Gli acuti steccati alla “viva il sindaco”

Una cosa è certa, il 25 giugno 2017, giorno del ballottaggio alle elezioni amministrative del Comune di Parma, non sono andato né al mare né ai monti. Me ne sono stato in casa al fresco artificiale, con la “morte politica nel cuore”. Spiego il perché.

Dopo tanti e reiterati tentativi di trovare un motivo per recarmi alle urne (la ricerca dell’ago nel pagliaio della politica amministrativa parmense), ho finito, come avevo peraltro previsto e come avevo già fatto al primo turno, con l’astenermi: una decisione sofferta, assolutamente non soddisfacente, ma coscientemente presa.

Ho valutato, senza prevenzione, i candidati (nonostante il loro scarso appeal), ho sbirciato i loro programmi (aria fritta), ho considerato il significato politico della consultazione amministrativa (questione dell’uovo e della gallina), ho ripassato l’insegnamento di chi giustamente sostiene che si può votare anche per il meno peggio (non l’ho sinceramente trovato, riscontrando una perfetta corrispondenza biunivoca tra i candidati), ho persino aperto la coscienza alla storia di coloro che hanno dato la vita per conquistare il diritto al voto (alla fine mi è sembrato di offenderli con un voto dato così, tanto per votare), ho ripensato ai buoni amministratori che Parma ha avuto nella sua storia democratica (troppo lontani nel tempo e troppo diversi da quelli di oggi).

I faccia a faccia che, lo ammetto, ho seguito di sfuggita, mi pare abbiano evidenziato (al di là dei toni reciprocamente arroganti volti a soddisfare le pur scarse tifoserie e nascondere, da una parte, mancanza di proposta e dall’altra   di risultati ottenuti) un’assenza di pathos e un ripiegamento sui luoghi comuni, con particolare riguardo a quello della sicurezza. Siamo tutti per la sicurezza: il problema è se perseguirla chiudendoci nel nostro guscio, illudendoci di tenere fuori dalla porta quei rischi che puntualmente arrivano dalla finestra oppure se avere il coraggio di affrontare i nodi sociali che covano sotto la cenere. A proposito di sicurezza o meglio del suo contrario che è la paura, riporto le riflessioni della pastora battista Lidia Maggi, teologa e biblista: «Viviamo di paura. Paura di tutto. E anche altri vivono delle nostre paure: politici e funzionari del sacro, pronti a riscuotere gli interessi delle nostre paure. Viviamo di paura e la paura non ci fa vivere. Dietro porte blindate, chiuse a doppia mandata, vediamo la vita passare, col panico che qualcuno ce la tolga. Ce la stiamo togliendo noi stessi».

Mi fermo perché quando manca la sintonia è inutile insistere. Voglio invece ripiegare sull’ardita similitudine tra la passione per il canto e quella per la politica. Vado, come spesso accade, a prestito da mio padre, che, tanto per esser chiari non era un patito dell’acuto per l’acuto, men che meno dell’acuto sparato alla “viva il parroco”; apprezzava certamente l’esuberanza e la sicurezza vocali che sintetizzava in un modo di dire curioso ma plastico, rivolto soprattutto ai soprani, “la va pr’aria” , ma soprattutto si entusiasmava per la frase incisiva, per l’interpretazione trascinante, per gli interpreti “chi fan gnir i zgrizór”, per i cantanti che lasciano un segno forte nel personaggio più che nel ruolo. Ebbene i candidati a sindaco di Parma non andavano “pr’aria” e non facevano venire “i zgrizór”, forse davano solo i brividi della paura di essere male amministrati. Non incuriosivano cioè la mente e non scaldavano il cuore.

Insomma, le ho provate tutte e non ce l’ho fatta. Ho tentato l’approccio culturale, storico, razionale, sentimentale, programmatico: niente da fare. Ho sgombrato la mente da pregiudizi, dalla giustificata ossessione di vedere Parma governata dai cosiddetti poteri forti (peraltro non lontana dalla realtà storica di un lungo periodo, non ancora archiviato). Mi sono astenuto! Vorrei sforzarmi non tanto di giustificarmi, ma di dare un significato a questa non scelta.   Forse è una tardiva e petulante dichiarazione d’amore per la mia città. Forse è solo un sintomo di vecchiaia e di mancanza di volontà di combattere le buone battaglie. Forse è un atto di presunzione o di superbia. Forse ho sempre avuto passione per la politica, ma non sono mai riuscito a entrare nei suoi difficili meccanismi. Forse l’esperienza mi condiziona e mi scoraggia. Potrei continuare, ma non lo faccio. Mi sono astenuto! Punto e stop. Se ho sbagliato, me ne assumo tutta la responsabilità; se ho fatto bene, non me ne vanto per niente. Sarà, spero, per la prossima volta.

