Fatima, Medjugorje e dintorni

In merito alle apparizioni e ai fenomeni straordinari, di fatto influenti sulla religiosità popolare, l’atteggiamento della gerarchia cattolica è sempre stato caratterizzato dalla estrema cautela al limite dell’ostilità. Se la prudenza non è mai troppa, al fine di evitare pericolosi scivolamenti nell’illusione miracolistica nonché facili e devozionistiche scorciatoie di stampo spiritualistico, la storia ha registrato anche una sorta di prevenuto scetticismo, che ho sempre ascritto al timore dell’autorità religiosa di essere scavalcata nel suo ruolo di mediazione tra l’individuo e la divinità. In poche parole il timore di perdere ruolo e potere.

Anche papa Francesco viaggia sul filo del rasoio quando, con la sua pur simpatica e schietta verve, afferma ironicamente in merito a Medjugorje e all’indagine in corso (apro una lunga parentesi: mi scappa da ridere al pensare come la Chiesa, nella sua ufficialità gerarchica, metta sotto inchiesta la Madre di Dio e quanti sostengono di vederla e ascoltarla. Roba che puzza un tantino di Inquisizione. Sarebbe meglio riservare gli intenti chiarificatori alle perduranti prassi curiali vaticane): «Sulle presunte apparizioni attuali, la relazione presenta i suoi dubbi. Io sono più cattivo, preferisco la Madonna Madre alla Madonna capo di ufficio telegrafico che ogni giorno invia un messaggio».

Avrei preferito che il pontefice ironizzasse oltre e più che sulle cronometriche apparizioni mariane, sulle poliziesche, inutili e ostruzionistiche procedure vaticane. Egli stesso infatti ha premesso che “tutte le apparizioni o le presunte apparizioni appartengono alla sfera privata e non sono parte del magistero pubblico ordinario”. E allora perché tanto accanimento istruttorio e tanta intromissione burocratica, salvo tardivamente arrivare in pompa magna ad ammettere l’autenticità di questi fenomeni magari cavalcandoli trionfalisticamente.

È vero che, come dice lo stesso Papa, “c’è il fatto spirituale e pastorale. Gente che si converte e questo fatto non si può negare”. A Fatima, Bergoglio, lo scrive Alberto Melloni, si è comportato in linea “con la sua teologia del popolo, quella che vede nella religiosità popolare un sensus fidei, che va al di là dei tratti a volte arcaici di queste devozioni e punta ad un nucleo di fede”.

Personalmente, nella mia vacillante esperienza di fede, non sono molto interessato alle apparizioni e ancor meno al giudizio “di parte” della gerarchia su di esse. Non accetto tuttavia lo sbrigativo ragionamento che non annette pregiudizialmente alcuna utilità a queste manifestazioni sulla base dell’autosufficienza della rivelazione evangelica. Non c’è dubbio che la fede si fondi sul Vangelo (e non sulla Tradizione: io la penso così), ma perché escludere aprioristicamente l’impronta della ulteriore divina provvidenza nella scelta di eventuali canali diretti di manifestazione soprannaturale. Se non erro Gesù, agli apostoli rigorosamente ostili verso quanti a loro parere abusavano del suo nome e del suo insegnamento, consigliò tolleranza dicendo: «Chi non è contro di noi è con noi».

In fin dei conti, se è vero che sembra improbabile come “la Madonna dica: venite, quel tal giorno alla tal ora darò un messaggio a quel veggente”, perché escludere che la Madonna, in linea con la sua semplicità di fede e di vita terrena, possa servirsi di procedure banalmente mondane per manifestarsi e mandare messaggi. La gerarchia faccia un doveroso atto di umiltà, si astenga da pronunciamenti di qualsiasi tipo e lasci ai cristiani, dotati di Spirito Santo, tanto come papi e cardinali, le loro scelte religiose e devozionali. Tanto più che i messaggi mariani derivanti dalle apparizioni, pur non essendo mai banali, sono perfettamente allineati alla dottrina e molto rispettosi della tradizione. Anche troppo: questo è semmai per me un motivo di dubbio. Ma non esageriamo pretendendo da Maria qualche autorevole stoccata, anche se ce ne sarebbe bisogno.

 

Questione di gusti

Sono sempre stato e sempre sarò affascinato dalle belle donne, ma credo di riuscire a non farmi condizionare dalla bellezza femminile a livello dei miei giudizi politici. Nel pormi di fronte alle vicende pseudo-politiche della ministra Maria Elena Boschi non penso proprio di essere fuorviato dal suo avvenente aspetto fisico, peraltro degno di nota ed ammirazione (finalmente donne in politica e…belle).

Nella severità, scantonante in cattiveria, con cui viene squalificato a priori il suo operato, non escludo ci sia una punta di invidia che la bellezza femminile attira inevitabilmente su di sé: cosa si crede di essere questa Boschi, solo perché è bella…

Nel formulare il suo giudizio sulla vicenda delle ipotetiche interferenze bancarie della ministra, il giornalista Marco Travaglio ha esordito così: «È una questione di gusti: tra Ferruccio De Bortoli e Maria Elena Boschi scelgo il primo». Si riferiva alla credibilità dei due personaggi. Non ho aspettato oltre, ho cambiato canale, perché ritengo non si possano commentare i fatti partendo dalle aprioristiche simpatie verso i protagonisti e/o dai giudizi a monte sulle persone coinvolte.

