Una Cei a (bergogliana) libertà vigilata

Ho intravisto, come del resto molti commentatori, con sollievo e soddisfazione la nomina del nuovo presidente della Conferenza episcopale italiana, quale fine di un lungo e oscuro periodo nella conduzione dell’episcopato italiano volto più alle manovre ed ai compromessi politici che all’impegno pastorale

“La Chiesa negli ultimi 30 anni si è abituata a un abito clericale che garantisce la riproduzione del proprio apparato senza che a questo corrisponda un rinnovamento profondo legato all’evangelizzazione”, così dice don Luigi Ciotti e questo discorso vale anche e, forse, soprattutto per la Chiesa italiana.

Quindi finalmente si ha la sensazione e la speranza di un voltare pagina, di un cambio di registro, indotti dal nuovo stile papale e dalle sue scelte, che pian piano arrivano a toccare anche le persone a livello di gerarchia. Non so fino a qual punto il cardinale Gualtiero Bassetti, vescovo di Perugia, sarà in grado di compiere l’auspicata svolta a livello Cei: avrà in questo un appoggio ed un conforto essenziale nel Papa, che lo ha nominato seppure dietro segnalazione di un’assemblea comunque ben orientata dalle evidenti opzioni bergogliane.

Il pontificato di Francesco, assieme alle tante speranze di rinnovamento, mi mette un serio dubbio: il suo carisma, la sua sensibilità, il suo coraggio stanno ponendo beneficamente a soqquadro la Chiesa a tutti i livelli. La sta letteralmente rivoltando come un calzino, almeno in certi campi fondamentali. Il timore è però che tutto ciò possa essere esclusivamente legato a lui e non si traduca a cascata in metodi, stili e procedure nuovi per la gerarchia e per la Chiesa che vive con lui e che verrà dopo di lui. Lunga vita a papa Francesco, ma la Chiesa deve andare oltre e metabolizzare i suoi insegnamenti traducendoli in tesori che non soffrano l’usura del tempo.

Per tornare alla nomina del presidente della Cei, questa volta (regnante papa Francesco) la regola della nomina papale si è rivelata opportuna, ma non è concettualmente giusta: gli equilibri potrebbero ribaltarsi nel tempo e quindi sarebbe importante fissare una regola democratica fino in fondo, che vada al di là delle terne (sono sempre state un escamotage per glissare democrazia e responsabilità).

Vedo che in tutto si sta verificando questo stretto collegamento tra stile papale e stile ecclesiale: può essere uno stimolo ed un impulso, ma potrebbe rivelarsi anche un freno e soprattutto, in prospettiva, una fuga dalla partecipazione ed un preludio al ritorno indietro.

Mi si dirà che la Chiesa ha un asso infallibile nella manica: lo Spirito Santo, un Dio che vede e provvede, ma che vuole anche avere bisogno degli uomini e li lascia spesso sbagliare. Sarebbe quindi a mio giudizio molto importante che le “conquistate novità bergogliane” fossero sistematicamente consolidate.

Servirebbe anche a togliere un peso   eccessivo che va accumulandosi sulle robuste spalle di Francesco, ma non ha senso trasformarlo nel “superpapa” della rivoluzione. Forse non c’è bisogno di superuomini e di rivoluzioni, basta tornare al Vangelo. In fin dei conti è quel che sta facendo Bergoglio, ma si sforzi di tradurlo in pillole da far ingoiare alla Chiesa istituzione e alla Chiesa comunità. Non deve aver paura, il popolo di Dio è con lui. E non succederà quel che successe a Gesù dopo qualche giorno da quando lo osannavano come Figlio di Davide. Anche perché, come lui chiede continuamente (probabilmente sente tutto il peso e teme di soccombere), si sta pregando molto per lui: chiedete e otterrete…

Il sangue degli innocenti lavi gli equivoci religiosi

L’escalation del terrorismo islamico, alla cui origine si pongono motivazioni di ordine storico, economico, sociale, politico, mi induce sempre più a valutare anche le ragioni di carattere religioso. Il discorso vale, a maggior ragione, quando l’attentato è opera di kamikaze, i quali devono per forza avere motivazioni molto forti, che, direttamente o indirettamente, sono riconducibili a una qualsivoglia ispirazione religiosa portata all’ennesima potenza fanatica.

Non sono un conoscitore dell’Islam: so però che è una religione del libro, il Corano, e questo libro evidentemente si presta a non pochi equivoci sui quali si può basare il fanatismo omicida. A questo discorso si controbatte giustamente ricordando come anche i cristiani nella storia ne hanno combinate di tutti i colori in nome della religione, basti pensare alle Crociate e all’Inquisizione.

C’è però una differenza abissale: mentre nel Corano ci possono essere appigli tali da giustificare la follia contro gli infedeli, nel Vangelo, come ricorda autorevolmente il vaticanista Aldo Maria Valli, non possono sussistere equivoci. Chi uccide in nome di Gesù Cristo è completamente e inesorabilmente fuori strada, perché il protagonista del Vangelo è morto in croce per insegnarci anche e soprattutto la non violenza. E l’antico testamento della Bibbia? Purtroppo presenta anch’esso non pochi margini di equivoco, che vengono però spazzati via dalla vita di Gesù: se le scritture fossero state esaurienti non sarebbe stata necessaria l’Incarnazione. Non a caso il Cristianesimo è una religione della persona e non del libro; non a caso Gesù non ha scritto nulla e ci ha lasciato esempi di vita, concreti, precisi ed inequivocabili; non a caso Gesù ha più volte affermato che veniva non a cambiare, ma a superare e dare compimento alle antiche leggi (che vuol dire ben più di cambiare).

