I manichini e i manichei

C’è voluto l’ONU per indurre la FIGC a revocare la vomitevole squalifica comminata al calciatore   Sulley Muntari, reo di avere vivacemente protestato con l’arbitro per le offese razziste piovute insistentemente su di lui dagli spalti.

A distanza di pochi giorni, manco a farlo apposta, c’è stata una macabra esposizione di manichini con le maglie e i nomi di alcuni giocatori, impiccati sotto uno striscione che diceva : “Un consiglio senza offesa: dormite con la luce accesa!”.

Non ho scritto volutamente la sede di questi episodi, perché credo siano purtroppo “generalizzabili” a tutto il territorio nazionale. Alla paradossale sottovalutazione dell’episodio di razzismo, forse dovuta anche al fatto che riguardava un giocatore di una squadra poco blasonata e addirittura retrocessa in serie B con largo anticipo sulla fine del campionato, ha fatto da contraltare la scandalizzata reazione all’episodio dei manichini, forse dovuta anche al fatto che la maglia dei manichini era quella di una squadra importante di una città altrettanto importante.

I Ponzio Pilato sono venuti finalmente allo scoperto e i coccodrilli hanno cominciato a piangere. Non so se sia più deplorevole insultare per il colore della pelle un calciatore in carne ed ossa o alludere verbalmente e genericamente a violente esecuzioni sommarie per i nemici della squadra avversaria. Gli addetti ai lavori hanno cominciato il loro rosario di lamentazioni, ostentando sorpresa, incredulità, condanna e scandalo. Meglio questo del silenzio omertoso.

Tuttavia giocatori, allenatori, dirigenti e giornalisti dovrebbero farsi un bell’esame di coscienza: se arriviamo a questi eccessi non è solo per colpa della società, ma delle società (intendo quelle calcistiche) le quali vezzeggiano questi delinquenti, che fanno loro comodo, cassa, scena, sostegno. Il mondo del calcio è inquinato profondamente a tutti i livelli e allora non si può pretendere che i tifosi più accesi si comportino lealmente.

Se il dirigente trucca i bilanci, non paga le tasse, concede assurdi cachet ai giocatori; se l’allenatore si atteggia a deus ex machina e spara stronzate a raffica; se i calciatori si danno arie da salvatori della patria, simulano, scommettono, si fanno pagare in nero, aizzano il pubblico col loro comportamento; se gli arbitri sono direttamente o indirettamente invischiati nei giochi di potere; se i media gonfiano a dismisura gli avvenimenti calcistici   fino a farne una questione di vita o di morte; se tutto assomiglia sempre più ad un carrozzone dove succede tutto e il contrario di tutto e dove l’illegalità e la scorrettezza dilagano; se la violenza negli stadi e nelle immediate vicinanze è la costante delle partite più importanti; se agli ultras viene riconosciuto un ruolo istituzionale con tanto di incontri con giocatori e dirigenza; se gli scandali, dalle scommesse al doping, alle partite truccate, sono la cifra eloquente di un fenomeno che sta degenerando e che non ha più il benché minimo valore e significato sportivo; se tutto questo è vero, è perfettamente inutile piangere sul latte versato o ritenere che la responsabilità sia da ascrivere ai mali della società in generale.

Ognuno cominci a fare seriamente il proprio dovere, senza giocare a scarica-barile e forse qualcosa cambierà. Personalmente questa partita l’ho data persa da tempo, dal calcio mi sono allontanato. Le rare volte che mi lascio coinvolgere, dopo alcuni minuti mi chiedo: cosa sto facendo? Forse sto perdendo tempo o magari sto portando acqua al mulino col rischio di infarinarmi? Spengo il televisore e, se è sera, vado a letto, se è giorno, leggo (evitando scrupolosamente le pagine sportive dei giornali).

 

Beghe di frati

Quando l’esercizio del potere giudiziario si rende invadente rispetto allo spazio proprio della politica deve giustamente suonare un allarme, perché la rigorosa divisione dei poteri è un caposaldo della democrazia. Niente da dire invece, anzi ben venga, quando in assenza di normativa specifica, la magistratura è costretta ad intervenire facendo riferimento ai principi costituzionali ed a quelli generali del diritto vigenti a livello europeo ed internazionale.

Così è recentemente successo quando i pm milanesi hanno richiesto l’archiviazione per Marco Cappato, tesoriere della fondazione Luca Coscioni, esponente del partito radicale, persona da tempo impegnata nella difesa dei diritti civili, il quale era imputato di avere favorito il suicidio assistito di Fabiano Antoniani, accompagnandolo in Svizzera per mettere fine ad una esistenza atrocemente sofferta senza alcuna prospettiva.

Il ragionamento dei pm (Costituzione, sentenze della Corte Europea, sentenze della Corte di Cassazione alla mano) si basa sul principio che il diritto alla vita va bilanciato con quello alla dignità umana e quindi che “la condotta di colui che rifiuta una terapia salvavita costituisce esercizio di un diritto soggettivo riconosciuto in ottemperanza al divieto di trattamenti sanitari coatti, sancito dalla Costituzione”.