Se ho intuito bene, questa pagina del vangelo secondo Travaglio parte dalla stima nei confronti di un autorevole collega e dalla disistima verso un’esponente politica, maturate sulla base dei trascorsi professionali dell’uno e dell’altra. De Bortoli avrebbe dimostrato nella sua vita di essere sincero, Boschi invece avrebbe accumulato un bagaglio di menzogne o quanto meno di contraddizioni ed incoerenze. Tutto da dimostrare.

Non credo sia il caso di avventurarsi nei percorsi etico-giudiziari del pur bravo Marco Travaglio: ne lascio a lui tutta la responsabilità personale e la correttezza professionale. Mi preme invece respingere sdegnosamente il modo approssimativo e superficiale con cui si accosta la politica: un politico è falso e censurabile a prescindere. Se si tratta poi di una bella ragazza e di un’amica di Matteo Renzi…

Non so come finirà questa vicenda. È partita dal nulla abilmente confezionato   e probabilmente finirà nel nulla tristemente verificato. In mezzo però ci sta il deterioramento del dibattito politico, favorito dalla supponenza e strafottenza dei media. Brutti episodi di processi sommari se ne sono visti parecchi nella storia. Che mi preoccupa tuttavia è la sistematizzazione del pregiudizio a cui siamo arrivati, che oltre tutto rischia di togliere efficacia alle sacrosante e motivate denunce del malaffare purtroppo esistente e dilagante.

Pensiamo a quel che sta combinando Trump. Secondo gli aggressivi e sommari parametri vigenti a livello di stampa d’assalto, dovrebbe essere bruciato sul rogo della cattiva politica. Metaforicamente parlando, lo meriterebbe e non ne sarei certamente dispiaciuto. Siccome però lui è furbo, parte sempre con lo squalificare in anticipo i media. Come dargli torto, dopo aver sentito la bestemmia giornalistica di Travaglio.

Gli assurdi scrupoli della (falsa) coscienza di sinistra

Non sono mai stato un massimalista, ma in questo periodo mi accorgo di esserlo ancor meno. Ogni pretesto è buono per scatenare immediatamente la caccia al traditore. Mi riferisco alla bufera nominalistica scatenata sul capo del ministro dell’Interno Minniti, reo di fare il proprio mestiere cercando di garantire un po’ più di sicurezza ai cittadini che sono o si sentono insicuri e soprattutto reo di avere affermato che una politica di sinistra non è affatto in contrasto con il perseguimento da parte dello Stato di obiettivi garantisti a favore dei soggetti psicologicamente, socialmente ed economicamente deboli (i forti si difendono da soli oppure hanno chi li difende).

Si tratterebbe di una deriva destrorsa, di una maldestra e strumentale rincorsa rispetto ai cavalli di battaglia populisti e leghisti. Non capisco perché se un ministro cerca di mettere un po’ di ordine nelle città, se tenta di regolamentare le strutture di accoglienza degli immigrati, se punta a rendere più vicine le strutture pubbliche alla gente per vincere le ansie e le paure dei cittadini, debba essere considerato un perbenista deviante che vuole solo catturare consenso cavalcando gi egoismi delle persone. Potrà prendere provvedimenti più o meno incisivi ed efficaci, potrà commettere errori, potrà sbagliare qualche colpo, ma sinceramente non vedo alcun tradimento rispetto ai valori ed agli ideali della sinistra politica e sociale.

Marco Minniti si sta impegnando al massimo, sta cercando di lavorare con grande impegno in un campo delicato e problematico: lasciamolo lavorare in pace, critichiamolo pure, ma non buttiamogli addosso questi scrupoli tipici di una sinistra massimalista ed inconcludente di cui i cittadini deboli e in difficoltà non sanno di che farsene.

L’ultimo conato di vomito da massimalismo acuto è stato sfogato sulla presidente del Friuli-Venezia Giulia Debora Serracchiani, esponente di spicco del Partito Democratico, se non vado errato vice-segretaria fino a qualche giorno fa. In occasione di un tentativo di stupro subito da una ragazza di Trieste ad opera di un richiedente asilo ha scritto: «La violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre, ma risulta socialmente e moralmente ancor più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro Paese».

Da sinistra, e non solo, gliene hanno dette di tutti i colori: parole incivili e razziste. Ha dovuto precisare il suo pensiero, peraltro molto chiaro, ragionevole e serio. Ha infatti aggiunto: «Non esistono stupri di serie a e di serie b. Sono tutti atroci. In questo caso all’atrocità si aggiunge la rottura del patto di accoglienza. Cose di buon senso, anche se scomode. La violenza è sempre da condannare senza colore e graduatorie, ma un richiedente asilo instaura un rapporto di fiducia con chi lo accoglie. Oltre alla vittima, della quale ci si dimentica sempre, vengono traditi gli altri richiedenti asilo e tutti quelli che si battono per l’accoglienza».

Vorrei che i tanto fervorosi e intolleranti esponenti della sinistra mi spiegassero cosa c’è di strano e di scandaloso in questo ragionamento. Ormai tutte le occasioni servono per giustificare la recente fuoruscita dal Pd. Su ogni argomento si alza la cortina fumogena di Bersani e c. per lanciare scomuniche e fare la sinistra prova del nove a chi ha il coraggio di esprimere proposte e giudizi in assoluta buona fede. Persino qualche esponente dem ha avuto qualcosa da ridire (la violenza non si pesa); il sindaco di Milano Giuseppe Sala ha perso una buona occasione per tacere (Serracchiani ha sbagliato).