Con tutto ciò non voglio dire che il discorso verso l’Islam sia troppo accondiscendente e comprensivo, per come ad esempio si comporta papa Francesco, ma proprio questo dialogo aperto e leale, questa incondizionata ed evangelica apertura di credito, deve mettere coloro che hanno il ruolo di interpretare il Corano davanti alle loro responsabilità per farli uscire da ogni e qualsiasi omertosa tolleranza. Si continua a leggere di imam inquisiti ed espulsi, di moschee chiuse per istigazione al terrorismo, di plagi effettuati all’interno delle carceri, di possibili contiguità tra i “preti” islamici e le fasce di soggetti più esposti alla cosiddetta “radicalizzazione”.

Di pari passo occorre che gli islamici rispettino rigorosamente le leggi dei Paesi che li ospitano soprattutto in materia di diritti irrinunciabili e collegabili al rispetto della persona umana. In questo senso non c’è Corano che tenga: le donne hanno parità di diritti, i bambini pure, la vita è sacra e non si tocca, etc. etc. Non basta l’indignazione contingente, ci vuole una quotidianità che sappia prendere le distanze ed isolare ogni e qualsiasi fanatismo.

L’Isis spera di mettere i musulmani e i cristiani in guerra fra loro. I cristiani non devono cadere nel tranello della comoda generalizzazione e tanto meno rifugiarsi nella strategia del muro contro muro. I musulmani però devono uscire totalmente dall’equivoco, dalle riserve mentali, dalle vendette ataviche, dalle zone d’ombra. Solo nella estrema chiarezza si può convivere, dialogare, collaborare, volersi bene.

Ce lo chiedono le vittime innocenti delle stragi a sfondo religioso: Gesù è scampato ad una di queste per poi autoconsegnarsi ai suoi carnefici al momento giusto, al fine di azzerare la religione che osa uccidere.

 

P.S. Chi fosse interessato ad approfondire questa materia, può fare riferimento alle riflessioni sul terrorismo islamico di cui al saggio “Il paradosso: l’amore ci divide…la violenza ci accomuna”, contenuto nella sezione libri di questo sito.

Non c’è vaccino contro il morbo di Trump

Di fronte all’evidente sciagura dell’elezione di Trump, emergente dalle sue prime mosse strategiche e tattiche e condizionata dall’aria di impeachment che spira intorno alla Casa Bianca, i suoi imbarazzati difensori, americani e non, si nascondono dietro due luoghi comuni: Trump ha vinto perché era ed è contro l’establishment; Trump, a livello internazionale, non sta facendo niente di molto diverso rispetto a Obama.

Il discorso dell’establishment sta diventando l’alibi dietro cui si nascondono tutte le più assurde, inconsistenti e insensate proteste populiste: l’importante è riuscire a bucare il video dell’antipolitica, dopo di che tutto va ben e tutto fa brodo. Persino i vaccini vengono ascritti al sistema di potere e quindi devono rimanere opzionali. Il marxismo riportava tutti i problemi al conflitto di potere nei rapporti economici, l’attuale populismo li riporta allo generica battaglia contro lo strapotere delle classi dirigenti. Pura ideologia, che nel primo caso aveva presupposti scientifici, nel secondo ha solo fondamenti mediatici e psicologici.

Non ha importanza se Trump è stracarico di conflitti di interesse, se sta difendendo precisi interessi petroliferi, se pesca nel torbido del marasma economico-sociale americano e mondiale, se dimostra la più totale incompetenza e impreparazione, se si muove nell’incoerenza fatta sistema, se recita a soggetto di fronte ai problemi più delicati e complessi. È il simbolo dell’anti establishment (che tra l’altro nessuno spiega bene cosa sia) e questo basta anche ai trumpiani o trumpisti di casa nostra.

L’altro luogo comune è la presunta sostanziale continuità rispetto a Barak Obama. Durante le recenti visite in Arabia Saudita e in Israele ha letteralmente capovolto la strategia obamiana volta all’evoluzione democratica nei Paesi arabi, alle aperture verso l’Iran, all’appoggio critico verso Israele. Si passa con incredibile superficialità dal Trump innovatore ante litteram al Trump pedissequo continuatore. Quando fa e dice certe cose è un sano riformatore, quando fa e dice altre robe (da matto) è in linea col passato.

Dietro Trump ho l’impressione che si celi tutta la contraddizione della politica attuale: l’ansia di corrispondere a tutte le paure, magari appositamente create o enfatizzate, per mettere sostanzialmente a repentaglio le fondamenta del sistema democratico. Provate a leggere in questa chiave le mosse di Trump e vi ci ritroverete. Manco a farlo apposta è entrato alla Casa Bianca con un blitz anti-democratico (come interpretare diversamente la sua elezione con milioni di voti in meno rispetto alla Clinton).