In poche parole, quando una persona è tenuta artificialmente in uno stato di “non vita” o meglio di vita non dignitosa e quindi umanamente non sopportabile (nel caso di Antoniani si trattava di vivere in un letto, senza vista e sopportando dolori atroci), è ammessa la decisione di rifiutare certi trattamenti e di lasciarsi sostanzialmente morire. Non è conseguentemente punibile chi aiuta o chi agevola in qualche modo l’ammalato ad uscire dal tunnel, dalla “notte senza fine” come l’aveva eloquentemente definita l’interessato.

Apriti cielo. Di fronte ad un ragionamento giuridico razionalmente inattaccabile è partito il fuoco di fila, per la verità sempre più fatuo, dei difensori d’ufficio della sacralità della vita, sbandierando il pericolo dello sconfinamento nell’eutanasia e addirittura quello della cinica volontà di risparmiare soldi rottamando i malati terminali.

Se ci facciamo condizionare dai pericoli economici, si sappia che l’ultimo dubbio di cui sopra può essere facilmente rovesciato sul rischio che esistano interessi farmaceutici e sanitari a tenere forzosamente in vita persone in condizioni inumane. Ma direi di evitare queste macabre e assurde dietrologie per andare al sodo.

Quando si scende sul piano dogmatico, peraltro condizionati da astratti e fuorvianti principi religiosi (con i quali la fede ha poco o niente a vedere), si arriva a voler tracciare confini tra suicidio assistito ed eutanasia: disquisizioni teoriche sulla pelle di persone che non difendono un loro capriccio, ma chiedono il riconoscimento del diritto di uscire dalla loro disperazione per chiudere dignitosamente la loro esistenza.

Rifiuto sdegnosamente il socio-catastrofismo cattolico: divorzio = fine della famiglia; aborto = colpevole denatalità; contraccezione = egoistica sessualità; biotestamento = anticamera dell’eutanasia; suicidio assistito = eutanasia camuffata; eutanasia = capriccio esistenziale.

Sono portato anche ad allargare il discorso agli aspetti religiosi nei loro stucchevoli distinguo: il confine tra pillola del giorno dopo e aborto vero e proprio; la distinzione tra metodi naturali ed artificiali nella contraccezione; persino certe distinzioni tra aborto terapeutico e aborto volontario.

Di fronte a queste dissertazioni etico-moralistiche il grande Indro Montanelli sfoderava tutta la sua laicità e concludeva drasticamente e amaramente: «Sono beghe di frati!». Io, a differenza di Montanelli, mi considero un credente, ma condivido pienamente il suo giudizio: «Sono beghe di frati!». Purtroppo però queste beghe continuano a condizionare il Parlamento italiano e a disturbare le coscienze di credenti, non credenti e diversamente credenti.

È proprio un bel casino

In questi giorni la mia sensazione prevalente è quella del disagio per la confusione di ruoli che si sta creando nella nostra società. Una vera e propria commedia con le parti invertite.

Primo atto. Il giudice Carmelo Zuccaro non si è candidato (almeno per ora) a scendere in politica come parecchi suoi illustri colleghi, ma ha sollevato un vespaio basato sul dubbio qualunquistico e sulla populistica generalizzazione dell’affarismo: sta facendo discorsi squisitamente politici con assist perfetti a chi vuole speculare e strumentalizzare (Lega e M5S). E non c’è verso di farlo rientrare nel suo ruolo. Non ha prove, non ha elementi concreti, ma pontifica. La peggior (anti)giustizia che gioca a supportare la peggior (anti)politica. L’enorme e delicatissimo problema immigrazione viene ridotto a presunto scandalo allarmistico e affaristico e su di esso si costruisce una linea politica di drastico contenimento del fenomeno. Dice il procuratore di Catania Zuccaro: «Non possiamo ospitarli tutti, anche perché la maggior parte non ha diritto alla protezione internazionale. Non è il caso di   evitare che le Ong continuino a svolgere attività di supplenza e la politica si prenda le sue responsabilità?». Se ad una persona ignara si chiedesse chi possa aver detto quelle parole, sono sicurissimo che le riferirebbe a Matteo Salvini, il quale quindi ha trovato un autorevole e insperato portavoce.

Secondo atto. Il Parlamento sta mettendo mano al diritto di legittima difesa, combinando un casino pazzesco, riformando in modo maldestro questo istituto giuridico e mettendo di conseguenza nei guai la magistratura che dovrà applicare queste nuove norme, tecnicamente demenziali ed eticamente inaccettabili: i giudici non sapranno come saltarne fuori. Per allargare il concetto si stanno varando norme confuse, solo per dare fumo negli occhi a chi pensa e si illude di combattere la criminalità difendendosi da solo, aizzato dalle solite gazzarre fascistoidi. La peggior (anti)politica che gioca a creare i presupposti per la peggior (anti) giustizia.

Terzo atto. I vaccini sul banco degli imputati: dubbi sulla loro efficacia e sui rischi per la salute. I politici ne vogliono sapere più degli scienziati e delle autorità sanitarie. Si scherza col fuoco, si spara nel mucchio, tutto va bene pur di creare smarrimento e malcontento. Non è proprio il caso di dare dignità e ascolto alle solite ed allarmistiche ciarlatanerie. Da parte sua, la scienza (?), quasi per difendersi dal nulla, spara in contemporanea un inattendibile e miracolistico test anti-cancro, ancora tutto da sperimentare, in grado di diagnosticare la malattia anche quando gli accertamenti più sofisticati non la riescono ancora ad individuare. La cattiva politica finisce con l’innescare l’orgoglio scientifico, che non si limita a fare quadrato intorno alle collaudate e istituzionalizzate procedure sanitarie, ma si lancia nella presentazione di premature e frettolose speranze di test anti-cancro (della serie   “la miglior difesa è l’attacco”, peccato che si stia giocando con la salute della gente).