Pensate se fosse possibile fare un processo politico pubblico per vedere se sia più di sinistra Debora Serracchiani o Giuseppe Sala. Ne sentiremmo e vedremmo delle belle.

Il giudizio più profondo (?) viene però dal capogruppo di Mdp alla Camera, Francesco La Forgia, che parla dello “scivolamento di un intero Paese sul piano della civiltà”. Semplicemente pazzesco.

 

 

La pulisìa l’è méz magnär

Eravamo a metà degli anni sessanta e frequentavo la classe terza dell’istituto tecnico commerciale. Un mattino l’insegnante di italiano e storia, uomo di grande carisma, di notevole capacità didattica e di esemplare dirittura morale, entrò in classe e trovò la cattedra piuttosto sporca. Si spazientì e chiese all’alunno più vicino alla porta di chiamare immediatamente il bidello perché venisse a dare una pulita. Dopo pochi secondi ritornò in classe il mio compagno con uno straccio in mano, che fece l’atto di dare una ripulita alla cattedra, ma fu immediatamente bloccato dall’insegnante che gli disse: «No, i tuoi genitori pagano le tasse e tu hai diritto di avere un servizio come si deve, chiedi che il bidello venga qua». Il bidello arrivò e venne bonariamente ma fermamente rimbrottato: «As manda un ragass a pulìr? In dò sèmmia?». Arrivarono le inconsistenti scuse, la pulizia venne eseguita da chi aveva il dovere di farlo, ci guardammo in faccia e capimmo che avevamo usufruito di una strana, ma efficacissima, lezione di educazione civica. Questo episodio quasi deamicisiano l’ho ricordato leggendo le cronache che riportano le iniziative sempre più numerose ed insistenti di gruppi e associazioni di cittadini impegnati volontariamente nel ripulire strade, piazze, giardini, monumenti e muri (quelle spontanee e non quelle promosse polemicamente e provocatoriamente da partiti politici).

Succede in molte città, complice l’inadempienza degli enti preposti, la mancanza di fondi, la maleducazione di troppi, l’incuria generale. L’impegno di questi numerosi volontari ha sicuramente un valore civico, un significato educativo, una portata culturale che va al di là del risultato concreto, peraltro ragguardevole, del recupero del decoro ambientale.

La città capitale d’Italia al riguardo è emblematica: l’emergenza rifiuti torna spesso d’attualità con i cumuli di spazzatura nelle strade, con il ping-pong di responsabilità fra gli enti pubblici interessati, con gli impianti incapaci di smaltire l’immondizia, con la raccolta differenziata che è lungi dal risolvere il problema dello smaltimento regolare ed ecologicamente corretto.

Se fossi il sindaco o l’assessore all’ambiente o il presidente dell’ente incaricato della nettezza urbana, proverei vergogna, ma ormai tutti hanno la scusa pronta: il governo chiama in causa le regioni, le regioni buttano la palla ai comuni, questi sostengono che l’impiantistica sia una competenza regionale, i comuni poi hanno scarsità di risorse e   delegano questi servizi ad enti ad hoc, l’assessore aspetta l’imprimatur della giunta, la giunta attende l’approvazione del bilancio preventivo, il direttore dell’ente preposto aspetta l’arrivo di nuovi mezzi tecnici e la possibilità di assumere nuovo personale, i sindacati indicono scioperi perché i lavoratori, per la scarsità degli addetti, sono costretti a orari pesanti, etc, etc. Tra l’altro queste nuove società miste pubblico-privato, che gestiscono i servizi di nettezza urbana, di raccolta rifiuti, di manutenzione del verde, hanno livelli tali di autonomia da essere ormai fuori dalla portata dei comuni. Un tempo, come diceva un ex-amministratore di una azienda municipale, il sindaco, se vedeva una strada sporca, un quartiere degradato, poteva sollevare il telefono e chiedere conto. Oggi ci sono i manager, specialisti nel quadrare i bilanci in un modo molto semplice, prestare servizi carenti a fronte del pagamento di utenze sempre più costose.

Così i cittadini pagano le tasse comunali e i compensi per determinati servizi e poi, se vogliono che il loro quartiere o i giardinetti sotto casa godano di un livello accettabile di pulizia, alla domenica prendono una ramazza e un sacco per raccogliere le immondizie e vanno a fare gli straordinari.

È opportuno che, di fronte alle evidenti difficoltà dell’ente pubblico a soddisfare l’esigenza di certi servizi, la società faccia di necessità virtù e si candidi a gestire alcune fasi più scopertamente bisognose di risposta in un proficuo rapporto di collaborazione pubblico e privato: questo è il principio di sussidiarietà, che dovrebbe però trovare applicazione istituzionale, contrattuale ed economicamente onerosa, altrimenti diventa un arrangiarsi vero e proprio ed un mero sostituirsi a chi dovrebbe svolgere un compito e butta la spugna perché non è in grado di farlo. Una scelta di comodo da parte dell’ente pubblico, che approfitta della disponibilità dei cittadini.

