La vicenda ha parecchi significati. Prima di tutto assume il rilievo di una macabra farsa o di una tragicommedia: la corsa ad eseguire una condanna a morte per futili motivi farmaceutici, quasi che una volta scaduto il farmaco il condannato si dovesse considerare automaticamente graziato.

In secondo luogo abbiamo il persistere di un istituto incivile, quale la pena di morte, nella legislazione di Stati sedicenti democratici: non è un caso che la Corte Suprema degli Usa, dopo la nomina di un giudice scelto da Donald Trump, tramite la quale si è configurata una maggioranza di destra all’interno del massimo organo costituzionale americano (in spregio al principio democratico della separazione dei poteri), abbia sbloccato queste esecuzioni, che da tempo venivano rinviate per motivi giudiziari (riapertura del processo) o per motivi umanitari (sofferenze eccessive provocate dal farmaco letale).

In terzo luogo l’Onu, nonostante battaglie a livello di opinione pubblica mondiale (in prima linea, come sempre, in Italia, i radicali), non è finora riuscito a eliminare questo rimasuglio di autentica disumanità dalle legislazioni di tanti Paesi, anche di quelli considerati democratici secondo i normali e tradizionali canoni.

In quarto luogo la pena di morte viene usata come prova del nove per l’ammissione della Turchia all’Unione Europea. L’aspirante (?) dittatore Erdogan sta infatti proponendo un referendum per la reintroduzione della pena capitale, forse l’ultimo (e nemmeno il peggiore) atto di una sistematica violazione dei principi democratici in quel Paese. Molto bene che l’Europa sia l’unico continente al mondo in cui non si applica la pena di morte. Altrettanto giusto porre questa condizione agli Stati che intendono aderirvi. Non sentiamoci tuttavia troppo a posto in coscienza perché di violazioni ai principi democratici ne compiamo e ne tolleriamo bellamente tutti i giorni.

In quinto luogo guardiamo alla Turchia ed è giusto farlo, ma gli Usa non sono il nostro principale alleato? E non abbiamo nulla da dire? Si penserà che c’è ben altro in ballo con gli Stati Uniti, che il contenzioso è molto più largo, complesso e articolato. Resta il fatto che assistere distrattamente a delle esecuzioni capitali non è il modo migliore per impostare i rapporti con gli alleati americani. Immaginiamoci se a Trump interesserà questo problema? Noi però non proviamo neanche a ricordarglielo. Sono sicuro che a Paolo Gentiloni non sarà passato nell’anticamera del cervello di sollevare questo problema quando è andato a colloquio col Presidente americano alla Casa Bianca. Così come ai suoi predecessori quando si sono incontrati con i predecessori di Trump.

In sesto luogo sono altrettanto sicuro che anche in Italia molti mi direbbero: ma lasciamo perdere, con tutti i problemi che abbiamo… D’altra parte nel nostro Paese non esiste la pena di morte; ma cos’è, se non pena di morte, un sistema carcerario che comporta giornalmente suicidi di detenuti? Ce la caviamo con un’alzata di spalle o forse anche col vomitare, a livello popolare e non solo, sentenze da far accapponare la pelle. Non sarà democratico Erdogan, ma non sentiamoci i primi della classe, perché non li siamo. Né in Europa, né in Italia.

In settimo luogo, se qualcuno non l’avesse capito, sono fermamente e visceralmente contrario alla pena di morte per tutti i motivi possibili e immaginabili. Non c’è realpolitik che tenga, non c’è scusa accampabile, non c’è niente da aggiungere.

Parigi val bene una riforma costituzionale

Tra i commenti sul primo turno delle elezioni presidenziali francesi è spuntata una linea interpretativa trasposta forzosamente in Italia e dai contorni piuttosto paradossali: il panegirico del sistema istituzionale e della legge elettorale transalpina, che ci dovrebbero insegnare qualcosa e magari ispirare una riforma italica.

