L’inversione dei fattori rovina il prodotto Rai

La nostra epoca si caratterizza, a livello politico, sociale ed economico, per le grandi riforme mancate. Si fa un gran parlare di riforme costituzionali, poi, quando si arriva al dunque, si preferisce lasciare le cose come stanno; la riforma della pubblica amministrazione cozza regolarmente contro le incrostazioni burocratiche e corporative; quella della scuola finisce normalmente nelle proteste di piazza; quella del mercato del lavoro sbatte contro la radicalità sindacale; quella della giustizia non riesce a vincere la pregiudiziale ostilità al cambiamento visto come attentato all’indipendenza della magistratura. La politica è indubbiamente pasticciona, incoerente, inconcludente, ma la società chiede il cambiamento salvo chiudersi a riccio quando le novità si profilano all’orizzonte. Scattano il benaltrismo, il maanchismo, il qualunquismo, l’egoismo, il corporativismo, etc. etc.

La Rai rientra in questo contesto di riforme mancate: tutti chiedono profondi cambiamenti nel servizio pubblico radiotelevisivo, ma al primo tentativo saltano le teste e si ritorna daccapo. Le recenti dimissioni del direttore generale Campo Dall’Orto (quasi amministratore delegato) stanno a significare la sostanziale intoccabilità del pachiderma o del carrozzone ( a seconda dei punti di vista). Volendo giocare con l’invitante cognome del dirigente costretto al frettoloso ritiro, si potrebbe dire: chi vuole operare in “Campo” aperto è condizionato fortemente “Dall’Orto” degli interessi consolidati.

Forse sarebbe molto meglio rinunciare agli straordinari disegni riformatori e ripiegare sul miglioramento dell’ordinaria gestione: partire dal basso, dalle piccole e grandi riforme concrete del quotidiano. Vale per la Rai e per tutte le istituzioni. Ma restiamo alla Rai. Non vivo incollato al video, seguo soprattutto l’informazione televisiva che ritengo sia la principale funzione di questo servizio pubblico. Ebbene se ne vedono e sentono di tutti i colori: microfoni regolarmente off line, collegamenti gestiti alla viva il parroco, conduttori e conduttrici con accento smaccatamente dialettale e che non sanno parlare correttamente italiano, traduttori simultanei clamorosamente inadeguati, giornalisti sopranumerari e privi di capacità critica, commentatori ridotti a tifosi di partiti e squadre di calcio, intervistatori piatti e insulsi, inviati speciali che di speciale non hanno nulla, etc. etc.

In poche parole qualità scadente a livello giornalistico: molti e poco buoni. Prima di decidere se fare tre, quattro o cinque telegiornali, anziché perdersi in alchimie informatiche, invece di preoccuparsi della concorrenza, si punti a (ri)qualificare chi lavora nell’informazione Rai: qualche corso linguistico, qualche esame preventivo, qualche selezione accurata. Spesso si ha la sensazione che si dia il microfono in mano al primo che passa o forse a chi è più raccomandato o forse a chi è più … (lasciamo perdere…).

È possibile che per un evento sportivo occorrano folte schiere di enfatici commentatori del nulla? Nicolò Carosio, padre di tutti i telecronisti, con i suoi “quasi gol” bastava e avanzava per creare l’atmosfera giusta intorno all’evento sportivo. Adesso invece…

Sergio Zavoli (un mio indimenticabile insegnante lo considerava il “dio” della televisione) alle prese con la storica alluvione di Firenze, fece una cosa molto semplice per spiegare e rendere l’idea di quanto stava succedendo: aprì finestra e microfono sulla strada ridotta a fiume. Era tutto il dramma di una città. Oggi fiumi di parole e la realtà non emerge.

Mi accontenterei che chi tiene in mano il microfono sapesse parlare e avesse mente e cuore per esprimere e trasmettere qualcosa. I consigli di amministrazione, i presidenti, i direttori, i budget, i bilanci, le commissioni di vigilanza dovrebbero venire prima, ma in verità vengono dopo. La politica inverte l’ordine dei fattori e purtroppo il prodotto cambia.

Panico da auto-terrorismo

Nei giorni precedenti l’evento sportivo calcistico per eccellenza, lo scontro per la conquista della coppa dei campioni, mentre montavano smisuratamente l’attesa e l’interesse favoriti dalla solita e scriteriata cavalcata mediatica, mi chiedevo se questo clima esagerato non potesse finire col creare i presupposti per qualche disastro: mi riferivo soprattutto a possibili scontri fra opposte tifoserie accorse in massa a Cardiff, laddove, tra l’altro, lo stadio non poteva ospitarle interamente e quindi con ulteriori problemi di coesistenza pacifica fra tifosi e con gli abitanti della città, in una zona nel mirino del terrorismo come non mai.

Invece, ironia della sorte, il casino è scoppiato a Torino, non fra tifoserie antagoniste, ma fra i simpatizzanti juventini assurdamente accalcati in una piazza del centro. In un certo senso quanto è successo è dovuto ad una sorta di auto-terrorismo. Cerchiamo di essere seri. Il terrorismo si combatte anche e soprattutto gestendo bene l’ordine pubblico. E nel caso in questione è stato gestito malissimo o meglio non è stato gestito.