Non so se questa sbornia durerà e fino a quando potrà durare. Non ho grande fiducia negli impeachment: nel clima attuale rischiano di essere veri e propri boomerang. Non nutro grande considerazione nella capacità reattiva della società civile americana: è così confusa, contraddittori ed articolata… Non mi illuderei più di tanto rispetto agli attacchi della stampa e dei media: esagerano e gli offrono l’arma del vittimismo. Non concedo credito agli esperti ed ai commentatori che lo prevedono in rapida e obbligata conversione alla realpolitik: non ha infatti il senso della realtà perché vive in un mondo virtuale connotato ai suoi deliri di onnipotenza; non ha senso politico in quanto affronta tutte le situazioni, anche le più ingarbugliate, con piglio teatralmente decisionistico, estremizzando la scelta tra male e bene, che purtroppo non stanno mai da una sola parte.

Più osservo il comportamento, anche esteriore, di Donald Trump e più mi viene spontaneo il parallelismo con Silvio Berlusconi. Indro Montanelli, in riferimento al berlusconismo, sosteneva si trattasse di una brutta malattia, che doveva fare il suo corso per consentire la creazione degli anticorpi. Aveva perfettamente ragione: non ne siamo ancora perfettamente guariti. Se tanto mi dà tanto, abbiamo davanti una lungo-degenza da morbo di Trump, da cui non so come usciremo. Io, molto probabilmente, non farò in tempo ad uscirne. Auguri a chi può sperare in meglio, almeno per motivi anagrafici.

La solitudine degli eroi

Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa operava, come prefetto di Palermo, con grande energia e coraggio contro la mafia, mio padre ascoltava con interesse ed apprensione le notizie relative. Notava che questo servitore dello Stato si stava esponendo a grossi rischi e che forse non era sufficientemente coperto e protetto dalle Istituzioni, temeva che fosse allo sbaraglio, solo contro tutti o quasi tutti. Davanti ai telegiornali che riportavano le iniziative di Dalla Chiesa si esprimeva alla sua maniera: «Col Cèza lì al fa ‘na brutta fén, second mi ial fan fôra…». Lo ripeteva con grande apprensione tutte le volte che il generale appariva in video. Fu purtroppo facile profeta. Quando successe il fattaccio, assai sconsolato e demoralizzato mi disse: «A l’äva dítt, lilôr in schèrson miga, bisogna tirärogh déntor tùtti e dabon, inveci ian mandè avanti Céza e il an lasä da lu». Aveva ragione.

È la sorte toccata a chi ha combattuto la mafia come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Mi sono sempre chiesto come mai i mafiosi abbiano usato la strada maestra dell’attentato per far fuori i loro nemici a livello di servitori dello Stato. Mi si perdonerà una banale similitudine. Razionalmente pensavo che al mafioso potesse succedere la beffa, come in capo a quel buontempone, una di quelle persone che non si riesce mai a capire fino in fondo se “ci arrivano o ci marciano”, che era uno specialista nel collocare le trappole per catturare i topi (almeno così diceva lui). Era però illuso di risolvere così definitivamente il problema al punto che, dopo averli catturati, inforcava la bicicletta e li portava in aperta campagna, poi li liberava in qualche prato. Una volta, ritornato frettolosamente a casa, si trovò di fronte ancora a due bei ratti in piena forma. Li guardò con stupore e disse tra sé, ma anche rivolto a loro: «Dio av maledissa, siv béle chi, iv fat pu a la zvèlta che mi a tornär indrè?».

Fuor di metafora: uccidete me, ma dietro di me c’è subito chi è pronto a raccogliere il testimone e che è al corrente dei risultati delle mie inchieste; non potrete uccidere tutti…

Ebbene, il problema è che questi uomini impegnati coraggiosamente in prima linea sono stati lasciati soli, a volte addirittura osteggiati, beffeggiati o sottovalutati, e allora la faccenda si è fatta molto problematica e drammatica. Forse, al di là di tutto, i colpi inferti alla mafia dipendono proprio dai passi avanti compiuti nel senso di allargare e interconnettere le indagini in modo da rendere non più così efficace l’aggressione e l’eliminazione del singolo.

Certo, se un magistrato non può fidarsi dei colleghi, dei poliziotti a sua disposizione, dei politici che governano il territorio e lo Stato, nemmeno della gente perché non parla e   magari sta dalla parte sbagliata, la gara diventa impossibile. Si tratta di agire su tutti questi piani. Occorre cioè l’impegno e il coraggio di tutti per mettere veramente a frutto l’eroismo dei pochi.

A che punto siamo? Mi sembra difficile stabilirlo. La mafia si è allargata a macchia d’olio ed è forse ancor più difficile combatterla. Si è introdotta in tutti i settori ed è ancor più arduo sradicarla. Forse l’abbiamo vicina e non riusciamo a coglierne l’immanenza e l’invadenza.