Credo che questi interventi spontanei abbiano e debbano avere anche e soprattutto lo scopo di provocare e diffondere il senso civico nei cittadini e la responsabilizzazione nei pubblici amministratori. Io sarò legato a schemi superati, ma non penso che ci si possa illudere di risolvere così i problemi e forse nessuno coltiva questa illusione. Ammiro chi si impegna mentre io faccio chiacchiere, sono convinto che tutto sommato possa essere la miglior forma di protesta-proposta. Attenti a non cadere nell’esibizionismo ambientale, nel volontariato una tantum, nel velleitarismo civico. Qualcuno parla e scrive di “un immenso cantiere di cittadinanza attiva, che racconta un’Italia solidale fatta di famiglie, ragazzi, pensionati, decisi nel loro piccolo a salvare il mondo”. Mi sembra un quadro idilliaco e francamente un po’ esagerato, ma ben venga chi si impegna, chi considera che “la pulisìa l’è méz magnär”, purché…qualcuno non speculi sulle pulizie fatte gratis dall’esercito dei volontari.

Dopo i lumini restano i cerini

Tutti i commentatori politici sono concordi nel cogliere in filigrana, rispetto alla recente vittoria elettorale europeista di Emmanuel Macron in Francia, il rafforzamento dell’asse franco-tedesco a supporto del rilancio dell’integrazione europea. E l’Italia? Sarebbe interlocutore di seconda mano a causa della sua debolezza economico-finanziaria coi parametri sempre in bilico, ma soprattutto del suo precario assetto istituzionale, della sua instabile e imprevedibile governabilità e delle sue incerte prospettive politiche che la rendono il punto debole e critico del futuro europeo.

A parte che tedeschi e francesi non sono esenti da colpe in campo economico-finanziario (il debito pubblico francese non è roba da niente e il surplus commerciale tedesco è roba scorretta), a parte l’inspiegabile vocazione francese a connettersi più con la “ricchezza” del Nord-Europa che con la “povertà” dell’Europa mediterranea (speriamo che Macron la finisca con la ricerca della grandeur di facciata), a parte che i rischi populisti non sono una esclusiva della politica italiana (le tentazioni antieuropee sono sempre dietro l’angolo), a parte la storica sottovalutazione dell’Italia che non passa di moda (nonostante gli elogi consolatori di Junker), a parte tutto ciò l’Italia fa una certa fatica a conquistare la promozione in serie A.

Ebbene concentriamoci un attimo sui gap istituzionale e governativo. La riforma istituzionale si era avviata, ma è stata bocciata anche e soprattutto da coloro che oggi piangono sul fatto che il nostro Paese sconta un pericoloso ed emarginante ritardo su questo terreno. La riforma era ben vista a livello europeo, ci avrebbe aiutato nel metterci al passo con gli assetti istituzionali dei partner più importanti: l’abbiamo liquidata, assecondando i soliti pruriti puristi di pochi e le scontate ostilità pregiudiziali e conservatrici di molti. In sei mesi, a detta di autorevoli (?) sostenitori del No, avremmo rimediato. Non basteranno sei anni!

Ma veniamo alla governabilità e alla stabilità politica. Gli esperti si chiedono: con quale autorevolezza Paolo Gentiloni potrà inserirsi nel gioco franco-tedesco, premier di un governo di scarso respiro temporale e di provvisorio equilibrio politico. Ci sarebbe bisogno di un governo forte.

E allora mettiamoci d’accordo: per avere un governo a mandato temporale lungo e con rappresentanza democratica piena e stabile bisogna passare dalle urne. Non si può fare, perché i problemi sono impellenti ed un momentaneo vuoto politico, con il conseguente salto nel buio, sarebbe un disastro. Dobbiamo quindi rassegnarci alla irrilevanza politica in sede europea per cercare affannosamente gli equilibri politici interni? Anche il presidente Mattarella, così giustamente affezionato all’idea di dare continuità alla legislatura, dovrebbe capire che la continuità a tutti i costi rischia di garantire più debolezza che stabilità. Anche il professor Romano Prodi dovrebbe capire che non è il momento di chiedere governi forti per poi contribuire a vivacchiare in attesa che il Pd faccia quadrare il cerchio del centro-sinistra.

Un conto sarebbe stato presentarsi al tavolo franco-tedesco con il governo Renzi in carica e legittimato dal consenso per le riforme avviate, altro conto è andare a Bruxelles con il governo Gentiloni, dalla vita breve, dal profilo piuttosto sbiadito e dalle prospettive incertissime.

Stiamo perdendo un probabile treno, quello di Macron? A meno che la cancelliera di ferro non arrugginisca in fretta e Martin Schulz non metta a riposo Schauble, riaprendo i giochi anche per l’Italia della prossima legislatura (purché non si faccia trovare impelagata in possibili e nefaste novità populiste o in   raccogliticce grandi coalizioni).   Noi intanto siamo fermi alla legge elettorale: il cerino acceso che passa di mano in mano. Nessuno si vuole scottare. Finiranno col bruciare le poche chance italiane indotte dalla vittoria di Macron.