Prima dell’inizio della partita di finale di coppa campioni tra Juventus e Real Madrid la televisione ha mostrato, con la solita inutile enfasi (a quando un codice etico-professionale al riguardo), le immagini della torinese piazza San Carlo, affollata all’inverosimile di tifosi juventini alla ingenua ricerca di emozioni dal (quasi) vivo. Sono rimasto impressionato, più che dalla quantità di persone accorse e ammassate, dalla calca incredibile: una sorta di curva da stadio portata in una piazza cittadina. La mia notevole impressione aveva naturalmente il seguente retro-pensiero: nessuno avrà controllato tutta questa gente…sarebbe un gioco da ragazzi per un terrorista infiltrarsi e provocare una carneficina colossale…speriamo bene…

Il terrorista fortunatamente non si è visto, la carneficina nemmeno, però è bastato qualcosa di strano (un petardo, un boato, un grosso rumore?) per scatenare il panico e provocare un fuggi-fuggi generale con centinaia di feriti. Poteva andare peggio…

Non voglio fare il grillo-parlante ma mi si impongono alcune brevi riflessioni. La prima riguarda la necessità di sdrammatizzare questi eventi sportivi riportandoli alla loro giusta dimensione e vivendoli quindi con sana passione, ma anche con un po’ di sano distacco. La partita, non dimentichiamolo, è stata preceduta da sfoghi demenziali di tifo calcistico ospitati se non fomentati da televisioni in cerca di audience, ma anche i più moderati servizi sportivi hanno contribuito a creare uno smisurato senso di attesa facilmente sconfinabile in vera e propria battaglia di nervi e potenzialmente non solo di nervi.

Il clima di tensione, alimentato anche dai media, sfocia in queste disordinate radunate oceaniche che si prestano a degenerazioni di vario tipo: questa volta si è trattato solo di panico, altre volte la tensione ha portato a scontri violenti, ad atti vandalici, ad episodi di teppismo, etc.

La seconda è questa: sono perfettamente d’accordo che la nostra società non debba farsi condizionare dalla paura del terrorismo, ma il terrorismo c’è, non possiamo dimenticarlo, è purtroppo penetrato nel nostro subconscio e basta poco per farlo auto-esplodere. E allora, diamoci almeno una regolata: non creiamo le occasioni e i presupposti per favorire lo scatenamento psicologico del terrorismo senza terrorismo.

La terza riguarda la gestione dell’ordine pubblico: non pretendo l’impossibile, ma non ha senso consentire un assembramento come quello di piazza San Carlo, una vera e propria polveriera dove è bastata la fantomatica puzza di zolfo per far esplodere il panico e il disastro. Quando si riempie uno spazio con migliaia di persone bisogna garantire le vie di fuga, bisogna prevedere qualche spazio libero per entrata e uscita. Ammettiamo che una persona in quella piazza si fosse sentita male improvvisamente, come si sarebbe potuto soccorrerla? Può essere il senno di poi, ma una questura come quella di Torino questi problemi se li dovrebbe porre. Cerchiamo però anche di essere un po’ più prudenti come cittadini. Non dico di chiuderci ermeticamente in casa, ma nemmeno di sfidare prepotentemente e presuntuosamente i pericoli. Vivere non è facile, convivere è ancor meno facile, convivere col terrorismo è impossibile. Fermiamoci alle prime due difficoltà e affrontiamole con senso di responsabilità. L’impossibile non è alla nostra portata.

 

 

 

La parlamentare zona cesarini

Troppi personaggi si sono svegliati improvvisamente e si sono accorti che il Parlamento ha prodotto poco e rischia di lasciare incompiute diverse leggi in via di gestazione. Ragion per cui bisogna andare avanti per tentare un recupero in extremis della legislatura, tenendola in piedi per salvare almeno il salvabile

Il risveglio, dal coma più che dal sonno, è indotto dalla paventata ipotesi di anticipato scioglimento delle Camere e di ricorso alle elezioni circa sei mesi prima della naturale scadenza. Questo fatto comprometterebbe l’iter di alcuni importanti provvedimenti legislativi e rimetterebbe in discussione parecchi argomenti, anche perché vige la regola (non ne ho mai capito il motivo) che ogni nuova legislatura parta da zero: se un disegno di legge era stato approvato da un ramo del Parlamento ed era in attesa dell’approvazione dell’altra ramo, alla riapertura delle Camere, dopo le elezioni, l’iter dovrà ripartire da capo con evidente perdita di tempo e spreco del dibattito che si era già svolto.

Le leggi in sospeso riguardano temi rilevanti. Non metto assolutamente in discussione l’opportunità di poter sequestrare i beni ai corrotti, di garantire alle persone il diritto a disporre della propria vita rifiutando cure e trattamenti sanitari, di concedere la cittadinanza ai figli di immigrati nati o cresciuti in Italia, di riformare l’istituto della prescrizione nell’ambito della riforma del processo penale, di introdurre il reato di tortura, di legalizzare l’uso personale e terapeutico della cannabis.   Non credo sia questo il problema. Mi chiedo infatti: se il Parlamento non è riuscito a legiferare su queste materie completandone l’iter in quattro anni e mezzo, come potrà riuscirci nell’ultimo scorcio della legislatura, cioè “in zona cesarini”, come si direbbe usando una terminologia calcistica.