Mi sono stupito, incuriosito ed irritato. A livello parlamentare la Francia ha un’Assemblea Nazionale eletta con sistema uninominale a doppio turno (Camera bassa) e un Senato eletto dalle regioni, con meno poteri rispetto all’Assemblea. Il tutto però inserito in un assetto semi-presidenziale – il presidente eletto a suffragio universale diretto con sistema uninominale a doppio turno – che prevede molti poteri di governo per il presidente stesso anche se egli non è il capo dell’esecutivo.

Se guardiamo al Senato è tutto molto simile a quanto prevedeva la riforma renziana bocciata dal referendum del 04 dicembre scorso. Se facciamo riferimento alla legge elettorale, il tanto bistrattato “italicum”, svuotato dal ripristino istituzionale e bocciato in parte dalla Corte Costituzionale, tentava di introdurre un premio di maggioranza a doppio turno che si avvicinava, solo un po’, al sistema francese.

Per quanto concerne i poteri presidenziali la riforma non prevedeva alcun rafforzamento né in capo al Presidente della Repubblica, né in capo al Presidente del Consiglio, ciononostante si gridò al golpe sostenendo che si venisse comunque a creare una pericolosa concentrazione di poteri nelle mani del premier (devo ancora capire dove stesse questo pericolo strumentalmente agitato a destra e manca). Pensiamo se si fosse mai pensato di introdurre un semi-presidenzialismo alla francese: per Matteo Renzi ci sarebbe stato non solo un No al referendum, ma il rogo.

Allora? Smettiamola di fare i furbi! Non cerchiamo assurdi parallelismi. Certo il tempo sta dando ragione alla riforma italiana, bocciata pesantemente anche da chi prometteva di farne una alternativa in sei mesi (non riescono nemmeno a trovare uno straccio di legge elettorale con cui andare al voto).

Per quanto riguarda la Francia andiamo adagio ad esaltarne il sistema istituzionale: dopo l’elezione del Presidente della Repubblica i Francesi eleggeranno (11 giugno prossimo) l’Assemblea Nazionale dove si potrebbe formare una maggioranza politicamente non in linea con il vincitore delle presidenziali, dal momento che entrambi i pretendenti sono estranei al tradizionale gioco partitico (socialisti-gollisti). Si potrebbe creare un corto circuito tra Presidenza e Parlamento con effetti negativi sulla governabilità e stabilità del Paese. Mi auguro che vinca Macron e che possa contare su una solida maggioranza parlamentare di cui sia il riferimento e non l’ostaggio. L’ipotesi Le Pen non la prendo neanche in considerazione per scaramanzia. Staremo a vedere.

Infine due piccole riflessioni sul risultato elettorale del primo turno francese. Socialmente parlando si conferma una nuova configurazione sociale del voto popolare: da una parte le campagne e le periferie orientate all’antisistema di destra o di sinistra e ad una società chiusa e ripiegata su se stessa, dall’altra le città con l’elettorato alle prese con una società aperta, europeistica, multiculturale. È una tendenza già emersa con la brexit e con l’elezione di Trump. Operai, contadini, quelli che un tempo si chiamavano proletariato, sono alla disorientata ricerca di uno Stato protettivo e difensivo e non lo trovano nel riformismo, ma pensando di capovolgere il sistema e le elite che lo guidano, inseguendo cioè chi abbaia alla luna.

Di conseguenza la destra e la sinistra, non uguali fra di loro ma moderate, lasciano campo alle formazioni estremiste, per le quali non conta includere ma escludere, per le quali non servono alleanze e amicizie ma scontro e inimicizie. La dice lunga il neutralismo di Mélenchon al secondo turno: all’estrema sinistra fa più gioco un potere in mano alla destra estrema con cui combattere a viso aperto e mani nude, piuttosto che un potere moderato con cui dialogare. Il vizio storico della sinistra di cui si intravede qualche massimalistica eco nell’Italia dell’antirenzismo.