Quarto atto. Le Ong   lasciano il campo e il mare inghiotte i naufraghi, la gente si fa giustizia da sola, gli scienziati abbandonano la ricerca, gli ammalati si curano secondo le proprie idee, nelle piazze e nelle strade si dà la caccia all’immigrato, D’Alema, figlio legittimo del comunismo, dà dello stalinista a Renzi che col comunismo non c’entra niente, Theresa May attacca l’Europa perché si sente messa alla porta dopo averla sbattuta, i Francesi fanno i pesci in barile e non riescono a distinguere una fascista antieuropea che si candida a governarli, gli Italiani sono fortunati, hanno Grillo e in lui si rifugiano. La commedia è finita. Cala la tela. Applausi frammisti a fischi.

Nella Chiesa ci sono le trombe e i tromboni

La Chiesa è bella perché è varia: ai preti-profeti prima si fanno le pulci, poi arrivano gli elogi. Ma devono passare tempi biblici… Mi sembra di poter sintetizzare gli alti e bassi clericali, le spinte e contro spinte ecclesiali, con un famoso detto parmigiano: “O tròp o cla neg rivä”. La Chiesa, se arriva presto sbaglia bersaglio. Colpisce nel segno solo a babbo morto, quando è troppo tardi. Ho letto con commozione e consolazione della visita privata che papa Francesco farà ai luoghi della vita di due profeti del secolo scorso: don Lorenzo Milani e don Primo Mazzolari. La vita dei profeti è sempre stata contrastata e maltrattata: si tratta di personaggi scomodi che riescono ad avere contemporaneamente il coraggio della denuncia e la forza della testimonianza, arrecano quindi il massimo del fastidio possibile ai poteri costituiti, civili e religiosi, contestandoli alla radice della loro legittimità sostanziale. Ebbene verso questi due preti la Chiesa arricciò il naso, li emarginò, li osteggiò o quanto meno non diede loro molta considerazione. A distanza di tanti anni la gerarchia si ricrede: erano dei grandi. Ecco cosa dice, con grande onestà intellettuale, ma con una punta di troppo a livello giustificazionista, papa Francesco di don Lorenzo Milani: «Come educatore ed insegnante egli ha indubbiamente praticato percorsi originali, talvolta, forse, troppo avanzati e, quindi, difficili da comprendere e da accogliere nell’immediato. La sua educazione familiare, proveniente da genitori non credenti ed anticlericali, lo aveva abituato ad una dialettica intellettuale e ad una schiettezza che a talvolta potevano sembrare troppo ruvide, quando non segnate dalla ribellione. Egli mantenne queste caratteristiche, acquisite in famiglia, anche dopo la conversione, avvenuta nel 1943, e nell’esercizio del suo ministero sacerdotale. Si capisce, questo ha creato qualche attrito e qualche scintilla, come pure qualche incomprensione con le strutture ecclesiastiche e civili, a causa della sua proposta educativa, della sua predilezione per i poveri e della difesa dell’obiezione di coscienza. La storia si ripete sempre». Da papa Francesco mi aspettavo qualcosa di più, ma è tutto grasso che cola: è molto più a suo agio quando parla e opera per la carità, quando si tiene lontano (a volte un po’ goffamente) dai contatti con la politica che quando affronta i problemi ei rapporti interni (passati, presenti e futuri) della Chiesa.

Ma torniamo alle rivalutazioni del secolo successivo (i tempi per la Chiesa sono scanditi dai secoli: il cardinal Martini registrava e stimava i ritardi con tali cadenze). Anche don Primo Mazzolari viene considerato uno straordinario profeta del ’900 e finalmente ricordato per le coraggiose prese di posizione politiche (fu antifascista e partecipò attivamente alla Resistenza), per l’innovativa visione pastorale, di cui sono testimonianza i suoi numerosi scritti. Il cardinale Gualtiero Bassetti non ha dubbi: «Vedo fra don Primo e papa Francesco una visione similare, direi un pensiero analogo, almeno su due interrogativi fondamentali: che cosa è la chiesa e chi è il povero». Il cardinale parla del parroco di Bozzolo come di un “incompreso, perseguitato, amato”. D’altra parte basta ricordare cosa diceva don Mazzolari: «Non avrei mai pensato che in terra cristiana, con un Vangelo che incomincia con”Beati i poveri”, il parlar bene dei poveri infastidisse tanta gente, che pure è gente di cuore e di elemosina». Il cardinale Bassetti aggiunge: «Del resto la povertà è uno scandalo per chi adora dotte citazioni e afflati pubblici, salvo poi dimenticarsi del misero che gli sta accanto. Non è una questione di colpe e responsabilità. È una questione di amore e responsabilità. È una questione che investe la fede e che si riflette anche nel modo di vivere la Chiesa».