Alcuni sostengono che Falcone, Borsellino ed altre vittime non debbano essere considerati eroi, altrimenti si rischierebbe di enfatizzare la lotta rendendola un fatto mitico e fuori dalla portata della gente comune. Non sono d’accordo. Questi uomini sono degli eroi impegnati in una guerra che ci riguarda tutti da vicino. La loro vita e la loro morte devono scuoterci. Chi è l’eroe? Non un soggetto che compie imprese impossibili, ma che fa il proprio dovere fino in fondo, senza sconti e senza compromessi, fino alle estreme conseguenze. Ricordiamoci che il sacrificio cruento dipende anche dalla solitudine: è questo isolamento che costringe il testimone all’eroismo. Mi piace fare un parallelo tra i martiri della fede e questi martiri laici. È la stessa cosa: ci credevano davvero. Gli uni in Dio, gli altri nello Stato. Non vedo contraddizione tra i due campi, anzi… Però non dobbiamo lasciarli soli!

Parolin(a) per il populista frou frou

A pensar male ci si azzecca e quindi penso di non sbagliare vedendo nel corso della politica grillina una mera e spasmodica rincorsa populista al consenso. Chi è che gode nel mondo e in Italia della maggiore popolarità? Non ci sono dubbi di sorta: papa Francesco. E allora sotto con la Chiesa e i cattolici, saldando l’insofferenza etica dei credenti-praticanti con la disponibilità trattativista della gerarchia e con una certa qual presunta ingenuità politica del pontefice. Quindi lisciamo il pelo ai cattolici: punto d’attacco i problemi del lavoro (con la strumentale opposizione al lavoro domenicale, che tanto preme alla Chiesa); laicismo ma non troppo (i fondi alle scuole private possono rimanere in essere per i nidi e le scuole materne); attenzione ai poveri ma senza esagerare con gli immigrati (meglio la marcia Perugia-Assisi per il reddito di cittadinanza); diritti civili ma post-ideologici (è fondamentale l’autodeterminazione, intesa come la possibilità data ai cittadini di essere cittadini. Cosa voglia dire, non saprei…).

Quando si arriva al dunque i grillini scappano: è successo con l’attacco indiscriminato ai soccorsi in mare ed è successo e succede per l’accoglienza ai migranti. Troppo forte la paura della gente per schierarsi. Meglio nascondersi dietro la finta moralizzazione delle procedure di accoglienza e integrazione piuttosto che combattere apertamente il razzismo, meglio tacere piuttosto che reagire agli sproloqui xenofobi, meglio ondivagare sugli argomenti caldi, come per l’obbligatorietà dei vaccini, piuttosto che prendere posizioni ritenute scomode e poco popolari.

E quando vengono trovati in castagna, beh, basta attaccare il Pd, c’è sempre un motivo pronto di polemica con cui distogliere l’attenzione dai propri limiti di credibilità e coerenza. Non so fino a quando potrà reggere questo andazzo. A scanso di equivoci, meglio farsi amico il papa o almeno i vescovi italiani o almeno il loro giornale quotidiano o almeno i cattolici spaesati o almeno gli operatori e le famiglie della scuola cattolica o almeno chi non vuole lavorare alla domenica o almeno…

Con la marcia Perugia-Assisi, nata nel 1961 come marcia della Pace e ridotta dal M5S a megafono itinerante per equivoche battaglie contro la povertà, qualcosa non è andato per il verso desiderato: alle sparate filofrancescane di Grillo ha posto un indiscutibile alt il segretario di Stato vaticano Pietro Parolin, evidentemente piuttosto seccato del surrettizio dialogo aperto tra mondo cattolico (?) e mondo grillino. Non c’era forse bisogno di dirlo, ma fra san Francesco e Beppe Grillo c’è poco da spartire: l’occasione è stata comunque utilizzata dal massimo esponente della diplomazia vaticana per mettere fine alle illazioni e alle illusioni successive agli svarioni editoriali di Avvenire e per rimarcare la netta separazione fra Chiesa e schieramenti politici (Grillo compreso). Evidentemente il leader cinque stelle non si è accontentato dell’avventata apertura di credito tarquiniana, ha voluto strafare inserendo le proprie battaglie nello spirito francescano: gli è stato risposto che a scherzare con i messaggi dei politici si può provare, con quelli di san Francesco è meglio lasciar perdere.

Del girovagare post-ideologico di Beppe Grillo trovo qualche riscontro nelle clamorose contraddizioni di Donald Trump, così descritto dal leader M5S: «Lui è l’espressione plastica della fine della “sinistra frou frou”, la gente si è stufata degli Obama e dei Clinton, tutto il loro essere di sinistra trova sfogo nel concedere qualche diritto senza costi e sorridere bene davanti alle telecamere. Ma Bill Clinton è stato uno dei grandi deregolatori, uno di quei potenti che hanno lasciato libera la finanza di impazzire e buttarci ai piedi del resto del mondo. Barak Obama non è intervenuto in nulla che davvero contasse a Wall Street, non ha fatto sì che il verso delle cose cambiasse ed ha finito per circondarsi degli stessi consulenti economici di Bush. Non importa come la pensi Trump, oppure cosa abbia in comune con gli altri casi di esasperazione alle urne, la sua elezione è stata una sorpresa perché l’establishment americano è molto più ottuso di quanto si possa immaginare».

Dopo i recenti svarioni strategici di Trump culminanti nel suo strampalato viaggio in Arabia Saudita, le dichiarazioni di Grillo diventano ancor più assurde, al limite del demenziale. Mi permetto solo di auspicare che la Chiesa istituzione non abbia tentennamenti di sorta e non cada nel tranello grillino (sembra fortunatamente, come scritto sopra, che abbia fatto un netto distinguo), dopo essere sprofondata in quello berlusconiano e di aggiungere: «Preferisco la sinistra “frou frou” di Obama e Clinton al populismo frou frou di Beppe Grillo e dei suoi mentori Trump e Putin».