La scelta imprescindibile dell’antifascismo

Nel periodo   in cui mio padre lavorava da imbianchino come lavoratore dipendente si trovò ad eseguire un lavoro del tutto particolare, scrivere sui muri, a caratteri cubitali, motti   propagandistici fascisti (“ vincere”, “chi si ferma è perduto” e roba del genere).

Al geometra che sovrintendeva, ad un certo punto, tra il serio ed il faceto disse: “ Quand è ch’a gh’dèmma ‘na màn ‘d bianch? “.   “Beh”, rispose in modo burocratico, “ per adesso andiamo avanti così, poi se ne parlerà. A proposito cosa dice la gente che passa?” Era forse un timido ed innocuo invito ad una sorta di delazione ma mio padre, furbamente, non ci cascò ed aggiunse: “Ch’al s’ mètta ‘na tuta e ch’al faga fénta ‘d njent e ‘l nin sentirà dil béli “ . La zona era infatti quella del Naviglio, autentico covo di antifascismo e papà mi raccontò come, tutti quelli che passavano di lì, uomini, donne e bambini le sparassero grosse anche contro di lui, senza tener conto del famoso detto “ambasciator non porta pena”.

Mio padre, prima e più che in senso politico, era un antifascista in senso culturale ed etico: non accettava imposizioni, non sopportava il sopruso, non vendeva il cervello all’ammasso, ragionava con la sua testa, era uno scettico di natura, aveva forse inconsapevolmente qualche pulsione anarchica, detestava la violenza. Ce n’è abbastanza? D’altra parte era nato e vissuto in oltretorrente (come del resto anch’io e me ne vanto): il rione dove si respirava la politica, dove i borghi, gli angoli, gli androni delle case parlavano di antifascismo, dove la gente aveva eretto le barricate contro la prepotenza del fascismo.

Mi raccontava come esistesse un popolano del quartiere (più provocatore che matto) che   era solito entrare nei locali ed urlare una propaganda contro corrente del tipo: «E’ morto il fascismo! La morte del Duce! Basta con le balle!». Lo stesso popolano dell’oltretorrente che aveva improvvisato un comizio ai piedi del monumento a Filippo Corridoni (ripiegato all’indietro in quanto colpito a morte in battaglia), interpretando provocatoriamente la postura nel senso che Corridoni non volesse vedere i misfatti del fascismo e di Mussolini, suo vecchio compagno di battaglie socialiste ed intervistate: quel semplice uomo del popolo, oltre che avere un coraggio da leone, conosceva la storia ed usava molto bene l’arte della polemica e della satira. Ci voleva del fegato ad esprimersi in quel modo, in un mondo dove, mi diceva mio padre, non potevi fidarti di nessuno, perché i muri avevano le orecchie.

Ricordo che, per sintetizzarmi in poche parole l’aria che tirava durante il fascismo, per delineare con estrema semplicità, ma con altrettanta incisività, il quadro che regnava a livello informativo, mi diceva: se si accendeva la radio “Benito Mussolini ha detto che….”, se si andava al cinema con i filmati luce “il capo del governo ha inaugurato….”, se si leggeva il giornale “il Duce ha dichiarato che…”.

Del fascismo mi forniva questa lettura di base, tutt’altro che dotta, ma fatta di vita vissuta. Era sufficiente trovare in tasca ad un antifascista un elenco di nomi (nel caso erano i sottoscrittori di una colletta per una corona di fiori in onore di un amico defunto) per innescare una retata di controlli, interrogatori, arresti, pestaggi. Bastava trovarsi a passare in un borgo, dove era stata frettolosamente apposta sul muro una scritta contro il regime, per essere costretti, da un gruppo di camicie nere, a ripulirla con il proprio soprabito (non c’era verso di spiegare la propria estraneità al fatto , la prepotenza voleva così): i graffitari di oggi sarebbero ben serviti, ma se, per tenere puliti i muri, qualcuno fosse mai disposto a cose simili, diventerei graffitaro anch’io.

Ho voluto ricordare l’antifascismo attraverso le testimonianze paterne per due motivi. Innanzitutto in quanto l’antifascismo era parte integrante e fondamentale della vita di mio padre e della mia famiglia, a livello etico, culturale, storico, esperienziale, umano prima che politico.