Ebbene tutti questi elogi arrivano tardi, con paginoni e titoloni sul quotidiano Avvenire, sulla indubbia scia dello stile nuovo di papa Francesco, anche se per don Mazzolari c’era già stato un endorsement papale da parte di Giovanni XXIII che lo definì “la tromba di Dio”. Meglio tardi che mai, ammetto tuttavia di uscire piuttosto irritato da queste riabilitazioni. Come non pensare al nostro don Luciano Scaccaglia così incompreso e tartassato in vita e così simile nella mentalità e nello stile a questi illustri predecessori che lui citava continuamente. Chissà quanto tempo dovrà passare perché gli sia resa “giustizia” a livello gerarchico e clericale. Io sarò morto, sepolto, esumato, incenerito, quando il settimanale Vita Nuova dedicherà due paginoni a don Scaccaglia, qualche cardinale ne tesserà il panegirico, magari anche il Papa verrà a rendergli omaggio nel cimitero di Felino e nella chiesa di Santa Cristina. Ci siamo molto lontani, ma non importa. Che conta è Dio e il suo popolo. Entrambi lo hanno in gloria!

 

 

 

 

L’Avvenirismo di papa Francesco

Quando il quotidiano cattolico Avvenire, con tanto di sviolinata personale del suo direttore Marco Tarquinio, ha operato pochi giorni or sono una sorprendente ed incauta apertura di credito nei confronti di Beppe Grillo e del suo movimento, un mio carissimo amico, attento osservatore delle vicende politiche italiane e della vita della Chiesa, dopo avermi espresso tutto il suo stupore, mi ha girato una domanda che si era posto: «Possibile che i vescovi e papa Francesco non ne sapessero nulla? Ci sarà sotto qualcosa? Dove si vuole andare a parare con questo atteggiamento aperturista verso il M5S?».

In effetti che una simile posizione non fosse stata preventivamente concordata con i massimi esponenti dell’episcopato italiano, di cui Avvenire è voce giornalistica, e tramite essi con il Papa, sembrava assai poco probabile.

I giorni successivi hanno visto reiterati chiarimenti da parte del direttore del quotidiano e numerosi distinguo dei vescovi, massimi esponenti della Conferenza Episcopale Italiana. I casi sono due: o Avvenire ha fatto una pericolosa fuga in avanti o i vescovi gliel’hanno fatta fare, salvo poi tirarsi indietro sul più bello. Non sarebbe la prima volta che succede: la gerarchia cattolica manda in avanscoperta qualche laico più o meno devoto, per poi lasciarlo inesorabilmente nella cacca. Capitò ai tempi del referendum abrogativo sul divorzio, con i comitati che lo promossero e con la DC che lo appoggiò: tutto mentre la gerarchia parlava bene (?), con le solite dichiarazioni di principio, ma razzolava male, tenendosi al coperto con le mani piuttosto libere in vista di contenziosi ben più succulenti con lo Stato italiano. Si tratta dei soliti balletti sui principi irrinunciabili, finalizzati ad altri compromessi col potere politico. La risposta che mi ero dato, di fronte alla pelosa ospitalità di Avvenire verso Grillo ed i suoi argomenti, era propria questa: vogliono mettere le mani avanti, non si sa mai che questi grillini vadano al potere, meglio tenerseli buoni…

Mi è capitato di assistere a un dibattito televisivo sulla questione ong/trafficanti/inchieste, durante il quale il direttore di Avvenire Marco Tarquinio ha tenuto un atteggiamento forte (quasi stizzito) nei toni e documentato nel merito, distinguendosi nettamente ed inequivocabilmente dagli atteggiamenti di Lega e M5S. Ho immediatamente pensato che si trattasse anche di una presa di distanza rispetto all’avvicinamento precedentemente giocato sul filo del rasoio.

Poi è arrivato addirittura un discorso del papa all’Azione cattolica, preceduto dalla conferenza stampa sull’aereo di ritorno dal viaggio in Egitto. Facendo riferimento alla Francia, ma con evidente parallelismo con l’Italia, Francesco ha dichiarato con un fondo di furba ironia: «Dico la verità, non capisco la politica interna francese e ho cercato di avere buoni rapporti anche col presidente attuale. Dei due candidati francesi non so la storia, non so da dove vengono, so che una è una rappresentante della destra, ma l’altro non so da dove viene e per questo non so dare un’opinione. Parlando dei cattolici, un giorno uno mi ha detto: “Perché non pensa alla grande politica?”. Intendeva fare un partito per i cattolici! Ma questo signore buono vive nel secolo scorso!». A buon intenditor poche parole…

Al raduno di Azione Cattolica il papa è tornato sull’argomento ed ha ufficializzato la posizione invitando i cattolici ad entrare in politica, ma “nella grande politica”, quella “con la “P” maiuscola”, ribadendo la validità della “scelta religiosa” fatta da questa importantissima associazione, dal Concilio in poi: puntare cioè sulla formazione dei credenti e della loro coscienza politica, rinunciando ad ogni e qualsiasi sponsorizzazione e compromissione prospettica col potere politico ed economico, alla promozione di assi preferenziali e soprattutto all’idea di risuscitare direttamente o indirettamente un partito cattolico.

Sembra emergere chiaramente un distacco della Chiesa istituzione, ma anche della Chiesa comunità,   dai discorsi e dagli schieramenti politici, lasciando alla scelta personale dei credenti l’adesione a partiti e movimenti, riservandosi solo di “parlare dei valori in se stessi, di difendere la pace, l’armonia dei popoli, l’uguaglianza dei cittadini”, senza immischiarsi in giudizi politici e tanto meno partitici.