L’Euro-Mida degli eserciti

Mio padre era un pacifista, non tanto per motivazioni di carattere ideologico, ma per un suo innato buon senso che lo portava ad aborrire la guerra. Ogni volta che sentiva notizie sullo scoppio di qualche focolaio di guerra reagiva auspicando una obiezione di coscienza totalizzante: «Mo s’ pól där ch’a gh’sia ancòrra quälchidón ch’a pärla äd fär dil guèri?».

Davanti agli interminabili ed insanabili contrasti politici si scandalizzava, non tanto perché ignorasse ingenuamente la difficoltà di trovare i punti in comune a favore della collettività, ma in quanto riteneva provocatoriamente che, se si parlava di costruire il progresso economico e sociale, saltavano fuori tutte le possibili e immaginabili differenze di opinione, mentre invece, quando si trattava di mettersi d’accordo per preparare o scatenare una guerra, per armarsi fino ai denti, bastavano pochi minuti e si trovavano cospicue risorse e unanimi volontà politiche.

Me ne sono ricordato in questi giorni apprendendo come, a livello Ue, la rinnovata cooperazione post-brexit e la collaborazione franco-tedesca, abbianp preso il via proprio da un patto sulla difesa comune: battaglioni misti per la reazione rapida e il dispiegamento di truppe in teatri di crisi esterni all’Unione, nonché un Fondo per la difesa europea con le risorse per la ricerca e lo sviluppo in campo militare. Non so nemmeno cosa voglia dire e me ne vanto: ho copiato di sana pianta da chi se ne intende.

Capisco benissimo l’importanza strategica di un simile accordo, il suo significato unificante all’interno (linea comune di difesa, maggiore organizzazione ed efficienza, persino forse il risparmio o, quanto meno, il miglio utilizzo delle risorse) e stabilizzante verso l’esterno (una risposta all’isolazionismo atlantico di Donald Trump). Tuttavia desidererei che ci fosse almeno altrettanta convinzione sulle altre problematiche a carattere sociale (vedi immigrazione) ed economico (vedi sostegno ai Paesi più deboli della catena e ai paesi sotto-sviluppati dell’Africa). Qui invece casca l’asino e rispuntano immediatamente gli egoismi nazionali, i muri, le perplessità, gli scetticismi.

È innegabile che l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue, ancora tutta da stabilire nei suoi modi e tempi e nelle sue conseguenze bilaterali, stia facendo da detonatore per un rinnovato impegno unificante dei rimanenti Paesi europei. Tutto il mal non vien per nuocere? Può darsi, anche se perdere una carrozza non è sicuramente un buon viatico per il prosieguo del viaggio in treno. Certo quel tanto osannato coraggio anti-europeo sta lacerando la società britannica: e siamo solo agli inizi. Speriamo serva di lezione a tutti.

Che però la ripartenza e il contropiede europeo partano dagli eserciti e dalle armi in comune, mi sembra curioso. Mio padre mi risponderebbe: «At l’ho dìtt: i sòld par fär dil guéri is caton sémpor, par jutär i pòvor diävol in ghen mäi…».

Ma no papà, forse è solo il desiderio di stringere le fila, di stare uniti e di prevenire gli attacchi esterni. Speriamo sia così, anche se la tentazione di ripiegare sull’insegnamento paterno è molto forte.

 

Il Donnarumma prodigo

È sempre difficile stabilire fin dove il comportamento delle persone, soprattutto dei giovani, sia determinato dai condizionamenti esterni o dalle decisioni autonomamente adottate a livello individuale. Nessun uomo è un isola e quindi tutti risentiamo, più o meno, dell’influsso della mentalità corrente. Questo discorso vale ancor di più se riferito a persone in età giovanile.

Vengo al dunque: è inutile pretendere che il diciottenne Donnarumma affronti le questioni riguardanti la sua carriera da calciatore in assoluta autonomia, ragionando con la propria testa. È oltre tutto cresciuto in un ambiente bacato come quello del calcio, dove il facile, breve e lusinghiero successo sono l’obiettivo da perseguire, dove montarsi la testa è quasi obbligatorio, dove il divismo è la regola, dove l’affarismo è la sintesi di ogni vicenda sportiva. Buttare la croce addosso ad un diciottenne e promettente calciatore, perché sembra intenzionato a passare all’incasso con una certa precipitazione, senza andare troppo per il sottile, mi sembra una cattiveria che solo gli assurdi “perbenisti” del calcio possono concepire e attuare (i finti dollari lanciatigli e gli striscioni offensivi rivoltigli sono iniziative di bassa macelleria psicologica e umana).