Ricordo i rari colloqui tra i miei genitori in materia politica: tra mio padre antifascista a livello culturale prima e più che a livello politico e mia madre, donna pragmatica, generosa all’inverosimile, tollerante con tutti. «Al Duce, diceva mia madre con una certa simpatica superficialità, la fat ànca dil cosi giusti…». «Lassema stär, rispondeva mio padre dall’alto del suo antifascismo, quand la pianta lé maleda in til ravizi a ghé pòch da fär…». Poi si lasciava andare a sintetizzare la parabola storica di Benito Mussolini, usando questa colorita immagine: «L’ha pisè contra vént…».

In secondo luogo perché resistenza (nel cuore e nel cervello), costituzione (alla mano), repubblica (nell’urna) impongono una scelta di campo imprescindibile e indiscutibile: sull’antifascismo non si può scherzare anche se qualcuno tra revisionismo, autocritiche, pacificazione, colpi di spugna rischia grosso, voltando disinvoltamente una pagina irrinunciabile di storia sempre attuale, non capendo che coi vuoti di memoria occorre stare molto e poi molto attenti e che (come direbbe mio padre) “in do s’ ghé ste a s’ ghe pól tornär“.

 

Per essere europeisti bisogna essere…Draghi

Siamo colposamente abituati a leggere la storia con gli occhiali deformanti dell’attualità: vale per il passato e per il futuro. Enfatizziamo gli eventi politici del momento assegnando ad essi un significato ed una portata tali da segnare irrimediabilmente la storia degli anni a venire.

La brexit è stata e viene vissuta come una irreversibile sconfitta dell’unità europea; la vittoria di Trump alle elezioni americane come la fine della globalizzazione; l’esito delle elezioni presidenziali francesi come un passaggio decisivo nel processo di unificazione europeo. Non si tratta certamente di eventi marginali, ma nemmeno di questioni decisive.

Così come non credo che l’esito delle elezioni francesi non sia determinato dall’attentato più o meno terroristico e più o meno islamico ai Campi Elisi, ritengo che il risultato elettorale, qualunque sia, non sarà decisivo per il futuro dell’Europa.

Non per il gusto di andare contro corrente, ma se prevarrà un candidato antieuropeista non è detto che si scatenino a livello continentale tutte le pulsioni nazionaliste o sovraniste; potrebbe trattarsi anche di uno choc benefico tale da accelerare il percorso unitario, rivedendo magari quel paralizzante status quo che sembra imbalsamare la Ue imprigionandola in burocratici meccanismi di conservazione; in senso inverso l’affermazione di un Presidente francese europeista potrebbe paradossalmente comportare un rilassamento nelle istituzioni europee tale da sclerotizzare i meccanismi di crescita e di integrazione ulteriore.

Non diamo a Marine Le Pen il carisma e il potere che non ha, vale a dire quello di interrompere o invertire il corso della storia europea; non assegnerei neanche a Emmanuel Macron, pur con tutta la fiducia e simpatia che mi ispira, il ruolo di difensore e sviluppatore dell’Unione Europea. Andiamo adagio. Come nella vita individuale, anche nella vita sociale e politica basta poco per smentire le facili e drammatiche previsioni.

Restando al discorso europeo bisogna convincersi innanzitutto che non ha alternative e che le proposte antieuropee scontano un pressappochismo ed un velleitarismo immediatamente implodenti. Non c’è spazio per fughe all’indietro. La strada è obbligata. C’è modo e modo di percorrerla: qui stanno le questioni serie e qui si gioca il futuro. Sono ridicole le sparate referendarie dei Salvini, dei Grillo e di personaggi italiani e di altri Stati europei.

Perché l’europeismo segna il passo nella mentalità dei cittadini? Perché cammina sulle gambe della classe dirigente e, se questa non è credibile, si aprono praterie per le battaglie strumentali dei disfattisti e dei fascisti vecchi e nuovi.