L’Istat scopre l’acqua calda

La società italiana non si divide più nelle tradizionali classi sociali, borghesia e operai, ma risulta molto più frazionata ed articolata: migranti, disoccupati, anziani soli, giovani blue-collar, provinciali, pensionati di bronzo, d’argento e d’oro, classe dirigente. Lo avevamo visto e capito da tempo, ma ci mancava il timbro dell’Istat: adesso possiamo esserne sicuri. Chi ha definito la sociologia come “elaborazione sistematica dell’ovvio” non è andato lontano dal vero. Mi irritano le cose calate dall’alto, soprattutto quando sono già di dominio comune. Ma lasciamo perdere.

Queste analisi servono se ci spingono a fare i conti con la realtà, con i problemi che la caratterizzano. Ognuna delle suddette categorie è portatrice di precisi interrogativi. Provo ad elaborarne alcuni in modo lapidario: gli immigrati sono un problema o una risorsa? Ci stiamo occupando dei disoccupati? L’anzianità associata alla solitudine ci mette in ansia? I giovani che si inventano un lavoro in proprio ci interessano? Chi vive nelle periferie rischia di essere tagliato fuori? I pensionati ci costano caro, ma ci accorgiamo che sono il sostegno delle giovani generazioni? A chi è in mano oggi la nostra società?

Domande che ci interpellano e, molto spesso, contestano il nostro modo di pensare e di vivere. Non è forse vero che consideriamo gli immigrati come rompiscatole se non addirittura come nemici? Finora la nostra società non si è preoccupata più di difendere a tutti i costi il posto di lavoro per chi ce l’ha, piuttosto che guardare a chi non ce l’ha? Gli anziani, categoria a cui ci auguriamo di poter un giorno appartenere, non stanno forse diventando il problema dei problemi? E via di questo passo.

Se tutti ci chiudiamo a difesa egoistica del nostro particolare, non caviamo un ragno dal buco: non potranno che aumentare la povertà economica ed il disagio sociale, si allargherà la fascia delle persone in difficoltà e si restringerà quella dei privilegiati, cresceranno il malcontento, la rabbia, la paura.

Siamo portati a scaricare i problemi sulla politica, che ha indubbiamente enormi manchevolezze e responsabilità, ma rendiamoci conto che, per avviare a soluzione le questioni, non basterà riavviare i meccanismi di sviluppo e uscire dalla crisi economica. Occorrerà trovare ed applicare dei meccanismi di redistribuzione della ricchezza, qualcuno dovrà fare dei sacrifici anche importanti, dovremo rimetterci in discussione assieme alle nostre certezze.

Non vedo nella nostra società questa disponibilità, siamo tutti propensi a contestare la politica e non capiamo che la politica seria è proprio quella che riesce a imporre i sacrifici a chi può e deve farli. Non per far star male tutti o per far piangere demagogicamente i ricchi, ma per ritrovare quel po’ di uguaglianza che rende effettive e diffuse le libertà. Essere di sinistra, stringi stringi, non vuol dire credere in questo? Non per accontentare un po’ tutti, ma per scegliere a favore di chi sta peggio. E chi sta meglio si incazzerà. Pazienza! Se ne farà una ragione. Vorrei paradossalmente introdurre un curioso giudizio su quel che è di sinistra: la politica che riesce, prima o dopo, in un modo o nell’altro, a toccare nel portafoglio chi ce l’ha piuttosto gonfio. Mi si dirà: lasciamo i soldi a chi li ha in modo che li possa spendere e crei benessere per tutti. Giusto! Poi arriverà comunque il momento per aggiustare la situazione, perché le distanze non si colmano automaticamente.

Mio padre non era un economista, non era un sociologo, non era un uomo erudito e colto. Politicamente parlando aderiva al partito del buon senso, rifuggiva da ogni e qualsiasi faziosità, amava ragionare con la propria testa, sapeva ascoltare, ma non rinunciava alle proprie profonde convinzioni mentre rispettava quelle altrui. Volete una estrema sintesi di tutto cio? Eccola! Rifletteva ad alta voce: «Se tutti i paghison e i fisson col c’lè giust, as podriss där d’al polastor ai gat…». A quel punto dell’Istat potremmo anche farne a meno.

 

Né riccastri, né camaleonti, ma operatori di integrazione

Mio padre, con la sua abituale verve ironica, così sintetizzava lo scontro fra generazioni: «Quand j’era giovvon à save i véc, adésa ca son véc à sa i giovvon…». D’altra parte è come nella vita di coppia. Quando non c’è accordo, qualsiasi parola o azione è sbagliata. Meglio tacere e non fare nulla. È quanto, in fin dei conti, molti “falsi criticoni” desiderano ardentemente.