C’è però l’altro aspetto della medaglia. Gigio Donnarumma, il portierone prematuramente esaltato in modo eccessivo, dovrebbe provare a crescere, non in altezza (lo è forse fin troppo), ma in cultura etico-professionale. Non si faccia aiutare da mediatori senza scrupoli. Abbia l’umiltà di consigliarsi con persone di provata esperienza e moralità. Sappia che la vita, per un calciatore, non gira soltanto attorno ad un pallone ed al relativo portafoglio. Ricordi che oggi tutti sono pronti ad incensarlo, ma domani, al primo accenno di debolezza (una qualche gatta sarà inevitabile anche per lui, lo renderà più simpatico ed umano, ma i censori non gliela perdoneranno), da promessa sprofonderà in delusione per la critica e la tifoseria (non saprei quale delle due temere di più). Faccia i conti non solo con gli ingaggi astronomici, ma con l’impostazione di una professione molto più complessa e difficile di quanto possa sembrare.

Si può essere seri lavorando in un ambiente così poco serio? Non lo so. Questi giovani talenti, usciti dai vivai delle grandi società dove è stato loro inculcata l’idea che tutto deve essere sacrificato alla religione calcistica, mi fanno sinceramente molta pena. Hanno anche una responsabilità nei confronti dei loro coetanei, che li osservano come esempi da imitare e “sgolosare”. Coniugare l’impegno professionale con il successo, la serietà sul lavoro con il guadagno facile, la correttezza con la convenienza: sono sfide che valgono per tutti, anche per Donnarumma. Auguri, caro Gigio. Anzi, in bocca al lupo!

I riti e le parodie

Avevo sedici anni circa quando ebbi l’occasione, durante un viaggio premio a Roma, di visitare l’aula di Montecitorio. Ne fui emozionato, quasi intimorito oltre che onorato: pensavo a tutte le vicende storiche che in quel Parlamento si erano dipanate, ai personaggi che l’avevano frequentata da protagonisti e da osservatori, alle discussioni e alle decisioni fondamentali che in essa si erano svolte. Mi trovavo nel tempio della democrazia italiana.

Nei templi si svolgono dei riti, che hanno precisi significati simbologici e che danno un senso al divenire della vita di una società democratica. Anche quello tenutosi a Westminster con il discorso letto dalla regina Elisabetta, per l’inaugurazione della sessione parlamentare dopo le recenti elezioni, aveva un tono ritualistico, ma devo confessare che, pur con tutto il rispetto per una democrazia ultraconsolidata come quella inglese, dava l’idea di una parodia, di una penosa messa in scena. Una Gran Bretagna chiusa in se stessa, fuori dall’Europa, in evidente crisi politica, squassata dal terrorismo e da tragici lutti nazionali, divisa territorialmente, socialmente e politicamente, rappresentata al più alto livello da una vecchietta arzilla proveniente da una famiglia reale piena di umane contraddizioni e di insignificanze sociali. Questa la triste realtà coperta da una cerimonia vuota: un discorso letto in nome e per conto di una premier di cartone, la presenza imbarazzata e ravvicinata dei leader di maggioranza (che non esiste) e di opposizione (che timbra il cartellino), i segni di un sistema decadente con lo sguardo al passato (è stata risparmiata la Corona, sostituita da un sobrio ma ridicolo cappellino), una sfilata regale senza carrozza e forse senza regina (una cenerentola a rovescio che suscita più compassione che ammirazione).

Se devo essere proprio sincero preferisco la pur deplorevole cagnara del Parlamento italiano alla fredda ritualità inglese. Da europeo poi, mi sono consolato leggendo la sintesi del programma del presidente francese Macron, emergente dalla sua prima intervista da Capo dello Stato: l’Europa è l’unico posto al mondo dove le libertà individuali, lo spirito della democrazia e la giustizia sociale si sono unite così tanto; non si tratta solo di applicare politiche a paesi o popoli, bisogna convincerli e farli sognare; l’Europa non è un supermercato, ma un destino comune.

Mi sono riconciliato con la democrazia. Molto meglio queste parole francesi (sono parole ma chissà…) delle insulse pantomime inglesi (sono fatti ripetitivi e antistorici). E poi, se proprio volete che dica la verità, molto meglio Brigitte Macron della regina Elisabetta. Una donna che mi ispira fiducia (il mio femminismo è sempre più spinto), che, come il marito, sa andare contro certe convenzioni, proprio l’esatto contrario dei reali inglesi prigionieri del loro falso perbenismo. Viva la Francia! Lo dico in italiano per non esagerare. Non si sa mai.

 

 

 

Il suicidio assistito dei carcerati

Mentre dirigenti e militanti radicali proseguono imperterriti le loro importanti battaglie sull’illegalità dello stato delle nostre carceri nell’indifferenza politica e mediatica e nella (quasi) ostilità di larga parte della pubblica opinione, continua la triste sequela di suicidi a livello di detenuti, indubbio e tragico sintomo di un malessere inaccettabile nella vita degli istituti di pena e della mancanza incostituzionale del perseguimento della rieducazione del condannato.