Quante volte ho sentito ripetere il ritornello lamentoso verso lo strapotere regionale ai danni di Parma: in Emilia-Romagna non contiamo niente, siamo tagliati fuori, veniamo trattati come parenti ricchi e indesiderati…

In parte era ed è la verità, ma soprattutto per colpa nostra perché non abbiamo mai saputo esprimere ai vari livelli e nei diversi settori una classe dirigente all’altezza del compito e spendibile in sede regionale. Laddove non si è autorevolmente presenti diventa impossibile pesare nelle decisioni, si prende quel che arriva e si tace.

Quando ebbi l’occasione, per motivi professionali, di partecipare direttamente e di introdurmi, modestamente ma fattivamente, nell’establishment regionale, capii ancor meglio la situazione e riuscii faticosamente a inserirmi nei meccanismi decisionali nella misura in cui portai un contributo all’altezza del compito che mi era stato assegnato: non contavo in quanto parmigiano, ma se e in quanto sapevo fare il mio mestiere. Di conseguenza ne beneficiava la mia provincia di provenienza e di appartenenza. A chi si intestardiva ad accusare reggiani e modenesi di prevaricazione ero costretto e rispondere: può darsi, ma loro ci sono, noi no! Gli assenti hanno sempre torto.

Questa situazione, a mio avviso, si verifica anche nei rapporti tra Italia e Unione Europea. Faccio tre esempi. All’Italia è spettato di ricoprire l’incarico di Alto rappresentante per la politica estera abbinato ad una vice-presidenza della Commissione. Si dirà: ma il ministro degli esteri europeo non conta nulla dal momento che ogni Stato fa la sua politica estera e l’Unione non riesce a presentarsi con una voce unica. Anche questo è vero, però Federica Mogherini, pur con tutto il rispetto e la simpatia che provo nei suoi confronti, mi sembra “debolina”. Se alla “leggerezza” della carica aggiungiamo la “debolezza” dell’incaricato…Le occasioni di sedersi a certi tavoli internazionali non mancano, la possibilità di far pesare l’opinione e la visione italiana è notevole. Allora forza e coraggio. Se ci siamo, battiamo un colpo e lasciamo da parte le lamentazioni.

Da qualche giorno abbiamo un italiano alla presidenza del Parlamento Europeo, Antonio Tajani, non è uno scherzo. Presiedere questa istituzione democraticamente rappresentativa è non solo prestigioso, ma influente e importante anche per il nostro Paese. Sarà una “gabbia di matti”, un’assemblea pletorica ed afunzionale, un organismo con scarsi poteri: tutto vero. Ma se ci siamo, battiamo un colpo. Staremo a vedere…

La dimostrazione di quanto vado sostenendo la incarna Mario Draghi. È vero che la BCE è una istituzione di forte peso economico e politico, ma avere un italiano di grande e indiscutibile competenza, di idee aperte, convinto europeista, banchiere integerrimo, ci consente di avvalerci di una corretta sponda e di essere autorevolmente in prima linea dove si decidono i destini del nostro continente. Non manca la contestazione nei suoi confronti, non gli vengono risparmiate critiche anche per il solo fatto di essere italiano e sud-europeo, ma la sua competenza e la sua visione prevalgono. Cosa sarebbero l’Europa e l’Italia se in questi anni Mario Draghi non avesse presieduto la BCE?

Permettetemi di ritenere che il futuro europeo dipenda molto più dalla competenza, dall’equilibrio e dalla serietà di Mario Draghi che dalla demagogia da quattro soldi di Marine Le Pen.

La politica cammina sulle gambe degli uomini. Le elezioni e le istituzioni contano, ma conta soprattutto chi vive le realtà dal di dentro e nel tempo.

 

 

 

Il taxi di Grillo e quello di Tarquinio

Ho ereditato da mio padre un forte spirito critico al limite dello scetticismo di stampo quasi anarchico e quindi ho imparato a non fidarmi delle apparenze, a giudicare dopo avere approfondito e scandagliato le situazioni, a leggere in chiave anticonformista gli accadimenti e le vicende.