Vediamo in rapida successione quali possono essere i motivi di questo ritardo, prima di illuderci di colmare le lacune mettendo strumentalmente il fiato sul collo di deputati e senatori. È possibile che i due rami del Parlamento lavorino poco e male? Pochi giorni alla settimana, lunghe interruzioni feriali natalizie ed estive, ostruzionismi vari, lungaggini dibattimentali, inutili maratone verbali, distrazioni eccessive su compiti politici assai lontani da quelli istituzionali. I presidenti di Camera e Senato chiedono di lavorare sodo in questi ultimi mesi della legislatura. Nei quattro anni e mezzo precedenti dove erano? Siamo sicuri che abbiano tenuto sotto battuta le due assemblee legislative in modo da renderle più funzionali, razionali e produttive? Siamo sicuri che abbiano promosso revisioni regolamentari atte a rendere i lavori più agili e snelli. Hanno speso tutta la loro autorità e tutto il loro carisma per indirizzare Camera e Senato verso un proficuo e intenso lavoro?

Non sarà per caso colpa del bicameralismo perfetto che costringe le leggi ad un assurdo e inutile ping-pong? Recentemente il presidente Grasso, di fronte ad uno svarione legislativo, ha sottolineato l’utilità della doppia lettura in modo da poter rimediare almeno agli errori più grossolani. Non ci siamo! Il bicameralismo andava e va superato, è il retaggio di un passato istituzionale che poteva avere senso dopo le scottature del regime fascista, ma che oggi non ha motivo di sussistere. Dove sono finite tutte le vestali costituzionali che hanno fatto la guerra alla riforma fino a perseguirne testardamente la bocciatura nel referendum dello scorso dicembre, ingessando così l’assetto parlamentare per non so quanto tempo ancora? Non possiamo tarare l’impianto parlamentare sulla necessità di evitare errori ed omissioni. Questi inconvenienti si superano con la competenza, l’impegno, l’esperienza, la professionalità, non con i tira e molla tra una Camera e l’altra, che alla fine non riducono ma aumentano la possibilità di commettere errori.

La scarsa produttività dell’attività parlamentare non sarà forse dovuta alla eccessiva radicalizzazione della lotta politica, alla strumentalità con cui vengono affrontati i problemi, alle battaglie di puro schieramento, all’ideologizzazione del dibattito, etc etc.? Se fosse così e credo sia (anche) così, i redivivi e ansiosi difensori d’ufficio della legislatura pensano veramente che questi difetti politici possano essere superati in vista delle elezioni, nell’ultimo breve scorcio di legislatura allorquando tendono comunque a prevalere i motivi di contrapposizione sulla ricerca del compromesso che rappresenta l’inevitabile presupposto per il varo delle leggi? Oppure vogliamo ridurre il Parlamento a votificio (quante volte ho sentito questa critica…) e a farlo funzionare solo a colpi di maggioranza (quante volte ho sentito l’accusa di esercizio della dittatura da parte della maggioranza…) ed a voti di fiducia (quante volte ho sentito parlare di ricorso eccessivo e anti-costituzionale a questo strumento…).

A questo punto ai “tifosi” della difesa oltranzistica della legislatura concedo due alternative: o vengono dalla luna o vogliono farci credere nella luna. Eloquente al riguardo l’opinione espressa dall’ex presidente del Consiglio Enrico Letta, sempre più astioso e sempre meno credibile: «Siamo al termine di una legislatura che non solo ha fallito le riforme istituzionali, ma in cui nemmeno si è tornati al punto di partenza». Lasciamo stare il fatto che pure lui ne sia stato un protagonista non di secondo piano: lui risponderebbe che sgarbatamente non gli è stato consentito di lavorare… Comunque, se è vero il fallimento totale della legislatura, non resta che portare i libri in tribunale. Detto fuor di metafora, non resta altro che chiudere in fretta baracca e burattini, sperando nella prossima legislatura. Allora si alzeranno gli ipercritici della nuova legge elettorale in gestazione e diranno che ne sortirà solo una gran confusione paralizzante. A questo punto la soluzione sarebbe non votare, inchiodare deputati e senatori agli scranni, chiudere a chiave la aule parlamentari e aprirle solo a risultati legislativi soddisfacenti. Scherzi a parte, non capisco dove si voglia parare.

L’ottovolante della Repubblica

Nelle discussioni sull’andamento dell’economia italiana sembra di stare sull’ottovolante: un giorno è una quasi catastrofe con la borsa in picchiata, con il treno europeo che ci scappa, con il pil che batte la fiacca, con la disoccupazione che ci tormenta; il giorno successivo la borsa si riprende, l’Europa ci aspetta e ci concede lo sconto, il pil è in ripresa e l’occupazione dà qualche segno di miglioramento. Sono mesi che andiamo avanti così: gli esperti, i commentatori, gli addetti ai lavori ci ingabbiano nelle loro discutibilissime e poco attendibili analisi.