Il sottoscritto (nonché il caro amico che mi aveva messo la pulce nell’orecchio) è servito. Meno male! A scanso di equivoci mi permetterei comunque di consigliare al Papa di porre molta attenzione ai prossimi assetti di vertice della Cei ed alle mosse dell’episcopato italiano (lungi dall’essere tutto a sua immagine e somiglianza).

Resta qualche dubbio sull’origine delle avance “Avveniristiche”. Qualcuno ha pestato e si sta pulendo le scarpe. Forse sono scarpe episcopali, forse laicali, forse le une e le altre. Anche Beppe Grillo, se mai si illudeva, è stato servito. Lui, che è tanto coraggioso e spregiudicato nei giudizi, dica chiaramente se si è sentito buggerato (cosa non impossibile). Gliene sarei grato.

Non siamo razzisti, facciamo solo buuu…

Un giocatore di colore del Pescara, Sulley Muntari, stanco di ascoltare le intemperanze razziste dei tifosi cagliaritani nei suoi confronti, chiede all’arbitro di intervenire come da regolamento a difesa della dignità dei giocatori e nel rispetto dei principi etici che il mondo del calcio vorrebbe adottare.

Lo fa in modo (giustamente) vivace, anche perché il direttore di gara fa finta di non sentire. Come risposta, viene invitato a non dialogare col pubblico, redarguito verbalmente e ammonito ufficialmente. Non accetta il provvedimento ed esce dal campo per protesta.

L’arbitro fa una pessima figura, come uomo, come professionista, come responsabile di quanto avviene sul campo: non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. A mio giudizio ci sarebbe da arrossire di vergogna, di più, da sprofondare.

Qui infatti c’è in ballo qualcosa di molto più importante di un calcio rigore, di un fuori gioco, di un’entrata a gamba tesa. Per il quieto vivere, per non sollevare questioni delicate, per difendere lo status quo negli omertosi rapporti tra società calcistiche e tifoserie, meglio far finta di niente.

Anche i media, la maggioranza dei giornalisti sportivi, perfino i dirigenti del Pescara, minimizzano l’accaduto: quel Muntari è una testa calda, qualche coretto razzista non è la fine del mondo, il mondo del calcio è sano, i tifosi esagerano, ma non criminalizziamoli troppo. Mangiano tutti nella stessa greppia e guai a disturbare le varie combinazioni. Solo Zeman, allenatore della squadra, un galantuomo storico, ha il coraggio di dire educatamente che l’arbitro ha sbagliato e non ha avuto il coraggio di intervenire. Che pena!

Quando, da bambino o ragazzino, frequentavo lo stadio assieme a mio padre anche gli arbitri erano un po’ meno divi, erano dilettanti più o meno allo sbaraglio, sbagliavano forse più di quelli di oggi, ma erano sicuramente più in buona fede.

Ricordo un episodio molto bello: l’arbitro Angelini (spero di non sbagliare il nome) assegnò una punizione a favore del Parma ignorando clamorosamente la regola del vantaggio. Fu investito da una salve di fischi, ma ne uscì alla grande: chiese scusa al pubblico con ampi gesti, allargando ripetutamente le braccia. Il pubblico capì, apprezzò ed applaudì fragorosamente.

Ebbene, mio padre dell’arbitro non parlava mai, lo ignorava, lo riteneva un protagonista necessario ma ininfluente, un elemento esterno da prendere per quello che è (come la pioggia per i contadini, a volte come le grandine). Capiva perfettamente quando l’arbitro sbagliava, ma riteneva inutile, oltre che sconveniente, urlare contro di lui: è come abbaiare alla luna. C’era in questo atteggiamento un qualcosa di aristocratico: non mi abbasso a questionare con un soggetto in divisa. Può fare quel che vuole e meno male che è così, altrimenti sarebbe una bolgia. Era solito dire: “S’al spéta ch’a sbraja mi, al spéta un pés, l’arbitro. Al pól fisciär anca dez rigór…”. Ed aggiungeva, dicendo una cosa vera fino ad un certo punto, ma che può essere una sana regola calcistica: “Butta dentor dil bali int la rej e po’ l’arbitro al gh’ à poch da móvor”.

Sono sicuro che però non avrebbe risparmiato feroci critiche al signor Minelli, l’arbitro di Cagliari-Pescara. Avrebbe detto: «An ghé miga ‘d bàli, al doväva sospéndor la partìda!».

Tutto sommato mi innervosisce e mi disturba più l’opportunistico atteggiamento arbitrale che l’inqualificabile comportamento del pubblico cagliaritano. La mancanza di coraggio è peggio dell’ignoranza, anche della cattiveria.

L’ombelico della sinistra è l’Europa

Un conto è parlare di brexit, un conto è “brexire”, cioè uscire veramente dalla Unione Europea e cominciare concretamente a trattare sulle modalità del divorzio lungo. La prima ad accorgersene è stata la premier inglese Theresa May, la quale, dalla paura che i suoi concittadini possano rendersene conto, ripensarci o scaricare sul partito conservatore il proprio malcontento, ha pensato bene di ricorrere frettolosamente alle urne per rafforzare la propria posizione politica, spiazzare i separatisti scozzesi e sconfiggere i laburisti approfittando del momento della loro estrema debolezza.

La Ue non sta comunque (giustamente) facendo ponti d’oro all’uscita inglese, al contrario sta compattandosi su una linea piuttosto dura e intransigente, della serie “l’hai voluta, adesso tienitela”.