Il fatto, che mi ha da sempre impressionato e che dovrebbe rendere l’idea delle drammatiche tensioni esistenti nell’ambiente carcerario, riguarda il suicidio piuttosto frequente di guardie carcerarie: un clima di terrore che avvolge i detenuti e chi li controlla in una paradossale violenza, che rende tutti uguali di fronte alla non legge. Ho provato a immaginare quali rapporti (non) umani si vengano ad instaurare nelle patrie galere, probabilmente la realtà supera la fantasia.

Sono tante e tutte risibili le motivazioni che portano la gente a sottovalutare o giustificare la realtà carceraria che oltre tutto ci viene ripetutamente rinfacciata dall’Unione Europea. Si va dallo scantonamento della giustizia in mera vendetta all’illusione che la brutalità della pena possa rappresentare un efficace deterrente contro la delinquenza, dalla priorità dei buoni (sarebbero i poveri che chissà perché vengono ricordati solo per soffocare altri poveri, come nel caso dello Ius soli) rispetto ai cattivi (coloro che devono pagare un prezzo non un annientamento), dall’ansia di sicurezza alla voglia di risanamento, cominciando i compiti dalla fine.

C’è naturalmente chi cavalca la tigre a livello politico, seminando paura e sgomento, che talora sfiorano persino il desiderio di ripristinare la pena di morte. Siccome tale pena non viene reintrodotta legalmente, la si applica surrettiziamente tramite l’abbondante ricorso al suicidio dei carcerati (forse si tratta dell’unico caso di suicidio assistito ammesso dalla nostra legislazione).

Mi sembra di sentire delle voci contrarie ai miei argomenti. “Con tutti i problemi che esistono, possibile che ci si preoccupi del trattamento da riservare ai delinquenti?   Io butterei via la chiave e succeda quel che deve succedere”. Sparate da bar, purtroppo molto frequentato. Lasciamo perdere gli errori giudiziari, non consideriamo le lungaggini della detenzione in attesa di giudizio, resta comunque una realtà assurdamente inumana, che non possiamo accettare rimuovendola dalle nostre menti con le fasulle argomentazioni delle carceri permissive e delle scarcerazioni facili. Non bisogna fare confusione, ma ragionare e, sul piano razionale oltre che umanitario, prevale senza alcun dubbio l’esigenza di una detenzione seriamente imposta, ma altrettanto seriamente impostata. Proviamo a pensarci al di là delle solite stupide battute. Ricordiamoci che i detenuti, come tutti i cittadini a seconda del loro stato, sono titolari di diritti e di doveri. I diritti, a cominciare da quello alla vita e alla propria dignità, sono incancellabili, pena il passaggio da uno stato di diritto ad uno stato oppressivo ed illegale, col quale, prima o poi, saremo eventualmente tutti chiamati a fare i conti.

Credere, disobbedire e combattere

Mi fa tanto piacere che papa Francesco con un “pellegrinaggio” riparatore abbia rivalutato la portata profetica e pastorale di due preti molto osteggiati e maltrattati in vita dalla gerarchia (con qualche eccezione che confermava la regola): don Lorenzo Milani e don Primo Mazzolari. Della loro testimonianza mi piace cogliere il senso trasgressivo rispetto all’andazzo ecclesiale, senza tuttavia rompere i ponti con la Chiesa istituzione, nella geniale ma sofferta scelta del disubbidire nell’ubbidienza.

La Chiesa cattolica è sempre pronta a criticare il mondo, la società, la politica: perché non sostiene la famiglia, perché non difende la vita, perché non si batte contro il gioco d’azzardo, perché non dà lavoro ai disoccupati, etc. etc. Tutte critiche sacrosante e meritate. Ma, quando le critiche si rivoltano contro se stessa, allora il discorso cambia e diventano mancanza di amore e di rispetto, a prescindere dal merito delle critiche stesse. Come si diceva ai tempi del fascismo: credere, obbedire, combattere.

Mia sorella Lucia viveva la fede non in senso meramente religioso, vale a dire come rispetto di regole preconfezionate, ma in chiave anche fortemente critica e polemica, coniugata però sempre con il dialogo a trecentosessanta gradi, con la collaborazione aperta e senza pregiudizio alcuno, con la gratuità del servizio alla comunità ed ai suoi componenti, con la solidale apertura a tutti, soprattutto ai più bisognosi.

Quando, ad esempio, osservava a livello della Chiesa come venivano effettuati i trasferimenti dei preti, vale a dire con i soliti metodi militareschi, quasi i sacerdoti fossero dei pacchi postali da spedire a destra e manca, reagiva stizzita e una volta non seppe resistere alla tentazione di esprimersi direttamente ed in modo nettamente polemico rispetto al solito inaccettabile andazzo. Agli attacchi verso la Curia si sentì rispondere dall’allora potente vicario generale della diocesi: «Nella Chiesa non ci devono essere problemi di carriera…». Rispose: «Sì certo, ma il caso vuole che lei abbia fatto carriera, mentre “i sacerdoti semplici”   li spedite in fretta e furia a farsi il mazzo…».