Non mi scandalizzo e non mi stupisco perciò se in sede politica il dibattito si fa serrato e spigoloso, non sono un osservante del politicamente corretto, amo le provocazioni. Quando però la critica è aprioristica, la polemica è pregiudiziale, il retroscenismo diventa la regola, l’interpretazione dei fatti risponde all’ideologia, non ci sto più al gioco. Era il difetto storico dei comunisti, sta diventando la caratteristica dei “grillisti” (mi piace definirli così proprio per marcare la somiglianza con i comunisti, i quali però sapevano anche fare scelte politiche, cosa assolutamente vietata ai cinque stelle).

Il movimento è partito da Beppe Grillo, dietro di lui continua a non esserci niente (la combriccola dei replicanti alla Di Maio non merita alcuna seria attenzione), ma purtroppo tra il carisma (?) di Grillo e la gente si è instaurata una sorta di schema per cui lui ha sempre ragione a prescindere, in quanto dietro ad ogni questione c’è del marcio e solo lui è capace di dirlo, salvo non essere capace di dimostrarlo (l’importante è dirlo, dimostrarlo non serve…) e di affrontarlo (lo deve fare chi comanda, anche se, quando loro comandano, non lo sanno fare).

L’ultimo esempio è l’attacco ai soccorsi in mare agli immigrati con i taxi del Mediterraneo: dietro le organizzazioni umanitarie, impegnate nel salvataggio di persone che fuggono disperatamente da fame e guerra, ci sarebbe l’affarismo. Ecco lo schema: l’altra faccia della realtà garantita sempre e comunque da Grillo che la sa lunga. Tutti stupidi, tutti ladri, tutti corrotti, tutti in mala fede. Il vangelo secondo Grillo. Se Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, nel fare il suo incauto e inspiegabile assist al M5S, voleva dire che fra dogmatici ci si può intendere, aveva ragione. Se dai dogmi o dai principi astratti scendiamo nella realtà il discorso cambia. Tarquinio, dove collocherebbe infatti questo approccio cinico, altalenante e disumanizzante di Grillo all’immigrazione? Nei tre quarti di omogeneità o nel quarto di diversità rispetto al sentire del mondo cattolico?

Beppe Grillo sembra fare sul serio e dalla sua continua smerdata tende a preservare la Chiesa: tra Chiesa e Chiesetta ci si intende. Nel suo mirino sono entrati i radicali: «Dove ci sono disgrazie ci sono loro, referendum per morire, per divorziare (che è comunque una fine), per uccidere o per aiutare a uccidersi (…) La loro ideologia è la fine, si tirano un po’ su con le coppie di fatto e i matrimoni gay, ma con gli uteri in affitto si finisce di nuovo nel truculento». Sciocchezze simili era da tempo che non si ascoltavano, ma forse saranno musica per le stucchevoli battaglie medievali di Avvenire. Bisogna lasciare a Marco Tarquinio il tempo di pulirsi la scarpa, può capitare e dicono addirittura che porti fortuna, nel caso in questione non saprei a chi. Fatto sta che proprio ieri papa Francesco ha rivolto l’ennesimo appassionato appello a favore dei rifugiati e dell’accoglienza senza se e senza ma, proprio mentre Grillo (o il suo ventriloquo) bacchettava e beffeggiava le ong impegnate in tal senso. La contabilità tarquiniana rischia di andare in tilt. Fosse solo questo il pericolo…Il problema è che va in tilt la politica dietro le cavolate organiche e quotidiane di Grillo. I cattolici recitano “dacci oggi il nostro pane quotidiano”; molti italiani, cattolici e non, supplicano”dacci oggi la nostra cazzata quotidiana”. Gli interlocutori di queste preghiere sono diversi, a parere di Tarquinio, solo per un quarto.