Adesso ci sono di mezzo le elezioni anticipate e allora tutto dipende da questa eventuale scadenza ravvicinata. Chi paventa un autentico disastro, chi vede la speculazione pronta ad aggredirci, chi teme per la vita delle banche, chi vota contro il governo ma vorrebbe che durasse per un altro anno, chi vota a favore del governo a denti stretti ma è tutto velenosamente preso dalla difesa del suo scarso patrimonio elettorale, chi desidera il voto anticipato ma non ha il coraggio di ammetterlo temendo di essere criminalizzato, chi fa il pesce in barile e boccia sistematicamente ogni e qualsiasi proposta.

Se bastasse votare o non votare per risolvere i problemi economici… Un giorno il governatore della Banca d’Italia piange autorevolmente miseria, il giorno dopo l’Istat ci rialza il morale; un giorno il governo sembra viaggiare sull’orlo del baratro, il giorno successivo il ministro dell’economia incassa fiducia e promesse da Bruxelles; un giorno sembriamo l’ultima ruota del carro europeo, un altro giorno l’ammalato prende un brodo e rialza la testa.

Finiamola una buona volta con queste assurde chiacchiere, con i numeri del lotto, con gli economisti che si parlano addosso e con i politici che rilasciano interviste a vanvera. Noi amiamo parlar di morte, ma non vogliamo morire. Sono laureato in economia, ho svolto una professione collegata al mondo economico, ho sempre ritenuto, pur non essendo marxista, che l’economia condizioni fortemente la politica. Ma da qualche tempo ho smesso di leggere il “non verbo” sparso a piene mani dagli economisti. Con tutto il rispetto possibile, sono solito ricordare infatti che, mentre i sociologi si esercitano   nell’elaborazione sistematica dell’ovvio, mentre gli psicologi tutto spiegano a livello di subconscio quindi senza timore di poter essere smentiti, gli economisti pontificano con eloquenza, la sanno raccontare bene, ma non ci pigliano mai.

Sono partito sconclusionatamente dalle pressapochistiche e teoriche analisi economiche, che fanno a brandelli la reale economia del Paese fornendo di essa una falsa e contraddittoria immagine. È la festa della Repubblica, alla migliore delle immagini che possiamo spendere. Complice l’assegnazione del cavalierato ad un caro amico ho assistito, all’aperto e sotto un sole cocente, alla “fredda” cerimonia con tanto di alzabandiera (molto opportunamente allargato al vessillo europeo), di inni (l’inno di Mameli suggestivamente allargato all’inno alla gioia), di messaggi (brevi, inviati dalle massime autorità nazionali), di discorsi (più sostanziosi di quanto mi aspettassi), di prefetto (il suo fervorino non mi è dispiaciuto), di sindaci, di fascie tricolori, di autorità varie ed eventuali. Queste feste rischiano di inocularci pericolose nostalgie in cui lavare sbrigativamente i panni del presente. Forse, tutto sommato, è meglio guardare indietro. Poi bisognerebbe però prendere la rincorsa. Non dimentichiamo che siamo (Totti) Italiani (e juventini)! Poi c’è anche l’Europa. Mi fermo anche perché non vorrei ritornare daccapo.

Le vergogne di Stato

Quando osservo il comportamento dei rappresentanti delle massime istituzioni nazionali di fronte ai parenti delle vittime di tragici eventi (prescindo in questo caso volutamente da eventuali responsabilità pubbliche a monte di tali tragedie), da una parte mi compiaccio che lo Stato abbia il coraggio di avvicinare queste persone per trasmettere loro la vicinanza e la solidarietà dei concittadini, ma dall’altra, devo ammetterlo, mentre ascolto parole e frasi opportune ed impegnative quali “non vi dimenticheremo” etc.etc., mi viene spontaneo temere che tutto possa essere compromesso dai soliti ritardi, dalle solite lungaggini e dalle solite omissioni in cui lo Stato si trasforma da amico solidale a burocrate pignolo (badate bene: non mi riferisco alle ricostruzioni post-terremoto e simili, ma a cose molto più piccole ma molto eloquenti e scandalose).

Ricordo con grande commozione la coraggiosa e credibile presenza dell’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini alle esequie delle vittime dell’attentato del 2 agosto 1980 alla stazione ferroviaria di Bologna: il suo smarrimento nel girare fra le bare, il suo scuotimento di capo a significare l’incredulità del popolo italiano per un fatto che ne minava la vita democratica (avrà sicuramente pensato: sono stato in galera, ho rischiato la vita assieme a tanti partigiani ed antifascisti, ho combattuto fino in fondo per riconquistare la libertà e la democrazia all’Italia ed ora, da capo dello Stato, vengo a fare il funerale a cittadini innocenti massacrati da rigurgiti anti-democratici), quella sua mano appoggiata al braccio del sindaco di Bologna che fece il discorso di omaggio (geniale gesto di vicinanza dello Stato democratico alle Istituzioni ed alla gente in un momento di grave inquietudine al limite della disperazione).