Faccio fatica ad entrare nella mia testa, figuriamoci in quella del popolo inglese. Sono tuttavia convinto che, strada facendo, i britannici si pentiranno amaramente della loro scelta e quindi ho letto con grande interesse ed attenzione l’intervista rilasciata a la Repubblica da Tony Blair, il quale spera ancora che Londra possa rientrare nella Ue. “Spes contra spem”, direbbe Marco Pannella (sperare contro ogni speranza).

Il ragionamento dell’ex leader laburista ed ex premier, al di là della insopportabile saccenza di questi personaggi, che dimenticano bellamente i loro errori storici clamorosi (si pensi alla guerra contro l’Iraq per cui Blair è stato la solita quinta colonna guerrafondaia degli Usa), si basa sulla inconsistenza delle due argomentazioni fondamentali della brexit: la globalizzazione, che va accettata ed a cui si deve far fronte, non cedendo alle sirene del protezionismo e del nazionalismo, ma stando uniti, a livello europeo, non fosse altro che per poter competere con i giganti storici (Usa e Russia) e con quelli emergenti (Cina e India); l’immigrazione che va accolta considerando oltretutto e pragmaticamente come la maggior parte degli immigrati faccia lavori che gli inglesi non farebbero.

Ragionamenti lapalissiani che però in Gran Bretagna hanno fatto e fanno fatica ad essere presi in considerazione, probabilmente per motivi geografici, storici e psicologici più che politici.

Certo i tempi sono cambiati da quando furoreggiava Tony Blair, la sinistra era al potere in tutta Europa, negli Usa era presidente Bill Clinton. Oggi viviamo con la spada di Trump sulla testa, la sinistra è sbandata, divisa dal ritorno antistorico della diaspora ideologica, incapace di modernizzarsi e affrontare pragmaticamente la coniugazione tra libertà e uguaglianza, tentata dal guardarsi l’ombelico piuttosto che mettersi nella dimensione europea.

Checché se ne dica, mentre in Germania resta accesa con Martin Schulz la fiammella del socialismo canonico, Italia e Francia con Renzi e Macron stanno cercando di offrire all’Europa volti e programmi nuovi per una chance di cambiamento e di progresso. Non c’è da fare gli schizzinosi, come i “melanchonisti” in Francia e i “cespuglisti” in Italia. Anche perché abbiamo alle porte i grossi pericoli dei populisti.

Mi illudo che tra Italia e Francia, sotto l’impulso di Macron e Renzi, possa sortire finalmente un’alleanza che rilanci in senso moderno e riformatore l’Unione europea a livello istituzionale (federazione, presidente eletto, punti di governo comune) e di politica economica (a favore della linea sviluppista). Se poi in Germania prevalesse Schulz, tanto di guadagnato e sarebbe, a maggior ragione, tutta un’altra storia. Con o senza l’Inghilterra. Chissà…

Un futuro di lavoro…diverso

Il diritto al lavoro è stato il canovaccio fondamentale delle battaglie e delle conquiste sociali. La storia va ripercorsa e celebrata, purché non diventi un compiaciuto freno di conservazione, ma una provocatoria spinta a nuovi e impegnativi passi avanti. È quindi demagogico e fuorviante cogliere l’occasione temporale del 1° maggio per imbastire discorsi sulla difesa astratta dello Statuto dei lavoratori con tanto di demoscopici sondaggi a supporto. Non stupisce affatto che il 70% degli italiani sia per il ripristino dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, vale a dire per ricuperare la massima difesa del posto di lavoro, stupisce che i politici e i commentatori non abbiano l’umiltà e l’obiettività di affrontare il discorso inserendolo nel contesto generale dei problemi occupazionali.

Sono necessarie al riguardo alcune riflessioni. Innanzitutto l’approccio fondamentale è quello dell’attenzione a chi il lavoro non ce l’ha, soprattutto i giovani: è l’assoluta priorità nell’analisi e nella ricerca delle soluzioni. Non è stato e non è sempre così, perché è certamente più facile difendere, magari a prescindere, chi è già occupato. Poi viene chi sta perdendo il posto di lavoro, non per sua inettitudine o indisciplina, ma per effetto di crisi settoriali o aziendali. E ancora la sicurezza sul lavoro: sono troppi e colpevoli le morti, gli infortuni, i danni irreparabili alla salute.

È importante anche sfatare l’idea che gli immigrati rubino il lavoro ai nostri connazionali. A parte il fatto che dovrebbero avere il diritto all’accoglienza con tutto quel che ne consegue, non è vero che esista una concorrenzialità, perché gli immigrati sono disposti a svolgere lavori che gli italiani scansano e senza di loro non riusciremmo a coprire certi fabbisogni essenziali. Oltretutto spesso vengono sfruttati, sottopagati e maltrattati. Con le tasse e i contributi che pagano coprono ampiamente i costi diretti e indiretti dell’accoglienza che offriamo loro. Chi teorizza il contrario è in mala fede e cerca di coprire con motivazioni populiste un vero e proprio razzismo.