 

 

 

 

Libero fango in libera (anti)democrazia

Siamo arrivati al punto in cui basta una frase inopportuna di un giudice, quella maliziosa di un giornalista-scrittore per scatenare un finimondo di illazioni e di attacchi. Non so se qualche Ong, impegnata nel soccorso in mare ai migranti, abbia scheletri nell’armadio, non so se l’allora ministra e attuale sotto-segretaria Maria Elena Boschi abbia provato a chiedere l’intervento di Unicredit per il salvataggio della banca di cui era amministratore suo padre. Una cosa so per certo: se andiamo avanti così rischiamo di buttare la democrazia nel cesso.

Non è possibile spargere badilate di merda contro tutto e tutti per coltivare il gusto dell’antipolitica su cui qualcuno sta costruendo o tenta di costruire le proprie fortune: questo non è diritto di cronaca e/o di critica, questo non è trasparenza, questo non è ricerca della verità. Che la corruzione esista e si allarghi sempre più è un dato preoccupante, che non può lasciarci indifferenti. Di qui a ritenere che tutti coloro che sono investiti di pubbliche funzioni o che esercitano un pubblico servizio siano corrotti il passo è lungo e totalmente fuorviante. In Italia si sta sostituendo la presunzione di innocenza con la presunzione di colpevolezza, sul piano giudiziario ed anche su quello politico.

Ferruccio De Bortoli, ex direttore del Corriere della Sera, sputa veleno su chi gli capita a tiro liberandosi probabilmente di tutto quanto avrà dovuto ingoiare durante la sua carriera giornalistica. Non ce lo vedo proprio nelle vesti di fustigatore dell’establishment o in quelle di moralizzatore della politica. A De Bortoli (e non è certo l’unico) sta sulle balle Renzi e tutte le occasioni sono buone per sputtanarlo, direttamente o per interposta persona.

Il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro vuole a tutti i costi insinuare il dubbio che nel settore dell’accoglienza agli immigrati vi siano infiltrazioni affaristiche e mafiose. Non mi risulta che Falcone e Borsellino chiacchierassero a vanvera come sta facendo lui. Mi sembra alla disperata ricerca dell’appiglio per poter un giorno dire: avete visto, ve l’avevo detto!   De Bortoli si vuole rifare una verginità, Zuccaro la lascia intendere in anticipo.

Su queste ipotesi di reato si scatena la strumentalizzazione politica e tutti attaccano tutti come se fossero disonesti patentati, senza capire che così facendo si distrugge la democrazia in un gioco al massacro sulle cui rovine qualcuno crede di costruire un’altra democrazia (quale?).

Oltretutto, nel caso di Maria Elena Boschi, mi sembra non si possa configurare nemmeno lontanamente un reato. Tutt’ al più si tratterebbe di un’invasione di campo da parte della politica nella finanza. Da che mondo è mondo la politica ha sempre sguazzato, direttamente o indirettamente, nel mondo bancario: molti di coloro che oggi fanno gli scandalizzati lo hanno fatto o, quanto meno, lo hanno sopportato o, nella più leggera delle ipotesi, lo sapevano da una vita. E dove è stato fino ad oggi Ferruccio De Bortoli? Perché non ha pontificato al riguardo dagli autorevoli pulpiti giornalistici che ha occupato per anni?

Conflitto di interessi? Ma quale conflitto? Tutto allora confligge con la politica, che dovrebbe isolarsi non nella Camera dei Deputati, ma in una camera stagna.

Non voglio prendermela sempre con Pierluigi Bersani, che afferma: «Non basta una smentita. Bisogna andare a fondo. Se è vera una cosa così, non vedo come Boschi possa restare». Ma mi faccia il piacere… Proprio lui che viene dal Pci-Ds-Pds… Ci parli delle interferenze politiche del suo partito in Monte Paschi Siena (si faccia semmai aiutare dal suo collega Massimo D’Alema). Si ricordi della montatura fatta ai danni di Piero Fassino per una frase illegittimamente pubblicata e sostanzialmente insignificante durante le manovre Unipol per accaparrarsi BNL. Adesso lui incespica in un analogo “niente”: roba da pivellino in buona fede o da spregiudicato politico in mala fede. Cose vergognose! Mi dispiace perché la faziosità degli ex-comunisti rischia di rinfocolare l’anticomunismo. Non sono mai stato anticomunista, ma mi ci stanno tirando per i capelli.

Sono curioso di sapere cosa dirà Federico Ghizzoni, allora amministratore delegato di Unicredit, che, in base a quanto scrive De Bortoli sul suo libro, dovrebbe essere stato involontario interlocutore di una intromissione politica a difesa di interessi di tipo familistico. Sono altrettanto curioso di sapere dove e come finiranno tutti gli elementi in mano ai magistrati di Catania, dietro cui si lasciano intendere intromissioni mafiose o comunque affaristiche nell’organizzazione dei soccorsi e degli aiuti agli immigrati.

Non sarà politica con la “P” maiuscola quella degli attuali governanti, ma non vedo niente di meglio in coloro che danno picconate alla viva il parroco. Era tutt’altra musica quella dei veri ed autentici profeti che hanno contestato il potere e segnato la storia in Italia e nel mondo.

In mancanza di meglio provo ad adottare lo schema dell’antipolitica. E se fosse solo questione di equilibri di potere a livello di establishment, una sorta di riciclaggio interno in cui i Grillo e i Salvini non potranno che abbozzare o lasciarci clamorosamente le penne? Voglio provare a scriverci un libro. Sì, ma io non mi chiamo De Bortoli e mi prenderanno per matto.