Cosa direbbe oggi Sandro Pertini apprendendo che, a distanza di 37 anni, i risarcimenti alle vittime di quella strage sono ancora in ballo, le pratiche relative non sono ancora state chiuse, queste somme sono state stralciate dalla manovra estiva del governo? Mi ha fatto immenso piacere che il vescovo di Bologna Matteo Zuppi se ne sia voluto interessare e che abbia pronunciato appropriate parole al riguardo: «Speriamo che si riesca a trovare una soluzione, ci sono ritardi che sono inaccettabili e fastidiosi, in certi casi lo sono ancora di più per la sofferenza che non viene capita e che viene minimizzata».

Perché lo Stato non ha la sensibilità di affrontare e risolvere con la necessaria tempestività queste situazioni che, tra l’altro, per la finanza pubblica rappresentano una goccia nel mare della spesa, una goccia rossa come il sangue delle vittime. Non capisco. E ci si casca sempre. Forse Bologna è un caso clamoroso, ma ce ne sono altri. Ogni tanto ne spunta uno. Sì, perché i familiari delle vittime hanno oltre tutto la delicatezza di non protestare più di tanto: dopo il danno ingoiano anche la beffa. Ribadisco di non capire. Ci sarà mai, una buona volta, un politico che, investito di ruolo istituzionale, vada a verificare tutte queste vergognose situazioni accumulate nel tempo (risarcimenti, pensioni, etc. etc), le sblocchi definitivamente e metta in atto procedute tali da evitare simili vergogne di Stato?

I grilloparlanti elettorali

Di fronte all’eventualità di elezioni politiche, anticipate di circa sei mesi rispetto alla normale scadenza della legislatura, si sta alzando un coro di allarmate proteste, tutte più o meno riconducibili al rischio di compromettere la tenuta economica del Paese, la seppur debole ripresa economica, la credibilità e la stabilità del governo italiano.

Voglio sperare che a tutti quanti stiano veramente a cuore queste ragioni e che tali motivazioni non siano la copertura di meri interessi di bottega partitica o correntizia: le prendo per quel che sono senza indulgere ad alcuna dietrologia. Così come voglio concedere la buona fede a chi ritiene sia meglio chiudere in fretta la legislatura per avviarne più autorevolmente una nuova.

Non riesco tuttavia a capire quale tranquillità ai mercati, quale spinta allo sviluppo, quale autorevolezza al Paese possa dare un governo in scadenza con una maggioranza parlamentare risicata e traballante, con grossi divergenze al suo interno, costretto a ricorrere continuamente a voti di fiducia per rimanere a galla, impossibilitato a riprendere una pregnante azione riformatrice.

È pur vero che non si sa quale Parlamento e quale Governo sortiranno dalle prossime elezioni in un sistema partitico abnorme e contraddittorio quale il nostro. Fra sei mesi però la situazione non sarà diversa, anzi probabilmente tenderà a deteriorarsi ulteriormente, mentre i partiti, a ridosso delle elezioni, non avranno il coraggio di scelte coraggiose e talvolta impopolari o comunque tali da compromettere la già difficile raccolta del consenso.

Quando è necessario affrontare una situazione grave, una prova dura, un passaggio problematico, generalmente siamo tutti portati a stringere i tempi per uscire il prima possibile dall’impasse o quanto meno per chiarire i termini del problema senza girarci intorno. Vale per una diagnosi difficile, per un’operazione chirurgica impegnativa, per un esame fondamentale, per ogni decisione che possa condizionarci la vita futura. È così anche per le Istituzioni e per la vita collettiva.

Non credo che tutto possa dipendere dal fatto che Renzi voglia stringere i tempi per fare ancora il premier, come sostiene velenosamente il tecnico Mario Monti. Non credo nemmeno che dall’altra parte si voglia solo tergiversare per paura dei mercati o per timore del ravvicinato verdetto elettorale. Spero che la discussione sia più seria e oggettiva. Ecco perché mi pongo le domande di cui sopra e non trovo sinceramente motivazioni pesanti per la prosecuzione di una legislatura, nata male, riportata faticosamente nel solco delle riforme che purtroppo non hanno potuto trovare piena approvazione, arrivata male al dunque. Ma questi sono problemi politici che non dipendono dal calendario elettorale e nemmeno dalla legge elettorale.

Molti temono che dalle urne esca un Paese ulteriormente frammentato e ingovernabile. Allora cosa facciamo? Non votiamo più in attesa che il centro-sinistra trovi la quadra, che la destra si liberi dai fantasmi del passato e del presente, che il centro recuperi spazio e ruolo, che il M5S diventi un partito di proposta e smetta i panni di un movimento di protesta?

Mio padre quando finivano le vacanze mi consolava dicendomi: «C’è un tempo per riposarsi e un tempo per studiare o lavorare». Per la democrazia c’è un tempo per votare e un tempo per governare. Non si deve votare a tutti i costi, ma nemmeno governare tanto per governare. Staremo comunque a vedere. Punto tutto sul senso dello Stato di Sergio Mattarella. Di lui mi fido!