L’economia oltre ad essere in crisi, sta cambiando faccia e quindi occorre rassegnarsi ad abbandonare la mentalità del posto fisso e l’oltranzistica pretesa del lavoro psicologicamente ottimale. Stanno cadendo come pere mature tutte le sicurezze di un tempo; l’innovazione tecnologica sconvolge gli assetti occupazionali imponendo formazione permanente, trasferimenti settoriali e geografici, flessibilità nei tempi e modi, trattamenti economici legati alla produttività; le ristrettezze erariali impongono un taglio ed una riqualificazione del pubblico impiego; i nuovi assetti strutturali a livello produttivo richiedono nuovi profili professionali con un occhio di riguardo ai settori all’ambiente, alla cultura , all’arte; la dimensione globale dell’economia richiede una notevole disponibilità al cambio di sede lavorativa.

Sono saltati molti schemi e tali salti ci cambiano la vita. Spesso la mentalità rimane ancorata ad un passato irrimediabilmente perduto. Forse non ci rendiamo conto di quanto ci sta succedendo intorno. Dobbiamo fare un bagno di sano realismo, non per adeguarci supinamente e fatalmente, ma per individuare i nuovi spazi di giustizia e uguaglianza e per combattere con le armi dello sviluppo aperto le tentazioni della chiusa conservazione.

Il maoismo riveduto e scorretto

In tutto il mondo si sta facendo sempre più strada uno schema interpretativo della realtà politica: la collera sociale contro le protezioni calanti, il benessere ridotto e la disoccupazione crescente, la ribellione totale all’establishment costituito da tecnocrati, burocrati, banchieri, oligarchi della finanza, uomini delle élites finanziarie, intellettuali e giornalistiche, appartenenti alle caste europeiste e globaliste.

Si sta imponendo una nuova ideologia, che fa d’ogni erba un fascio, che prescinde sdegnosamente dalle proposte politiche, che rifiuta aprioristicamente tutto quanto proviene dall’esperienza politica, che scarta la democrazia e adotta il plebiscito, che non esita a buttare via il bambino assieme all’acqua sporca.

Dietro questo massimalismo di pancia si nasconde in realtà una ben più colpevole e subdola visione di una società chiusa, egoistica, pessimista, xenofoba e razzista. Alle classiche distinzioni tra destra e sinistra, tra conservatori e progressisti, si vanno sostituendo quelle tra mondialisti e sovranisti, globalisti e protezionisti, dirigisti e populisti, multiculturalisti e identitari, “cosmopolitisti” e razzisti, europeisti e nazionalisti, laicisti e tradizionalisti, mercatisti e assistenzialisti.

Emmanuel Macron viene dipinto come un brillante virgulto del “sistema”, un allievo uscito dalle scuole più prestigiose che sfornano l’élite politica francese, un personaggio che ha ricoperto incarichi di alto livello nel settore bancario e nello Stato, un uomo gradito all’intellighenzia politica ed intellettuale: potrebbe essere un pedigree interessante e promettente, che invece viene letto, a destra e sinistra, in senso negativo e spregiativo. Marine Le Pen si presenta come la candidata del popolo contro il candidato dell’élite. Giustamente Ségolène Royal osserva: «Quale popolo? Le Pen è cresciuta nella villa di Montretout, servita e riverita da maggiordomi. Ha ereditato il partito da suo padre. Dopo lo scandalo sui rimborsi degli europarlamentari, non può neanche più dire di avere le mani pulite». Ma non c’è verso di ragionare, basta essere contro tutto, il resto non conta. Cosa può venire di buono da un ex-banchiere? Da una sedicente popolana invece… Il ragionamento è questo, ammesso e non concesso che si possano semplicisticamente catalogare in tal modo i candidati all’Eliseo. L’importante è fare un dispetto al sistema.

Da bambino ho chiesto ripetutamente a mio padre di darmi alcuni ragguagli su cosa fosse stato il fascismo. Tra i tanti me ne diede uno molto semplice e colorito. Se c’era da scegliere una persona per ricoprire un importante incarico pubblico, prendevano anche il più analfabeta e tonto dei bottegai (con tutto il rispetto per la categoria), purché avesse in tasca la tessera del fascio e ubbidisse agli ordini del federale di turno. «N’era basta cal gavis la tésra in sacòsa, po’ al podäva ésor ànca un stupidd, ansi s’lera un stuppid, ancòrra mej…».

Il populismo, anche nella sua moderna e sofisticata versione web, porta a screditare cultura, professionalità, competenza, esperienza, considerate come sintomo di appartenenza al potere vigente. Carlo Azeglio Ciampi sarebbe stato un esponente clamorosamente scartabile, lo stesso Mario Draghi rischia grosso a livello populista. «Io tra un banchiere e una fascista preferisco astenermi», così si è espressa un’anonima elettrice di Jean-Luc Mélenchon. Altri, non pochi, scelgono addirittura la fascista. Tutto molto chiaro!

Donald Trump è stato sostanzialmente eletto in base a questo schema: meglio un bancarottiere pazzo di un’esperta e collaudata donna della casta politica. Silvio Berlusconi era stato ripetutamente eletto sulle prime ondate dell’antisistema: meglio uno che sa fare i suoi interessi, chissà che non faccia anche i nostri… Personaggi di potere, che però riescono ad affrancarsi dal marchio cavalcando gli istinti dell’antipolitica.