Ho ripensato a tutto ciò leggendo un episodio riportato da Enzo Bianchi, fondatore della Comunità monastica di Bose, nell’ambito di un suo articolo sulle critiche alla Chiesa: «Un cardinale, in vacanza in montagna, incontrò un parroco profetico e santo, scomodo per la sua parresia. Il presule lo apostrofò: “Ah, tu sei come don Mazzolari: uno di quelli che non ama la Chiesa e la critica!”. A questo sacerdote si illuminarono gli occhi azzurri e con il dito alzato verso il cardinale rispose: “A lei, eminenza, non permetto di dire così! Lei della Chiesa ha solo beneficiato, con la carriera ecclesiastica e gli onori. Noi abbiamo sofferto da parte della Chiesa, perché la amiamo troppo!».

Enzo Bianchi sostiene che bisogna amare la Chiesa e quindi, conseguentemente, criticarla denunciandone le contraddizioni. Non posso dimenticare l’esempio del caro amico sacerdote Luciano Scaccaglia: sapeva amare la Chiesa, intendendola e vivendola come comunità aperta ai poveri ed ai diversi, e quindi la criticava doverosamente e calorosamente. Anche lui incontrò eccellenze ed eminenze spietatamente critiche ed emarginanti nei suoi confronti e seppe rispondere, più o meno, come fece il parroco sopra citato.

Concludendo potremmo dire che, anche a livello ecclesiale, la critica è il sale dell’amore, chi non critica non ama, si accontenta di ignorare. Il segreto del cristiano sta nell’interpretare l’adesione alla cattolicità come adesione a Cristo e di conseguenza in linea col più grande critico e provocatore di tutti i tempi.

 

Ho nostalgia di Umberto Bossi

Si continua a parlare di Europa, ad esaminare gli andamenti politici nei principali Paesi europei, a pontificare sull’evoluzione o involuzione della Ue, a commentare le elezioni francesi, a prevedere quelle tedesche, a trarre indicazioni dagli andamenti elettorali, a teorizzare schieramenti politici, senza ammettere che la politica di ogni Paese fa ancora (purtroppo) storia a sé, che i partiti sono diversi indipendentemente dalla loro adesione ai gruppi esistenti nel Parlamento europeo, che i personaggi giocano in proprio al di fuori di auspicabili logiche continentali, che prevale il protagonismo personale, regionale e nazionale sul conformismo confederale.

Mentre i socialisti sono ridotti al lumicino in Francia, schiacciati sul massimalismo e perdenti di lusso in Gran Bretagna, ancora competitivi ma fortemente indeboliti in Germania, in Italia i democratici rimangono l’unico vero partito sulla scena politica. Mentre il populismo impazza sposato da movimenti e partiti di destra estrema e financo nostalgica, in Italia la più corposa forza populista, il movimento cinque stelle, incarna in modo equivocamente originale ed indistinto le pulsioni di base, indirizzandole più sull’antipolitica che sull’antieuropeismo. Mentre nei Paesi europei   le forze moderate di destra tendono a spostarsi verso un centro sostanzialmente liberal-conservatore, distinguendosi nettamente dai nazionalisti e dai populisti, in Italia permane una confusa e frammentata situazione tra centristi, berlusconiani, leghisti e sedicenti fratelli d’Italia (questa macedonia si potrebbe trasformare in un frullato sulla spinta delle recenti elezioni amministrative?).

Poche riflessioni su questo ultimo dato. Se da una parte l’ingombrante presenza di Silvio Berlusconi continua a introdurre l’illusionistica ma impossibile sintesi fra le diverse anime antistoriche dell’attuale destra italiana, dall’altra parte blocca pretestuosamente ogni chiarimento sulla base di un carisma da operetta, abbarbicato alla insignificante oltre che improbabile rilegittimazione da parte della Corte europea, dall’altra ancora punta su un movimento giovanile e liquido alla Macron: dopo aver rovinato l’Italia per circa un ventennio, rischia di rovinare la destra annullandone le potenzialità politiche e tenendo il coperchio sulla relativa pentola, di confondere le carte della politica italiana a proprio uso e consumo (come del resto ha sempre fatto). D’altra parte l’unico ed imprescindibile leader rimane lui.