Le elezioni (non) s’hanno da fare

È da oltre sei mesi che il nostro paese vive nel tormentone elettorale: la legge per votare non c’è, complice lo sciagurato fallimento delle riforme costituzionali,   conseguenza di un eccessivo tuziorismo della Corte Costituzionale, effetto di una classe politica che non riesce a guardare oltre il naso dei propri calcoli di bottega; la voglia di ricorrere alle elezioni anticipate è altalenante: tutti le vogliono e tutti non se ne intendono assumere la responsabilità, i motivi a favore sono tanti ed altrettanti quelli contro. Quando i giochi sembrano fatti, il banco salta e si ricomincia tutto da capo. Se si profila un accordo spuntano le grida allarmistiche all’ignobile connubio, se l’accordo si allontana si censura la rigidità delle posizioni che portano allo stallo.

Elezioni anticipate sì, elezioni anticipate no. Ad esse molto probabilmente si annette un importanza eccessiva, un effetto taumaturgico sul piano della tenuta democratica e del funzionamento istituzionale. E facciamole una buona volta! Se ne uscirà un casino pazzesco negli equilibri fra partiti e coalizioni, ce lo saremo meritato. E il giorno dopo si ricomincerà a parlare di elezioni.

Purtroppo la cura elettorale rischia di peggiorare la malattia politica costituita da partiti inadeguati, rissosi e inconcludenti. Le elezioni rischiano di essere la chemioterapia per il tumore partitico: bloccano le metastasi ma debilitano il sistema.

Si fa un gran parlare di sistema elettorale maggioritario o proporzionale con tutte le opzioni intermedie: si chiacchiera di rappresentatività e governabilità,   di partiti e di piccole e grandi coalizioni, di sbarramenti e premi. L’ingegneria e la fantasia elettorali   sono purtroppo inversamente proporzionali alla concretezza dei problemi ed alla loro soluzione.

All’inizio degli anni novanta andò i crisi, per tutta una serie di motivi, la classe dirigente   politica che aveva retto il lungo periodo dal dopoguerra in avanti. Ricordo che Gianni Agnelli previde tempi duri in quanto, a suo giudizio, sarebbero occorsi venti anni per crearne una nuova all’altezza delle mutate situazioni. I venti anni, coincidenti, più o meno, con lo spreco del berlusconismo, sono passati, ma la nuova classe dirigente fatica ad emergere, tra personalismi eccessivi e politicismi incalliti.

Il problema mi sembra questo, prima e al di là dei sistemi e delle consultazioni elettorali. Per parafrasare un vecchio detto: web pieno (di stronzate), urne (probabilmente) sempre più vuote, politica (drammaticamente) assente dai problemi e lontana dai cittadini.

Basta guardare come si rischia di arrivare alle elezioni anticipate, non sulla base della impossibilità o incapacità di affrontare importanti questioni, ma facendo detonare scontri pretestuosi su falsi problemi di principio (leggi voucher e lavoro occasionale). Questo comporterà che anche la successiva campagna elettorale si snoderà su temi polemici, sul rimpallo di responsabilità in ordine all’interruzione dell’esperienza governativa, sullo scontro tra una politica debole e pasticciona e un’antipolitica confusa e pericolosa.

Non invidio il Presidente della Repubblica, il quale ha il compito di arbitrare una partita brutta, fallosa ed ostruzionistica. Speriamo nel suo senso delle Istituzioni, nel suo equilibrio politico e, come ha detto Trump (fra le tante cazzate, questa l’ha indovinata), nella grande reputazione di cui gode.

 

L’usato sicuro (di sbagliare)

Nell’asfittico e noioso dibattito politico italiano pontificano i personaggi che tendono penosamente ad autoriciclarsi. I media li inseguono perché fanno notizia (?) con le loro corbellerie, la gente li osserva come fantasmi del passato e purtroppo la politica ne viene comunque inopinatamente influenzata.

Tra i tanti faccio due esempi. Il primo riguarda Massimo D’Alema, che, dopo aver insegnato a Renzi come (non) si fanno le riforme costituzionali, predica agli incalliti ed irriducibili vedovi del partito comunista come si fa a (non) essere di sinistra ed a governare (male) nello stesso tempo. Sembrerebbe una lezione curiosa e interessante, ma purtroppo la predica viene da un pulpito inattendibile, non per l’’indiscutibile intelligenza del personaggio (da questo punto di vista l’ho sempre rispettato ed ammirato), ma per la sua incoerenza e per l’abitudine di piegare il senso politico all’inguaribile vizio di demolire gli altri per far emergere il proprio smisurato ego. D’Alema non è stato capace   di guidare la sinistra e non ha saputo governare da sinistra. La sua fu la prima esperienza (breve) di un ex comunista chiamato a presiedere il governo italiano. Era un periodo in cui l’ideologia tirava gli ultimi, ma non era ancora morta. Fu in un certo senso il pessimo e decisivo sdoganatore (complice Francesco Cossiga) dei comunisti, passati da mostri mangiabambini a governanti in doppio petto (i più attempati ricorderanno la gag di Cossiga che regalò a D’Alema la statuetta di un bambino di zucchero da mangiare golosamente). Si ipotizzò malevolmente che fosse stata una perfida manovra a sfondo internazionale per consentire all’Italia di entrare nella guerra del Kosovo dalla porta di servizio aperta da un immaturo ex-comunista affamato di potere, cosa che non avrebbe mai accettato il maturo cattolico Prodi. Guerra e Cossiga a parte, fu un fallimento. D’Alema recitò con estro e fantasia la parte del politico che vuole riappropriarsi del suo spazio lavorando di gomito: fu infatti uno degli affossatori del primo governo Prodi, colpevole di avere superato i rigidi schemi della partitocrazia.