 

Il lavoro non è un sogno

Quando osservavo dall’esterno frotte di ragazze frequentanti la facoltà di psicologia, mi chiedevo: quali prospettive serie di lavoro hanno queste giovani affascinate dall’invadente ruolo di questa disciplina negli assetti della società moderna? È vero che stiamo diventando tutti matti e che dello psicologo avremo sempre più bisogno, ma non al punto da assumerne uno per ogni famiglia o per ogni condominio o per ogni impresa o ente e via dicendo.

Nelle scelte dell’indirizzo scolastico c’è qualcosa che non va. Domina ancora un malcelato senso di rivincita dei genitori, i quali tendono a spingere i propri figli su percorsi più di riscatto sociale che di preparazione professionale. Prevale nei giovani la smania di omologarsi più alla società mediatica che a quella reale, inseguendo profili culturali e figure professionali campati in aria o inflazionati. Prosegue nell’impostazione scolastica lo storico privilegio assegnato all’indirizzo classico: la cultura viene di lì, siamo d’accordo, però fin dalla più tenera età bisogna sapere che cultura non vuol dire solo erudizione, ma anche modo di porsi di fronte alla realtà e quindi coniugare la formazione umanistica con il respiro tecnico-scientifico che prepara e alimenta gran parte degli sbocchi professionali.

«Non abbiamo bisogno solo di computer, ma di braccia. Ci mancano periti industriali, siamo in strutturale difetto di offerta», così afferma l’amministratore delegato di Philip Morris Italia, che ha appena investito mezzo miliardo per costruire una nuova fabbrica a Crespellano in quel di Bologna.

Gli industriali di questa zona prendono dolorosamente atto che dagli istituti tecnici bolognesi escono 280 diplomati l’anno, mentre le aziende del territorio ne cercano almeno 1.500: un dato sconvolgente a fronte del quale bisogna riflettere seriamente, perché se la crisi economica comporta disoccupazione giovanile, forse alla disoccupazione contribuiscono anche scelte sbagliate di altro livello.

Ho letto in questi giorni il parere del preside di un importante istituto tecnico e l’accorato appello della responsabile risorse umane di un importante azienda che sta crescendo, facendo investimenti, cerca personale tecnico e non lo trova.

Emergono alcuni interessanti rilievi critici. Innanzitutto viene stigmatizzata la spinta alla liceizzazione dell’istruzione superiore, l’indebolimento degli istituti professionali e dei programmi degli istituti tecnici, il non puntare sull’istruzione tecnica con più ore di laboratorio, più inglese, più informatica e più matematica. Il discorso dell’alternanza scuola-lavoro può essere di aiuto, ma solo se a monte riacquista piena e crescente dignità la scuola tecnico-professionale.

Conseguentemente non funziona a dovere l’orientamento scolastico e la programmazione si adagia sulle richieste delle famiglie, invece di insistere confortando le scelte e rendendole consapevoli, offrendo percorsi formativi forti a fronte di importanti domande di lavoro. Si rincorre invece un mondo virtuale di cui si rischia di rimanere prigionieri per tutta la vita.

Poi rimane ancora una differenza abissale tra quello che i ragazzi studiano e quello che serve alle aziende, per cui la formazione si trasferisce in azienda con investimenti sui giovani che vengono inseriti.

Non penso si debba programmare il futuro dei propri figli prendendo per oro colato le tabelle occupazionali dell’industria e dei servizi, ma nemmeno aprendo e leggendo il libro dei sogni.

Mi viene spontaneo rispolverare la concretezza ed il buon senso con cui mi orientarono i miei genitori. Ascoltarono con deferenza il consiglio degli insegnanti, ma seppero tenere conto, oltre che delle mie propensioni, anche delle loro limitate disponibilità economiche e della valenza professionale della scelta. A volte un sacrificio ed un ripiegamento   possono tarpare le ali, più spesso imprimono concretezza e possibilità di lavoro. La scuola è un fondamentale preludio, ma se l’opera rischia di fermarsi al pur entusiasmante preludio, non si va avanti.