Per i cani e i gatti tanta accoglienza, per gli immigrati…

Sessanta milioni di animali domestici, in media uno per ogni abitante della penisola. Dati che mi inducono a pensare. Premetto di non essere un amante degli animali: li rispetto, sono pronto a difenderne i diritti, ma non ho la vocazione ad ospitarli. Chiedo scusa quindi agli animalisti se potrò sembrare un po’ brutale nei miei ragionamenti.

Pur facendo la tara trilussiana alle medie, bisogna prendere atto che sicuramente moltissimi italiani hanno nelle loro abitazioni un animale più o meno impegnativo ed è sperabile che lo trattino bene, anche se non è sempre detto. Mantenere un animale ha un costo significativo. Allora, chi se lo può permettere non pianga miseria, per cortesia. E non mi si faccia credere che sessanta milioni di animali domestici siano ospitati solo dai benestanti.

Conclusione forse azzardata e provocatoria: siamo per caso più attenti e accoglienti verso gli animali che verso gli umani? Per un cane c’è sempre spazio, tempo e danaro; per un figlio bisogna pensarci due volte prima di metterlo al mondo; di un anziano si deve far carico la società; per un immigrato neanche a parlarne, stia a morire nel suo Paese, se arriva da noi rimandiamolo a casa, se muore in mare, pace all’anima sua.

«Per favore, stiamo morendo. Per favore, 300 persone, stiamo morendo». Questo era il grido disperato che nel 2013 non venne raccolto né dall’Italia né da Malta, che preferirono giocare allo scarica-immigrato. E morirono in 268.

E noi, a livello europeo ci palleggiamo le responsabilità e alziamo i muri, a livello italiano stiamo a far le pulci alle Ong, a livello politico facciamo la graduatoria dei disperati, a livello sociale difendiamo con le unghie e coi denti il nostro benessere disturbato da chi ci chiede un “pezzo di accoglienza” e, con tutto il rispetto per i cani, preferiamo questi nostri amici ai nostri simili che muoiono di fame, di miseria, di tortura, di guerra, di naufragio.

Poi ci commuoviamo quando ci sbattono sotto gli occhi certe immagini di bambini morti nei nostri mari. Mio padre mi faceva osservare come se cade un cavallo durante una corsa, siamo subito pronti ad esclamare: «Pòvra béstia…». Se cade un nostro simile magari ci facciamo una bella risata. Così va il mondo. Essere trattati come cani: si dice così per dare l’idea di essere maltrattati. Gli immigrati potrebbero paradossalmente accontentarsi di esser equiparati ai cani di casa nostra.

Un mio carissimo amico si chiedeva: «Non so cosa aspetti il Padre Eterno a distruggerci tutti…». Stiamo bene attenti però. Il Padre Eterno ha tanta pazienza, ma prima o dopo pagheremo queste nostre cattiverie. Stando al Vangelo qualcuno ci chiederà: «Ero disperato, ero scappato dalla guerra, stavo morendo in mare e tu mi hai detto di telefonare a Malta…». La conseguenza, per ciascuno di noi, non sarà una passeggiata. E se qualcuno non crede alla giustizia divina, dovrà vedersela con quella della storia. In fin dei conti gli immigrati che arrivano sulle nostre coste non ci stanno presentando il conto di innumerevoli nostre malefatte verso continenti, popoli e nazioni? Pagheremo caro, pagheremo tutto!

Divorziati: la delusione è pa(l)pabile

Come ebbi a scrivere nell’ambito di un libro-ricerca sul sinodo della famiglia, tanto tuonò che non piovve. Sui temi caldi, divorzio, omosessualità e contraccezione, la delusione è palpabile, sarebbe meglio dire addirittura papabile. Infatti anche l’esortazione di papa Francesco, Amoris laetitia, gira intorno a questi problemi, senza avere il coraggio di prenderli di petto.

Vittoria Prisciandaro e Iacopo Scaramuzzi, su Jesus di aprile 2017, così sintetizzano (elegantemente e diplomaticamente) la questione: «Nell’esortazione postsinodale, papa Francesco si è mosso tra le sponde dell’eredità dottrinale e della realtà pastorale, tra i limiti del diritto canonico e le esigenze del rinnovamento spirituale, tra le aspettative dei riformisti e il malumore dei conservatori. Alla fine ha imposto un nuovo paradigma, spostando il tiro dal primato dei principi astratti all’ideale della vita secondo il Vangelo. Ma il nuovo approccio non è né facile né indolore».

Focalizzando il discorso sul tema del divorzio o meglio dell’ammissione alla vita sacramentale (l’essenza dell’esistenza cristiana) dei divorziati, ci accorgiamo che la Chiesa sconta un ritardo secolare indubbiamente non facile da recuperare: è già stato un mezzo miracolo portare i vescovi a parlarne fuori dai denti del diritto canonico, l’altra metà del miracolo però non è avvenuto, nonostante ci si sforzi di vedere il bicchiere mezzo pieno della svolta pastorale, mentre purtroppo c’è anche il bicchiere mezzo vuoto delle aride conferme dottrinali.

L’Amoris laetitia, non me ne vorrà il pontefice, è un testo pirandelliano: se lo legge un conservatore ci trova il rispetto per gli inossidabili principi dottrinali; se lo analizza un riformista, vi individua promettenti aperture pastorali.