La sinistra sta vivendo la sua perpetua crisi “matrimoniale e generazionale”, che si scarica, a seconda dei momenti storici, su particolari aspetti politici. È il momento del discorso immigrazione. Se la sinistra scende in piazza e marcia per l’integrazione dei migranti, come successo a Milano, all’insegna dello slogan “Insieme senza muri”, si guadagna una sferzante critica: “radical chic e riccastri di sinistra”; se cerca di attivarsi a livello governativo per rendere le città più sicure, prestando attenzione e tentando di arginare le paure identitarie che rischiano di degenerare in odio, viene sbrigativamente e malevolmente accusata di scimmiottare la destra e di rincorrere goffamente le politiche populiste.

Marco Minniti, il ministro dell’Interno che ha varato alcuni provvedimenti sulla sicurezza e sulla regolamentazione dell’accoglienza, è stato immediatamente dipinto come un traditore delle sue origini, un camaleonte della sinistra che rincorre il consenso facile a destra. Beppe Sala, sindaco di Milano, che aderisce alla marcia a favore dell’integrazione e della coesione sociale, viene considerato un comodo buonista, che non sfiora nemmeno con un dito il disagio di chi è costretto a fare i conti quotidiani con l’impatto migratorio.

A sinistra vige il tifo ideologico: bisogna contrapporsi per il gusto di trovare o difendere una virtuale identità. Se i problemi restano aperti e irrisolti, pazienza, l’importante è avere la coscienza a posto. Personalmente non vedo alcuna contraddizione tra il discorso positivo dell’accoglienza e dell’integrazione ai migranti e l’impegno a rendere sicure le città con maggiori controlli e regole più pressanti.

Manco a farlo apposta il giorno precedente la suddetta marcia si è verificato un grave episodio di reazione violenta e omicida ad un controllo casuale delle forze dell’ordine alla stazione ferroviaria: un cittadino italiano, con legami parentali a livello islamico, con simpatie terroristiche ancora flebili, probabilmente   in via di radicalizzazione anche in conseguenza del proprio isolamento sociale e dell’abbandono da parte di una disgraziata e scombinata famiglia, ha accoltellato due militari e un poliziotto con gravi conseguenze a carico di uno di essi.

Sono scattati i destrorsi professionisti della paura a seminare zizzania, a gettare benzina sul fuoco e a chiedere di annullare o rinviare la manifestazione. Non mi stupisco delle strumentalizzazioni leghiste, dei soliti razzistici allarmi, della xenofobia galleggiante. Mi infastidisce invece, come detto, l’assurda contrapposizione tra le due anime di sinistra: da una parte il paralizzante “purismo” e dall’altra il freddo “interventismo”.

Mi sembra che la migliore risposta a questi pruriti identitari la dia don Virginio Colmegna, presidente della Casa della carità, firmatario di una legge di iniziativa popolare che superi la Bossi-Fini, aderente alla marcia antirazzista   lanciata dal Comune di Milano, a cui hanno aderito molti personaggi della politica, della società civile, della cultura, dello spettacolo, molte sigle del terzo settore, oltre cento sindaci di comuni italiani, cattolici, laici, ong, centri sociali, ambientalisti, sindacati, comunità straniere, moschee e numerosi rifugiati accolti nelle caserme milanesi.

Il sacerdote dice: «L’episodio della stazione ci preoccupa, l’attenzione alle vittime è il punto di partenza, ma bisogna aumentare le politiche sociali. Non si va in piazza “contro”, ma con un messaggio di pace non retorico, non buonista, che ha dentro un bisogno di solidarietà, che produce dignità, cittadinanza, capacità di dare lavoro, speranza. Bisogna eliminare le ferocie del linguaggio che crea rancori e solitudini, come quella che si intravede dietro il sangue alla stazione». Non ho niente da aggiungere.

 

Il giovane Macron tra riformismo e pragmatismo

Tirare un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo, avere evitato il precipizio che si intravedeva in fondo ad una strada non vuol dire necessariamente che non si presentino altri pericoli e che la strada alternativa imboccata sia automaticamente quella giusta. Mi riferisco alla vittoria di Emmanuel Macron nelle elezioni presidenziali francesi e alla sua nuova “marcia” politica.

I primi due atti, uno istituzionale, l’altro strategico, vale a dire la nomina a capo di governo di Edouard Philippe (con il contorno di una compagine, buona per tutti i gusti, aperta un po’ a tutti, dagli (ex) socialisti ai fedelissimi di Sarkozy, dai centristi ai macroniani di ferro, con qualche contentino alle donne, agli ambientalisti, ai tecnici ed ai manager), un sedicente uomo di destra moderata proveniente dalle file dei gollisti e il viaggio in Germania per incontrare Angela Merkel, la probabile cancelliera anche dopo le prossime elezioni di settembre, hanno smorzato gli esagerati entusiasmi ed avvalorato le iniziali perplessità.

I due punti qualificanti della candidatura e del trionfo elettorale macroniano sono stati la convinta adesione al progetto europeo e il superamento dei partiti tradizionali in netta crisi di credibilità e consenso. Mi aspettavo quindi scelte iniziali meno precipitose (nel caso del vertice franco-tedesco) e più coraggiose (per quanto concerne la scelta del premier).

Mi sembra che anziché compiere atti innovativi, Macron abbia voluto pagare in fretta due prezzi, uno alla politica francese, l’altro all’establishment europeo, pensando presuntuosamente di acquisire a basso prezzo i due riferimenti su cui basare la sua presidenza: la politica tradizionale comprata a livelli da saldo di fine gestione fallimentare, l’Europa cavalcata da salvatore, riscattandola da una battaglia che stava prendendo una gran brutta piega. Una partenza in quarta dopo l’accensione del rinnovato motore dell’orgoglio nazionale (un po’ troppo per i miei gusti).