Le pataccate anti-terroriste

Ho da sempre pensato che le forze di polizia sappiano tutto di tutti: argomento inquietante sul piano del rispetto delle libertà democratiche e della privacy. Si spererebbe che almeno questa schedatura servisse per la lotta alla delinquenza, per la difesa dell’ordine pubblico e, volendo dirla con un’espressione molto in voga, per garantire la sicurezza.

Nutro seri dubbi sulla capacità di utilizzare questi dati. Se mi sbagliassi, avremmo infatti ottenuto risultati apprezzabili nella lotta alla mafia, allo sfruttamento della prostituzione, allo spaccio di stupefacenti. Invece brancoliamo nel buio o tolleriamo il buio (ipotesi piuttosto plausibile) per paura, inerzia, omertà, inettitudine, debolezza.

Il discorso torna di grande e drammatica attualità in materia di terrorismo islamico. Dopo ogni attentato eseguito nei Paesi Europei, ultimo in ordine di tempo quello ai Campi Elisi alla vigilia delle elezioni presidenziali francesi, si viene a sapere che gli esecutori materiali e i loro complici erano da tempo inseriti negli elenchi elaborati dall’intelligence e quindi a disposizione delle forze di polizia. Si tratta cioè di soggetti   attenzionati in quanto radicalizzati a livello dell’islamismo più feroce e combattente, propagandisti della guerra   contro l’occidente, in poche parole potenziali terroristi. E allora?

I casi possono essere tanti. Forse i nominativi sono troppi e non si possono controllare tutti. Si tratta probabilmente di migliaia di persone uscite da una generalizzata scrematura: seguirli tutti significherebbe impiegare mezzi e risorse esagerate. La cautela oltretutto impone di non fare di ogni erba un fascio. Magari in questi elenchi ci sono soggetti che col terrorismo c’entrano come i cavoli a merenda.

Posso essere malizioso? Non vorrei fossero elenchi pletorici in cui c’è dentro di tutto e quindi oggettivamente inutilizzabili. Se è così, a cosa servono? Si finisce col sopportare gente che va dentro e fuori dalla galera, che frequenta moschee a destra e manca, che viaggia indisturbata, che ha tutto il tempo per organizzarsi ed attrezzarsi.

Può darsi che in molti casi queste segnalazioni abbiano funzionato e siano servite direttamente o indirettamente a parare colpi terroristici, a sventare attentati: mi auguro sia così, perché diversamente si tratterebbe veramente di schedature-patacca.

Quando si parla di lotta al terrorismo giustamente si va a finire proprio lì. Se da una parte si ritiene che non sia possibile scatenare una guerra (è quanto vorrebbero i terroristi), instaurare regimi polizieschi ed antidemocratici (sarebbe dargliela vinta), bloccare i flussi migratori (gli immigrati non sono certo tutti terroristi e poi i muri oltre che essere eticamente spaventosi, sono concretamente inutili, servono solo a dare fumo negli occhi), dall’altra parte si punta all’aiuto verso gli Stati da cui provengono i disperati, ad una politica seria di integrazione degli immigrati e ad una azione di intelligence che prevenga e combatta il terrorismo serpeggiante nelle nostre società. Non c’ alternativa!

Poi si scopre che i servizi dei vari Paesi non collaborano   fra di loro, che vengono commesse strane ingenuità, che si conoscevano nomi e cognomi. So benissimo che si lavora nel difficile. Tuttavia forse sarà il caso di darsi una mossa invece di piangere sul latte versato o di pretendere di eliminare il latte. Questi comportamenti “leggeri” finiscono col portare acqua al mulino dei razzisti, dei populisti, dei nazionalisti, pronti a cavalcare la paura e ad illudere di avere in mano le ricette giuste, che non esistono.

Termino questa riflessione col veleno nella coda: come mai siamo così spietati ed efficienti quando si tratta di colpire i no-global (ogni riferimento alle “macellerie genovesi” è puramente casuale) e siamo così titubanti e disorganizzati contro i potenziali terroristi?