Al di là dell’accademia, per il divorziato, più o meno risposato, in alternativa all’emarginazione c’è una lunga, fumosa e “cruenta” trafila di riammissione: come si dice oggi, un “percorso” di reintegro lasciato al discernimento dei pastori presenti sul territorio. Al solo pensarci mi viene freddo. Il divorziato non è più bocciato, ma rimandato: deve andare a lezione, deve esercitarsi, deve studiare, deve dimostrare pentimento, ravvedimento, recupero e cambiamento, per poi sostenere un esame di riammissione. Siamo ad una sorta di elegante gogna pastorale, dove da una parte ci sono i giusti, i bravi che aiutano, bontà loro, quanti dall’altra parte vivono in condizione di peccato.

Se qualcuno trova nel Vangelo traccia di simili idiozie, merita di essere fatto santo subito. Il cardinale Francesco Coccopalmerio, presidente del Pontificio consiglio per i testi legislativi (l’incarico di per sé è tutto un programma e ci porta in una dimensione burocratica della fede), dice: «Le condizioni essenziali per essere ammesso ai sacramenti della Penitenza e della Eucaristia dovranno essere sottoposte ad attento e autorevole discernimento da parte dell’autorità ecclesiale. Verissimo, infatti, si rivela, specialmente in queste occasioni, il ben noto principio: nemo iudex in causa propria. L’autorità ecclesiale sarà, almeno normalmente, il parroco, che conosce direttamente le persone e può per tale motivo esprimere un giudizio adeguato per queste delicate situazioni. Potrebbe comunque, essere necessario o, almeno, assai utile un servizio presso la Curia, in cui il vescovo diocesano, analogamente a quanto previsto per i casi difficili di matrimonio, offra una apposita consulenza o anche una specifica autorizzazione a questi casi di ammissione ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia». Mi fermo perché mi si riacutizza l’ulcera allo stomaco…

Vorrei che il suddetto cardinale rispondesse all’obiezione di padre Alex Zanotelli, un missionario comboniano avvezzo ad affrontare il cristianesimo da ben altra angolatura evangelica: «Chi è divorziato non potrebbe comunicarsi, la stessa proibizione la dice l’Humanae vitae per una donna che prende la pillola, mentre chi ha milioni e milioni in banca la comunione la può fare». Si attende risposta anche da papa Francesco, molto agguerrito sul fronte contrario ai milioni in banca (mi sta benissimo), un po’ meno aperto su quello della morale sessuale (s’è impantanato lì anche un suo predecessore, forse il più illustre, Paolo VI). Se è il prezzo che deve pagare ai conservatori per far loro digerire lo stringente messaggio della carità, non mi sta bene perché è carità anche mandare in pace i divorziati.

 

P.S. Chi volesse approfondire la tematica del Sinodo sulla famiglia può consultare il sopra citato testo contenuto nella sezione “Libri” di questo sito internet.

Macron, speriamo che se la cavi

A cavallo fra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso a Parma esisteva una emittente radiofonica, politicamente legata agli ambienti della cosiddetta sinistra extra-parlamentare, radio popolare (credo di ricordare si chiamasse così), che offriva agli ascoltatori una rubrica settimanale di dialogo col pubblico, curata da un personaggio pittoresco, una sorta di talk show radiofonico in cui la politica veniva sminuzzata a livello di improperi e battute improntate al più duro comunismo, al più sferzante anticlericalismo, al più feroce antifascismo.

Un giorno arrivò una telefonata da una ascoltatrice tendente a sputtanare il conduttore a livello personale. La rissa ideologica e politica era lo scopo della trasmissione e quindi niente di strano in questi dialoghi serrati e sconclusionati dove si scontravano in senso verbale rivoluzione e reazione. Infatti la replica, giocata tutta sul piano personale, fu immediata e fuori dai denti: «Ti ho conosciuto, sei una fascista, non mi posso sbagliare…».

In effetti il modo di ragionare di stampo fascista è riconoscibile. Per fortuna i Francesi hanno colto questo stampo inconfondibile nella proposta politica di Marine Le Pen e l’hanno smascherata ed arginata. Il fascismo, ora come allora tenta di assumere   sembianze protettive nei confronti degli emarginati dal sistema, cerca di dare una valenza sociale alla propria linea politica, cavalca i sentimenti nazionalisti, razzisti, protezionisti e patriottici, vuole dare semplicistica e populistica risposta (fuori o a latere della rappresentanza politica democratica) allo scontento, alla insicurezza, alla paura, alla sfiducia, al qualunquismo. La storia si ripete con diverse modalità, ma la sostanza rimane immutata.

Ricordo i rari colloqui tra i miei genitori in materia politica: tra mio padre antifascista a livello culturale prima e più che a livello politico e mia madre, donna pragmatica, generosa all’inverosimile, tollerante con tutti. «Al Duce, diceva mia madre con una certa simpatica superficialità, la fat ànca dil cosi giusti…». «Lassema stär, rispondeva mio padre dall’alto del suo antifascismo, quand la pianta lé maläda in til ravizi a ghé pòch da fär…».

Sarebbe stato un vero guaio se i Francesi fossero caduti nel tranello e si fossero tirati in   casa (una casa larga, anche nostra, la casa europea) un fantasma simile: l’elettorato francese si è fermato in tempo e gliene dobbiamo essere oltremodo riconoscenti.