Anche nel nostro Paese furoreggia l’antisistema. Le antiche ideologie furono causa di guasti, ma almeno si basavano su valori veri, salvo poi ingessarli, irreggimentarli e fagocitarli. Questa nouvelle vague ideologica è molto peggio perché non ha basi, se non il rigetto totale: il primo che passa può andar bene, purché sappia gridare qualche slogan d’effetto. Non può che essere l’anticamera di regimi dittatoriali o autoritari. Rientra in questa inaccettabile logica anche l’attacco indiscriminato, generalizzato e immotivato alle Organizzazioni non lucrative impegnate nel salvataggio in mare dei migranti alla deriva: è da combattere il sistema di chi si impegna a favore della vita di migliaia di persone o è da combattere il sistema di chi si volta dall’altra parte? Quando non c’è, lo scandalo bisogna crearlo, tanto qualcosa di sporco e di losco c’è sempre. Pura follia anti-sistema, “che ha dietro una visione ipocrita e vergognosa di chi non vuole salvare in mare persone in fuga” (mons. Giancarlo Perego, Fondazione Migrantes).

Un autista di camion, intervistato sul prossimo ballottaggio francese, dice: «È vero, Le Pen ce l’ha con tutti gli immigrati, ma Macron favorirà soltanto i ricchi». Un facile e assurdo pseudo-maoismo riveduto e scorretto. Poveri, egoisti, ignoranti e cretini. Peggio dei ricchi? Sì, perché i poveri senza cultura, senza solidarietà, senza valori, restano tali e non riescono a diventare “signori”.

Guerra fredda o riscaldata

Lo scenario internazionale presenta diffuse e risorgenti avvisaglie di guerra: Corea, Estonia, Bielorussia, Siria, Iran, Afghanistan, Yemen, Sud Sudan, Somalia, Centrafrica, Mali, Congo e Burundi. O si guerreggia o ci si prepara alla guerra appostando armi micidiali, trafficandole, fornendole a certi Paesi contro altri. Ogni tanto ci si scandalizza perché muoiono bambini innocenti, perché in qualche caso si supera il livello di guardia e si violano anche le più elementari regole internazionali.

La comparsa sulla scena mondiale di Donald Trump sta comportando gravi tensioni nei rapporti e rischia di cancellare i pur modesti e relativi passi diplomatici effettuati negli ultimi anni.

Per quanto ci riguarda più da vicino dobbiamo registrare pressioni molto esplicite di Trump su Italia e Germania per l’aumento delle spese militari, sintomo della ricerca di equilibri basati sull’incremento delle armi e degli affari che gli stanno dietro. La spesa militare italiana dovrebbe arrivare al 2% del Pil, che significherebbe 100 milioni di euro al giorno alla faccia della Costituzione italiana che all’articolo 11 recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

Certo non si può far finta di niente, stare ipocritamente dentro la Nato aspettando passivamente e furbescamente che siano gli altri Stati alleati a farsi carico delle spese: il discorso dovrebbe essere fatto a monte chiedendo magari alla Nato di commutare almeno le ulteriori spese militari in sostegni economici ai Paesi in via di sviluppo, laddove invece funzionano gli sfogatoi militari delle scaramucce fra superpotenze.

A livello europeo sarebbe auspicabile che si esercitasse in tutto e per tutto un’azione diplomatica per contribuire ad allentare le tensioni ed a progettare scenari di pace, rifiutando categoricamente di accendere nuovi focolai di guerra o di alimentare quelli vecchi.

A chi vuole fare guerre non manca la fantasia per trovarne i pretesti. Chi vuole andare in controtendenza deve avere altrettanta fantasia per trovare terreni di impegno a sostegno della distensione ed della pace. “Si vis pacem para bellum” dice una locuzione latina di autore ignoto: uno dei mezzi più efficaci per assicurare la pace sarebbe quello di essere armati e in grado di difendersi. Potrebbe anche significare, in maniera più sottile, che un espediente per tenere unito e concorde un popolo, e quindi poterlo meglio governare, è quello di creare un nemico all’esterno o al suo stesso interno. Il discorso va totalmente capovolto in “se non vuoi la guerra prepara la pace”.

Il missionario Padre Alex Zanotelli, una voce ed una testimonianza profetica in senso autenticamente evangelico, con ammirevole coraggio e stupenda coerenza invita le comunità cristiane a smuoversi accogliendo gli inviti di papa Francesco a bandire le armi nucleari ed a dire basta alla “follia” delle guerre e dell’industria delle armi.

Mai forse come oggi il cattolicesimo ha la possibilità di giocare carte importanti a servizio della pace: non accontentiamoci però di applaudire il papa esaltandone le iniziative. C’è uno spazio di denuncia e di proposta da occupare. Occupiamolo, chiedendo alla politica non tanto il miracolo di trasformare la guerra in pace, ma di invertire le tendenze belliciste con un sussulto di coraggio e di coscienza.

Mio padre ogni volta che sentiva notizie sullo scoppio di qualche focolaio di guerra reagiva auspicando una obiezione di coscienza totalizzante: «Mo s’ pól där ch’a gh’sia ancòrra quälchidón ch’a pärla äd fär dil guèri?».

Diceva con molta gustosa acutezza: «Se du is dan dil plati par rìddor, a n’è basta che vón ca guarda al digga “che patonón” par färia tacagnär dabón». È quanto fanno le grandi potenze: invece di smorzare i bollenti spiriti, soffiano sul fuoco.

Da piccolo non mi piaceva giocare alla guerra, figurarsi se mi diverto oggi a veder “giocare” Russia, America, Cina, Europa e…Italia.