Devo ammettere che di fronte a Matteo Renzi si può essere favorevoli, contrari o perplessi (meglio con argomenti seri piuttosto che con le nostalgie degli improbabili spretati rossi), davanti a Beppe Grillo si può essere sempre più preoccupati del dove potranno finire le sue (non) strategie a corrente alternata, dinanzi a Berlusconi si può amaramente sorridere, ma con Matteo Salvini bisogna solamente   chiedersi se si è desti o si sta sognando. La frittata leghista tra nordismo, federalismo, nazionalismo, antieuropeismo, putinismo, trumpismo, populismo, ha dell’incredibile: se ne sta accorgendo Umberto Bossi che di leghismo se ne dovrebbe intendere (solo i suoi disgraziati handicap fisici e le sue incolpevoli vicende famigliari e familistiche hanno dato spazio al nuovo leader).

Mi dispiace perché con Umberto Bossi il leghismo era una cosa seria da combattere, con Salvini è diventato una presa in giro. Sono del parere che in politica, come del resto nella vita in genere, sia molto meno pericoloso un avversario trasparente e portatore di un’idea (Bossi) rispetto a un nemico fumosamente e pervicacemente ridicolo (Salvini). Leggendo le cronache e i commenti all’assemblea congressuale leghista con tanto di ingenerosi fischi e faziose contestazioni nei confronti di Umberto Bossi, ho provato un senso di grave fastidio per la solita ingratitudine umana e ho pensato che andava meglio quando andava peggio.

Durante il dibattito parlamentare per l’insediamento del primo governo berlusconi, un esponente della destra si rivolse provocatoriamente a Massimo D’Alema: «Rimpiangiamo il Partito Comunista!». «E io rimpiango la Democrazia Cristiana…» ribattè D’Alema con la sua impareggiabile vis polemica. Io oggi arrivo a rimpiangere Umberto Bossi. È tutto dire.

Papa Francesco, dai gesti ai fatti

Tempi “politici” per Francesco. Il francescanesimo politico di Beppe Grillo è durato poco: la sua ostilità allo Ius soli lo ha immediatamente scoperto nel giochetto strumentale di accreditarsi come il giullare di Dio dei tempi moderni. Atteggiamenti più antifrancescani di così non ne poteva inventare: probabilmente scherzava quando si è proclamato seguace del santo o scherza quando pontifica su immigrazione e cittadinanza. Fatto sta che lo scherzo può durare poco e diventa una penosa esibizione da avanspettacolo.

Papa Francesco invece fa sul serio: lascia intravedere l’ipotesi di un decreto di scomunica per corrotti e mafiosi. Sarebbe un gesto di notevole impatto etico-politico. Sono pregiudizialmente contrario alle scomuniche. Storicamente oltre che teologicamente, si sono rivelate uno strumento pericoloso ed ambivalente: usate spesso per tacitare o addirittura perseguitare i nemici della Chiesa, strumentalizzate per bloccare sul nascere i venti di critica verso la gerarchia, adottate per   interpretare la parte di un dio vendicativo e punitivo che sprofonda negli inferi gli uomini che trasgrediscono i suoi comandi, utilizzate per esercitare, in senso conservatore e reazionario, il potere sulle coscienze   incutendo timore e paura.

Non so se lo strumento sia quindi il più adatto per il governo pastorale della Chiesa: non vorrei che i mafiosi ed i corrotti aprissero una serie di altri soggetti da escludere a seconda dei momenti storici e degli interessi contingenti. Di papa Francesco ci si può fidare, ma, riabilitato istituzionalmente, lo strumento potrebbe diventare pericoloso in un futuro, in un contesto diversi e, soprattutto, in altre mani.

In questa drastica presa di distanza dalla corruzione fatta sistema voglio vedere però il bicchiere mezzo pieno, vale a dire il taglio netto di ogni e qualsiasi connivenza, omertà e tentazione nei confronti delle varie forme di ingiustizia istituzionalizzata. Certamente avrebbe un forte significato e potrebbe segnare la volontà di trasformare in prassi ecclesiale l’eroismo profetico dei martiri di tutte le mafie del mondo.

Il premio nobel della letteratura, Mario Vargas Llosa ha detto del papa: «Francesco è simpatico, dice le cose giuste che da tempo avremmo voluto sentire da un papa, ma non si sono ancora trasformate in realtà. Queste riforme annunciate nella Chiesa non sono state fatte perché la struttura del Vaticano è molto conservatrice o perché questo papa parla più di quel che fa?».

Si tratta, a mio giudizio, di una forte e pertinente provocazione: il pericolo, per il papato francescano e per la Chiesa che ne sta seguendo le indicazioni, è certamente quello di innescare un’avvolgente ma superficiale infatuazione, troppo legata alla sensibilità ed alla popolarità di papa Francesco, destinata a sciogliersi o quanto meno a diluirsi nel tempo. Probabilmente l’intenzione di decretare la scomunica per corrotti e mafiosi va nella direzione di riformare definitivamente la Chiesa, sganciandola da ogni e qualsiasi tentazione di potere e di profitto. Mi piace leggerla in tal senso, quasi che Francesco volesse cominciare a mettere i puntini sulle i, passando dalle parole e/o dai gesti ai cambiamenti nelle strutture, nelle regole e nelle norme di comportamento, correndo il rischio calcolato di ricadere nel dogmatismo, pur di portare a casa risultati irreversibili.