Scampato pericolo, ma adesso? La politica deve ritrovare la forza di offrire seria, positiva e democratica rappresentanza alle istanze popolari abbandonando ogni e qualsiasi spinta populista, deve rilanciare l’ideale europeista sganciandolo dalle rigide e burocratiche impostazioni, deve aprire la società convincendo i cittadini che i problemi si risolvono aprendo porte e finestre e non chiudendole ermeticamente, deve prospettare una classe dirigente rinnovata e credibile, deve tarare istituzioni e programmi sui bisogni dei cittadini e non il contrario.

Non so se Emmanuel Macron sarà in grado di avviare simili processi. Alcune interessanti premesse valoriali e di metodo le ha poste: una certa credibilità gli viene dal non essere legato agli schemi politici tradizionali; si è presentato come un europeista ultra-convinto; ha un approccio alla politica anti-ideologico, moderno e pragmatico; promette di coniugare al meglio libertà, uguaglianza e solidarietà (tutto scritto nella storia del suo Paese, che ha fatto storia per tutti).

Capisco, ma non condivido, tutti i dubbi, le perplessità, le pregiudiziali, le cautele, i parallelismi, in cui si stanno esercitando i commentatori. Preferisco sperare e in questo senso mi è particolarmente piaciuto il commento del premier italiano Paolo Gentiloni: «Evviva Macron, una speranza si aggira per l’Europa». E Macron gli ha indirettamente risposto facendosi accompagnare, nella breve e solitaria camminata del Louvre verso l’apoteosi, dall’inno alla gioia di Beethoven, l’inno europeo. Solo, serio, a passo normale, senza ostentazione, sulle note dell’Europa. Auguri Presidente!

Gli spinelli della discordia

Sembra entrata in una fase calda la discussione sulla legalizzazione della Cannabis, la meglio nota marijuana, una cosiddetta droga leggera, bloccata a livello legislativo in Parlamento, sepolta sotto il solito gioco massimalistico (mentre i parlamentari disquisiscono, i clan mafiosi fanno affari), dimenticando che la politica è l’arte del possibile e non la ricerca della perfezione dogmatica (che oltretutto non esiste).
Mi sembra che l’opinione del procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, peraltro molto attento a non trascinare la magistratura in un campo non suo, sintetizzi in modo appropriato e costruttivo la questione: la priorità è la lotta agli imperi criminali; occorre concentrarsi su nuovi, moderni e più efficaci strumenti di attacco alle finanze dei trafficanti; lo Stato, nella sua centralità e in via esclusiva, può occuparsi della coltivazione, lavorazione e vendita della cannabis e dei suoi derivati, sottraendo spazi di mercato a ‘ndrangheta e camorra o ai clan nord africani, afgani e albanesi.
Il punto critico della questione mi pare però quello dell’impatto eventuale sul consumo soprattutto a livello giovanile: la legalizzazione lo favorisce, è benzina sul fuoco? Le indagini statistiche, effettuate nei sempre più numerosi Paesi anti proibizionisti, sembrano dimostrare che non ci sia un significativo effetto espansivo e ciò costituisce già una realistico elemento di pragmatica e doverosa cautela.
Credo che il punto fondamentale da cui partire sia peraltro ben esposto da Nicola Quadrano, un giudice (ben venga l’opinione dei magistrati quando porta un contributo su problemi scoperti a livello legislativo e che quindi si ripercuotono sull’applicazione della giustizia, dall’impegno delle forze dell’ordine all’intasamento dei tribunali e delle carceri) esperto e impegnato in materia: «Il proibizionismo di fronte a certi problemi sociali, che non si riescono ad eliminare, è la risposta peggiore perché si rinuncia a governarli, rigettandoli nella sfera dell’illegalità e accrescendo l’insicurezza. Se si riporta il tema nella legalità e si regolamenta l’uso delle droghe leggere ciò consentirà di governare il fenomeno».
Anche a livello educativo, proibire qualcosa è sempre un involontario impulso alla trasgressione. Mi si risponderà che il permissivismo può portare alla distruzione: anche questo è vero. Bisogna dosare i due meccanismi e non è facile. Si parla infatti di droghe leggere. Qualcuno sostiene che siano l’anticamera di quelle pesanti. Allora però tutto può essere preludio al peggio: fumo, alcol, frequentazione delle discoteche, etc. etc.
Il problema va affrontato, una buona volta e laicamente, a livello legislativo. Il nodo a livello parlamentare sembra essere se limitare la destinazione della marijuana all’uso terapeutico o allargarlo a quello ricreativo per i maggiorenni. Siamo alle solite pretestuose schermaglie ed ai raffinati distinguo tra depenalizzazione e legalizzazione. Speriamo non ne escano le solite barricate ideologiche culminanti nel consueto compromessone all’italiana.
Fatta la legge fatto l’inganno? L’inganno lo abbiamo già! Proviamo a smascherarlo. Non sopporto il giocare a nascondino dietro i sacrosanti principi finendo con l’ imbalsamare ed incancrenire i problemi: meglio provare pragmaticamente ad affrontarli pagando inevitabili prezzi a livello ideologico. Il resto poi sta nelle contraddizioni della nostra società e qui il discorso si fa grosso e va ben oltre e sta a monte delle droghe leggere e/o pesanti.