Non ho capito su quali basi voglia rilanciare il disegno europeo e verso quali obiettivi voglia orientare la politica interna. È vero che da una parte la sinistra tradizionale non riesce a rappresentare e dialogare col popolo e dall’altra la destra non sa fare altro che rispolverare i vecchi miti del nazionalismo e del protezionismo, ma non credo che l’alternativa possa risolversi nel mero continuismo europeo e nel puro pragmatismo economico.

Oltre tutto ha scelto come partner preferenziale quella Germania che ha ben altra situazione economica e più solida articolazione partitica. Il suo punto di forza sta indubbiamente nel vantaggio generazionale che riesce ad accreditarlo come uomo nuovo, fuori dagli schemi, e dotato di grande verve modernista. Ma quanto durerà questo buono-sconto: due giorni, due mesi, due anni? Le ravvicinatissime elezioni per il parlamento francese saranno una prima verifica di tenuta: avrà la maggioranza all’assemblea nazionale col suo movimento? Dovrà ricorrere a qualche patto trasversale? Quali prezzi dovrà pagare? Ma soprattutto non gli basterà un frettoloso patto elettorale con la cosiddetta società civile per garantirsi una perenne luna di miele e tenere a bada i problemi che la società racchiude in sé e che non mancheranno di esplodere prima di quanto si possa immaginare.

Non sto gufando, non voglio spegnere scetticamente le speranze, sto solo cercando di capire come riuscirà a coniugare liberté et egalité: oltre due secoli fa i francesi cercarono di trovare nella fraternité il punto di saldatura. Non riuscirono benissimo. Da decenni non riesce alla sinistra riformista al punto da innescare pericolosi bagni di ritorno nell’ideologia socialista. La destra trova   nel primato della libertà la soluzione automatica del problema, enfatizzando la libertà dalla povertà e dalla paura. Solo papa Francesco trova la sintesi, ma ha dietro uno sponsor infallibile e soprattutto non ha (cerca di non avere) esigenze politiche: anche lui quando si affaccia alla politica corre immediatamente qualche rischio. Immaginiamoci Macron!

Le intercettazioni a (calcolato?)rischio sputtanamento

Si potrebbe paradossalmente dire ormai che, se uno non è intercettato, vuol dire che non vale niente: dacci oggi la nostra intercettazione quotidiana. L’abnorme uso di questo strumento investigativo è tale da mettere a repentaglio troppi diritti e troppi doveri (libertà, privacy, onorabilità, immagine, etc.)

Si va dalla discutibile inflazione nel disporle da parte della magistratura (che addirittura se le contende tra procure) alla colposa o dolosa divulgazione, dalla distratta se non scorretta trascrizione delle registrazioni al mantenimento in essere anche di quelle irrilevanti ed inutilizzabili dal punto di vista giudiziario. Molti sorridono sotto i baffi considerando inevitabile la fuga di notizie e veline, altri arrivano a teorizzare l’utilità democratica della surrettizia conoscenza di questo   spaccato affaristico emergente anche in assenza di reati e indipendentemente dagli stessi, altri esigono e sperano che, sulla scorta del rischio sputtanamento, ci si comporti in modo più austero e inappuntabile: in buona sostanza se anche girano documenti e notizie coperte dal segreto non è male perché sarebbe l’unico modo per far conoscere i retroscena della gestione del potere e arginare preventivamente i peccati della politica e dell’establishment (uso questo termine che significa tutto e niente). .

Solo la magistratura in combutta con i media giustizialisti potrebbero salvare la nostra società corrotta: una teoria delirante a cui fa da comodo alibi l’esperienza del berlusconismo (non operando volutamente le dovute distinzioni quantitative e qualitative). Al cavaliere disarcionato fanno dire: «Son io che vi fa scaltri. L’arguzia mia crea l’arguzia degli altri», come Falstaff dopo i suoi fallimentari raggiri e le disastrose malefatte. Cosa voglio dire? Da una parte v’è chi si prende la rivincita: quando Berlusconi e i suoi sostenitori gridavano al complotto, alla invadenza, alla vessazione, alla necessità di difendersi dal processo, non sbagliavano di molto; adesso molti si stanno convertendo al garantismo nella misura in cui l’attacco della magistratura alla politica si fa sempre più scoperto e generalizzato. Dall’altra parte chi sostiene la continuità del regime berlusconiano sotto mentite spoglie e plaude indiscriminatamente all’opera moralizzatrice dei giudici non preoccupandosi minimamente di gettare l’acqua sporca della corruzione assieme al bambino della democrazia.

Chi si autoassolve in nome dell’invadenza della giustizia, chi cavalca il clima di caccia alle streghe, chi fa il tifo per le procure e chi le considera non tanto un corpo separato ma un corpo estraneo a livello di poteri democratici. Giustizialismo contro garantismo.