Un po’ così la legge, ben più autorevolmente di me, lo studioso Alberto Melloni, che scrive al riguardo: «La scomunica ha senso se è la prima riga di una teologia della liberazione dalla corruzione mafiosa che insegni alla Chiesa e allo Stato che il moralismo, la retorica e l’antipolitica non solo non bastano, ma che senza un orizzonte di redenzione (quello che nel linguaggio politico si chiama giustizia) possono diventare lubrificante del male».

Per non perdere il voto si perde la faccia

Non mi stupisco più di tanto degli atteggiamenti che viene assumendo il M5S in materia di immigrazione (moratoria sugli arrivi, dubbi sullo Ius soli, prima ancora contrarietà all’abolizione del reato di immigrazione clandestina) nonché sul tema dei rapporti con l’Europa ridotta a mero bancomat a cui attingere pena l’uscita dall’Unione stessa. Si possono avere posizioni, che personalmente nel merito ritengo inqualificabili e non condivisibili, tuttavia ogni partito o movimento è libero di esprimere le sue proposte, sono semmai i cittadini a doverle giudicare e valutare.

Quel che non accetto è l’ipocrisia di chi vuol combattere l’ipocrisia, per dirla con Leonardo Sciascia, la peggior politica che si fa anti-politica, la perfetta omologazione volgarmente ammantata di sbracata diversità.

Se nel merito si può dissentire, è nel metodo che casca l’asino. Cosa c’è dietro la virata sugli arrivi degli immigrati? Solo ed esclusivamente la voglia di recuperare i voti persi a destra alle recenti elezioni comunali. Siamo nel puro tatticismo sulla pelle degli immigrati.

Cosa c’è dietro la probabile pilatesta astensione sulla legge che concede la cittadinanza ai nati in Italia da genitori stranieri con permesso di soggiorno di lungo periodo o permanente ed ai nati all’estero immigrati in Italia entro i 12 anni d’età che abbiano frequentato la scuola in Italia per almeno 5 anni? La chiara idea di concorrere alla conquista dei voti in gara con la Lega ed i suoi orientamenti. Cosa c’è dietro l’ulteriore irrigidimento antieuropeo fino ad arrivare ad ipotizzare l’uscita qualora l’utile per gli italiani (e chi lo calcola?) fosse in discussione? La strumentale cavalcata ad opzionare i voti di chi vede nell’Europa un cappio al collo. Cosa c’è dietro questa dichiarazione postata sul blog: «Quando andremo al governo presenteremo al Parlamento i nostri punti nel programma di governo. Se saremo il primo partito e riceveremo l’incarico cercheremo convergenze sul programma»? La tanto discussa e osteggiata politica delle mani libere, alla faccia del tanto auspicato vincolo di mandato e nella possibilità del più bieco e strumentale uso delle alleanze post-voto (quel che Renzi non può nemmeno lontanamente ipotizzare quale extrema ratio, a Grillo è possibile, anche allearsi con la Lega, non alla luce del sole, ma nelle tenebre degli accordi del poi).

In poche parole rispunta dalla finestra grillina il più spregiudicato degli opportunismi politici, che si voleva far uscire dalla porta. Un bel modo, non c’è che dire, di voltare pagina. Comincio a pensare che il M5S stia mostrando la corda e perdendo la bussola. D’altra parte l’insofferenza dei suoi esponenti (per quanto possa contare) continua a crescere, l’imbarazzo degli elettori risulta evidente, la leadership di Beppe Grillo comincia vistosamente a scricchiolare (lo si vede dalla sua ostinazione nel difendere Virginia Raggi e Luigi Di Maio).

Mi sembra interessante concludere riportando la cruda opinione del sondaggista Antonio Noto, che dice: «Il M5S è un consorzio elettorale acchiappatutto, dove albergano sia elettori di centrodestra che di centrosinistra, oltre a coloro che non hanno nessuna appartenenza politica. Per questo di volta in volta ha bisogno di rivitalizzare un elettorato così variegato, lanciando messaggi ora a destra ora a sinistra. Il voto ai grillini è ballerino, può andare via, come è successo nei comuni, ma può anche tornare molto facilmente in un contesto nazionale».