Faccio un secondo esempio e lo prendo dall’area politica opposta, dal centro-destra. Si tratta di Giulio Tremonti, il quale, dopo esser stato protagonista di squallide esperienze governative al fianco di Silvio Berlusconi, si atteggia, dallo scranno di senatore dipendente solo dalla propria straboccante boria, a censore della corsa alle elezioni anticipate, da ex ministro dell’economia a profeta dei disastri economici, finanziari e bancari del nostro Paese, da professore universitario a erudito analista dell’attuale fase storica a livello mondiale.

Non so, ma probabilmente Giulio Tremonti pensa che gli Italiani siano cretini (cvetini come direbbe lui) o smemorati. Con quale autorevolezza teorica e pratica ci inonda del suo verbo? Forse farebbe meglio ad andare a nascondersi. Invece parla eccome, lasciando intendere che ai suoi tempi le cose andavano molto meglio. Sì, eravamo arrivati al punto di essere derisi ed umiliati in Europa e nel mondo.

Sono spesso portato a rivalutare le vicende politiche del passato, ad ascoltare le esperienze di personaggi di un tempo, quindi non sono un rottamatore ante litteram, anzi. Però tutto ha un limite! Chi dal suo passato ha poco o niente da insegnare dovrebbe starsene zitto. Fate come dico e non come ho fatto? Ma mi facciano il piacere…

G7 di Taormina: sotto il vestito niente

La complessità e la difficoltà dei problemi mondiali è tale da non lasciare spazio a troppe speranze, tuttavia quando si riuniscono i cosiddetti grandi della terra che, bene o male rappresentano o dovrebbero rappresentare democraticamente gran parte delle popolazioni del pianeta, mi si apre ingenuamente il cuore: non siamo in mano a nessuno, qualcuno, pur con tutti i limiti e i difetti, si fa carico del nostro futuro, soprattutto di quello delle future generazioni.

Il recente G7 di Taormina purtroppo non è stato deludente solo sul piano delle soluzioni concrete alle questioni, terrorismo, clima, immigrazione, scambi commerciali, ma su quello delle visioni e delle prospettive di carattere generale. I protagonisti, chi più chi meno, hanno mostrato tutta la loro inadeguatezza a guardare avanti, a farsi carico dei problemi globali e sono rimasti prigionieri degli interessi delle loro nazioni.

La politica, a livello internazionale, al di là di tutto, soffre di questa miseria culturale e intellettuale dei capi di Stato e di governo (probabilmente specchio della vacuità delle società moderne), che si traduce in una escalation di conflitti senza vie d’uscita, in un rissoso bailamme di contrasti senza capo né coda. Donald Trump pensa ai petrolieri, agli operai, alla gente a cui ha fatto scriteriate e anacronistiche promesse elettorali e non si schioda da esse: è vero che la Germania si è egoisticamente accomodata sul proprio surplus commerciale, ma non se ne esce con un generalizzato liberi tutti di fare i propri comodi; è vero che il peso economico della Nato grava, forse da sempre, sulle spalle degli Usa, ma, anche volendo prescindere da considerazioni etiche, non se ne esce chiedendo drasticamente a tutti di alzare l’impegno militare in una progressione impossibile da sostenere   di fronte alla crisi economica immanente; è vero che la globalizzazione ha creato enormi disuguaglianze, ma non se ne esce tornando al protezionismo e chiudendosi a riccio nella difesa delle proprie traballanti economie; è vero che l’Europa parla bene e razzola male, ma non se ne esce lasciando che tutti si sfoghino a parlar male e a razzolare ancor peggio; è vero che la questione ambientale non deve diventare una camicia di forza, ma non se ne esce proseguendo imperterriti verso il baratro dell’inquinamento e degli squilibri naturali; è vero che l’immigrazione sta diventando un’emergenza ordinaria, ma non se ne esce alzando muri e chiudendo le porte.

La grande responsabilità trumpiana sta proprio nel ributtare il mondo in una visione egoistica e affaristica, infondendo l’illusione che dietro un’articolata, complessa, concordata e graduale soluzione dei problemi ci stiano l’inettitudine degli establishment e gli interessi dei poteri forti. Il ragionamento pericolosissimo è il seguente: se nel mondo dominano certi assetti e certi equilibri, tanto vale buttare tutto in malora, consentendo ad ogni Stato di comportarsi a misura dei propri interessi. Una sorta di tutti contro tutti da cui si spera possa emergere un nuovo ordine mondiale.