Possibile che non se ne possa uscire? Tutti ladri, tutti corrotti, tutti imboscati, tutti in conflitto d’interesse, tutti coinvolti nel marasma? Se non ritroviamo il filo della matassa rischiamo grosso. Bisogna innanzitutto riportare le procedure giudiziarie, dal punto di vista legislativo e comportamentale, nell’alveo della legalità: se i primi a violare la legge o a consentire che venga violata sono i magistrati… Ho recentemente ascoltato un ex magistrato che ha affermato come un procuratore, che voglia difendere la segretezza degli atti del suo ufficio, sappia benissimo chi sono i soggetti che possono violarla e possa quindi agire di conseguenza disponendo gli opportuni controlli e colpendo le eventuali violazioni.

La politica deve trovare l’irreprensibile stile previsto dall’articolo 54 della Costituzione: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”.

La stampa deve deontologicamente, prima e più che legalmente, trovare il confine tra sacrosanta denuncia del malaffare e strumentale gusto scandalistico, tra obiettività delle notizie e gogna mediatica.

I cittadini devono capire che è colpevole chiedere protezioni, raccomandazioni, favori, per poi buttare la croce addosso a chi si lascia irretire da questi meccanismi clientelari. O ci diamo tutti una “regolatina etica” o saranno guai seri e saremo, per dirla sempre con Falstaff, “tutti gabbati”.

 

 

Velo, burkini, kirpan: l’immigrazione in pillole

Per affrontare e risolvere i problemi risulta comodo, facile e illusorio partire dalla fine. Più le questioni sono difficili e complesse e più si cade nella tentazione di cercare soluzioni sbrigative. Sta succedendo con il discorso dell’immigrazione: chi propone l’innalzamento di muri, chi il pattugliamento delle coste, chi la veloce selezione e il conseguente rimpatrio. Persino la Corte di Cassazione viene tirata per i capelli nella stucchevole questione del rispetto dei nostri valori, che gli immigrati dovrebbero garantire.

Prima il velo, poi il burkini, adesso siamo al kirpan. Sulla questione del pugnale identitario del sikhismo, una religione monoteista dell’India, si stanno sbizzarrendo un po’ tutti: giuristi, uomini di cultura, politici, editorialisti, giornalisti. Tutti a disquisire sulla lapalissiana sentenza: «È essenziale l’obbligo   per l’immigrato di conformare il propri valori a quelli del mondo occidentale. Non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante».

Sui giornali però va in pagina la beffa: in rapida e clamorosa successione, dopo le discussioni sul coltello, detenuto da un Indiano, proibito e definitivamente sanzionato dalla Cassazione, su cui tornerò lapidariamente fra poche righe, si legge immediatamente delle vergognose speculazioni mafiose perpetrate sulla pelle di questi disgraziati trattati come animali, distraendo i fondi destinati alla loro accoglienza per orientarli a foraggiare clan e cosche. E non finisce qui, perché c’è poi tutto lo sfruttamento della mano d’opera degli immigrati trattati come schiavi.

Proseguendo la lettura ci si imbatte nella recensione di un saggio su “terrorismo, emigrazione e islamismo” di Tariq Ramadan e Riccardo Mazzeo, da cui estraggo alcuni significativi passaggi: «La maggior patologia dell’Occidente consiste nella colonizzazione della vita da parte della ragione strumentale. Risiede in gran parte qui l’origine dei mali attuali. Poiché in nome della religione dell’utile, l’Occidente ha depredato il Sud del mondo, la disuguaglianza è aumentata a dismisura e le guerre hanno devastato intere regioni del pianeta. (…) Solo un preciso esercizio critico permetterà allora di demistificare l’equazione tra terrorismo, emigrazione e islamismo: perché gli attentatori sono in larga misura cittadini europei; perché se circolano le merci, non si può impedire la circolazione degli esseri umani; e perché parlare genericamente di “migranti” musulmani”, anziché, ad esempio, di migranti turchi, pachistani o siriani, inquina il dibattito e diffonde la sbagliata convinzione che l’Islam non rappresenti una religione a tutti gli effetti europea».

Non entro nel merito, colgo solo la profondità di queste provocazioni culturali per dimostrare appunto come il discorso sia delicato e complicato da tutti i punti di vista, come i comportamenti degli Occidentali palesino contraddizioni enormi e come le semplificazioni lascino il tempo che trovano.

Torno alle battute iniziali. La sentenza della Cassazione mi sembra l’uovo di Colombo. Dice giustamente Emma Bonino: «Tutti. Italiani, migranti, turisti devono rispettare le leggi italiane. La legge sulle armi mi pare sia del 1975 e vieta di portare il coltello. Punto». I problemi vengono prima e dopo. Se bastasse infatti vietare i coltelli e i burka, andremmo bene. Andiamo in ordine: prima di tutto c’è l’aiuto da dare a popolazioni e Paesi da cui proviene drammaticamente l’immigrazione; poi viene il salvataggio dei disperati che tentano la fuga per arrivare in Europa; poi c’è la dignitosa prima accoglienza da garantire loro; poi coloro che possono rimanere debbono essere integrati nella nostra società. Solo parallelamente a questo percorso virtuoso si può pretendere il doveroso rispetto dei valori e dei principi che stanno alla base del nostro vivere civile e democratico. Penso soprattutto al rispetto della dignità femminile, al rifiuto della violenza, all’ordine pubblico, alla convivenza pacifica.