Le scorrettezze che valgono doppio

La stazione dei carabinieri di Aulla è nell’occhio del ciclone per un’indagine che prende di mira clamorosamente ben ventitré carabinieri per numerosi reati, lesioni, falso in atti, abuso d’ufficio, rifiuto di denuncia, sequestro di persona, violenza sessuale e possesso di armi. Non voglio precipitare giudizi e sentenze: siamo solo a livello di indagine e bisogna andare molto adagio prima di buttare croci addosso a chiunque. Molti cittadini hanno espresso solidarietà agli indagati dubitando dell’attendibilità di coloro che li stanno accusando e temendo errate o esagerate interpretazioni da parte della Procura della Repubblica. È in carcere un brigadiere, tre militari sono agli arresti domiciliari, altri quattro sono colpiti dal divieto di dimora in provincia di Massa.

Se da una parte (magistratura e cittadinanza) emerge l’intaccato l’alto apprezzamento per l’Arma dei carabinieri, dall’altra procuratore e giudice per le indagini preliminari insistono sulla evidenza dei reati commessi e sul quadro inquietante di pubblici ufficiali che si considerano al di fuori e al di sopra delle leggi dello Stato. Sì, le Istituzioni sono sane anche se i trasgressori ne intaccano sostanzialmente la credibilità e ne minano la serietà.

L’atteggiamento arrogante di questi carabinieri (dobbiamo essere come la mafia, si sarebbero detti fra di loro) e la gravità dei reati loro ascritti (mi riferisco soprattutto alle violenze sessuali) non possono essere sottovalutati. Certi comportamenti assunti dai tutori dell’ordine diventano doppiamente colpevoli, in quanto messi in atto da persone che ci dovrebbero proteggere, mentre invece sembrerebbe che facciano esattamente l’opposto. Non credo che la magistratura abbia infierito o che abbia agito con leggerezza. Staremo comunque a vedere il prosieguo della vicenda giudiziaria, sperando che non venga messo tutto a tacere per carità dell’Arma, considerata una sorta di intoccabile seconda mamma degli italiani.

Non so perché, ma sulla gravità dei fatti in questione mi è venuto spontaneo un parallelismo con la gazzarra scatenata nell’aula del Senato dai Leghisti all’arrivo della legge sullo ius soli, appoggiata all’esterno da manifestazioni promosse da Forza Nuova e Casa Pound   con abbondanza di cori e saluti fascisti: nell’aula di Palazzo Madama ci sono stati atti offensivi e aggressivi, gesti violenti (la ministra Fedeli contusa), insubordinazioni alla presidenza (Grasso mandato letteralmente e ripetutamente affanculo), etc. Episodi di questo tipo sono da condannare se avvengono in piazza o negli stadi, ancor più censurabili se si verificano in Parlamento ad opera di cittadini investiti di alte funzioni pubbliche come quella di senatore della Repubblica (d’altra parte la concomitanza tra i disordini in aula e le manifestazioni pseudo-fasciste nelle vie del centro romano la dicono lunga). Ognuno, carabiniere o parlamentare, deve avere coscienza del proprio ruolo e della propria responsabilità. Diversamente diventiamo una giungla di tutti contro tutti. Non si tratta di buonismo o di perbenismo, ma di rispetto per lo Stato e le sue Istituzioni,   per i cittadini e la loro civile convivenza.

Sono sicuro che fra gli italiani c’è chi tifa per i carabinieri spregiudicati e violenti, chi simpatizza per i politici da bar o, peggio ancora, da stadio. Mi pare di ascoltarne le assurde ragioni: fanno bene, bisogna tirare giù, picchiare duro, farsi sentire, creare casino, etc. etc. Cari amici, andiamo avanti così e vedrete dove andremo a finire. Il senso dello Stato e delle sue Istituzioni, il rigoroso rispetto della legalità, il rifiuto categorico della violenza, l’adesione incondizionata ai principi democratici e costituzionali sono condizioni irrinunciabili: non è ammissibile che un carabiniere, approfittando della divisa che veste, abusi del proprio ruolo; non è accettabile che un parlamentare disonori il sistema fondato sulla democrazia con sceneggiate sostanzialmente   razziste e strizzando persino di fatto l’occhio ai dimostranti neofascisti (proprio in questi giorni si è celebrato l’anniversario del sacrificio di Giacomo Matteotti, il suo sangue grida vendetta anche nei confronti di questi imbecilli che giocano con la nostra Repubblica); non è consentito che un gruppo di esaltati voglia impedire al Parlamento di legiferare in materia di cittadinanza (perché chi vive da tempo in Italia, chi ha studiato nel nostro Paese, chi ne accetta e rispetta le regole non dovrebbe avere diritti e doveri da cittadino? Solo perche Salvini e c. fanno una vergognosa cagnara e strumentalizzano certi disagi e certe difficoltà?). Se a qualcuno questa democrazia non sta bene, abbia il buongusto di emigrare (veda un po’, per assonanza di mentalità fascisteggiante, può scegliere tra gli Usa di Trump, la Russia di Putin e la Turchia di Erdogan): ci sarà più spazio per gli immigrati e i nuovi italiani. Si avrà un certo benefico ricambio.