L’Europa, divisa e balbettante com’è, non riesce ad opporsi a questa tendenza, a volte sembra quasi che la condivida e quanto meno non è in grado di rinserrare le proprie fila in una linea di ulteriore integrazione politica ed economica. La Gran Bretagna è sul piede di partenza e si preoccupa solo di ritrovare un suo spazio sullo scacchiere mondiale; la Francia ha appena iniziato la terapia Macron ed è lontana dall’assumere una convincente leadership a livello europeo; la Germania non si scolla dal suo rigorismo imperante e non capisce che, come diceva mio padre (traduco in italiano per fare prima), “se non apri i pugni chiusi, non ti caga in mano nemmeno una mosca”; l’Italia, tutto sommato, è la meno peggio, ma ha troppi scheletri nell’armadio per ergersi a guida credibile. Non proseguo la rassegna, perché sarebbe inutile e sconfortante. Il concetto di fondo mi sembra chiaro.

Qualcuno recrimina sulle spese eccessive sostenute nell’organizzazione, peraltro impeccabile, del G7 di Taormina. Mi permetto di osservare come non siano le cene di gala, le pompose scenografie, le passerelle cinematografiche delle mogli (ammetto, nel vuoto politico emergente dal summit, di essermi rifugiato nelle cronache mondane alla disperata ricerca di uno sguardo dolce e femminile sulle miserie del mondo: tutto sommato le mogli si sono comportate assai meglio dei loro mariti) a distrarre i potenti e a disturbare i deboli: sono i contenuti che contano, è la loro carenza   che deve spaventarci. Il resto ci può anche stare a livello di bella immagine che l’Italia può offrire ed ha offerto di sé.

I bigotti dell’ideologia vecchia e nuova

Le ragazzine saltano in aria come birilli, i bambini affogano come gattini sopranumerari , la povertà aumenta vertiginosamente, i giovani non trovano uno straccio di lavoro, gli immigrati ci chiedono accoglienza, e gli uomini della “vera” sinistra italiana, si preoccupano dei voucher al punto da farne un’occasione per mettere eventualmente in crisi il governo.

I bersaniani di Mdp hanno tempo da perdere e si attaccano alle piccole questioni trasformandole in battaglie ideologiche. Il problema è quello del lavoro saltuario e occasionale: bisogna trovare uno strumento agile per regolamentarlo al meglio. Si era introdotto lo strumento voucher, ma su di esso si è scatenata un’assurda offensiva sindacale fino alla promozione di un referendum abrogativo. Viene tolto questo strumento e si pensa di trovarne uno migliore che magari eviti gli abusi. No, non va bene. Perché? Per Mdp è un limite invalicabile, non si può parlare di queste semplificazioni per le imprese, ma solo per le famiglie. E le imprese, soprattutto quelle piccole col problema di dover fare ricorso a questi lavoretti una tantum? Si avvalgano delle forme contrattuali già in essere! Ma non si adattano al bisogno… Si arrangino! Ed effettivamente si arrangeranno e faranno ricorso al lavoro nero.

Tutto perché bisogna ostentare qualche gargarismo di sinistra per distinguersi a tutti i costi e buttare un po’ di fumo negli occhi al popolo. Penso e spero che la gente capisca la strumentalità di queste posizioni da “trinariciuti” riveduti e scorretti, ma non ne sarei troppo sicuro. Il richiamo della foresta si fa sempre sentire.

Se la sinistra pensa di recuperare credibilità e consenso in questo modo…È questa la strategia dell’attenzione agli emarginati delle periferie sociali e territoriali? È questo il rigore etico e politico di una sinistra di governo?

Ma parliamo d’altro. Non sono un ammiratore di Flavio Insinna, il presentatore televisivo reo di avere pronunciato, fuori onda, parole offensive verso i concorrenti della sua trasmissione e quindi non intendo spendere parole a sua discolpa. La cosa curiosa però è stata la reazione del presidente della Commissione di vigilanza Rai, Roberto Fico, un esponente di primo piano del M5S: «Non ci sono parole per i fuori onda della trasmissione Rai Affari tuoi. È stato superato ogni limite di decenza. Sono offeso per i concorrenti, oggetto di commenti irripetibili, e per il pubblico presente in studio e a casa». «Chi ha scelto questa nana di m….?» avrebbe detto Insinna, innervosito dal comportamento di una concorrente a lui sgradita.

Consiglierei a Roberto Fico di preoccuparsi piuttosto delle parole irripetibili lanciate dal suo leader Beppe Grillo durante i comizi e tutte le volte che viene interpellato. Da che pulpito viene la predica! Saranno i grillini i castigati portatori del verbo politicamente corretto? A Parma si chiama becco di ferro.

In conclusione, da una parte abbiamo i bacchettoni della sinistra che si scandalizzano dei voucher, dall’altra i bigotti grillini che si scandalizzano delle parolacce fuori onda di un personaggio televisivo. Di qua i nostalgici della “lotta e della massa”, di là i burini dell’antitutto. In mezzo tutta la stupida, inconcludente e irritante strumentalità del dibattito politico.

Nel frattempo le ragazzine continueranno a saltare in aria come birilli, i bambini ad affogare come gattini, la povertà aumenterà ancora, i giovani non troveranno uno straccio di lavoro, gli immigrati ci chiederanno accoglienza e noi faticheremo sempre più a concedergliela. Non è certo colpa solo dei due scalcagnati eserciti di cui sopra (Mdp e M5S), ma da chi pretende di avere in mano la verità e di essere portatore dell’ideologia vincente si può esigere un po’ più di sensibilità, serietà e coerenza.