La riforma di san Tommaso

Il mio direttore, in un momento di particolare frustrazione, mi confessò, con malcelato atteggiamento rinunciatario, la sua crisi burocratica: «Un direttore perfetto dovrebbe dare l’ordine, per poi eseguirlo in proprio ed autocontrollarne la esecuzione stessa». Solo così infatti si avrebbe la certezza che l’iter burocratico di una qualsiasi pratica giunga a conclusione positiva. Amara ma realistica ammissione di impotenza.

Questo ricordo, peraltro ripetutamente sperimentato nella mia vita professionale, mi “perseguita” ancor oggi ogni volta che mi imbatto, direttamente o indirettamente, in episodi di ostruzionismo burocratico. Alle fastidiose esperienze dirette si aggiungono gli immancabili e ricorrenti episodi di cronaca.

Quando sento il presidente del consiglio o un ministro esprimere una decisa volontà di rinnovamento, più che dubitare della sua buona fede e della sua capacità politica, mi viene spontaneo chiedermi quali e quanti bastoni fra le ruote gli porrà la macchina amministrativa. Qualsiasi provvedimento emanato dal potere legislativo e da quello esecutivo trova un immediato problematico riscontro a livello burocratico: il provvedimento infatti deve essere, quasi sempre, accompagnato da decreti attuativi, dalle circolari ministeriali, dalla prassi operativa dei vari uffici pubblici interessati. In questi meandri la volontà del legislatore e/o del governante viene spesso rallentata, frenata, stoppata, fuorviata, snaturata, annullata: non per incompetenza o incapacità (abbiamo fior di funzionari con grande esperienza e notevole preparazione), ma per istinto conservativo, per mancanza di volontà, per quieto vivere, per renitenza ad assumere responsabilità ed a correre i rischi conseguenti.

Voglio riportare, a costo di ripetermi, alcuni episodi emblematici di questi atteggiamenti invadenti ma bloccanti della burocrazia. Parto dall’alto e vado verso il basso.

Un importante avvocato nell’anticamera di una commissione tributaria svelò un segreto di pulcinella: in campo fiscale le risoluzioni ministeriale in risposta ai quesiti dei contribuenti conterrebbero volutamente margini di incertezza al fine di dribblare le responsabilità del funzionario in alto grado che le firma e ne dovrebbe rispondere. Tutti annuirono, nessuno smentì o mise in dubbio quella rivelazione. Cosa gravissima se vera,   impossibile da dimostrare. A giudicare dall’equivocità di gran parte delle interpretazioni si direbbe proprio che questa prassi risponda al vero.

Durante un convegno di carattere fiscale a cui partecipavano alti funzionari ministeriali, uno di essi, alla stringente domanda di un convegnista, ribattè candidamente che prima di rispondere avrebbe dovuto valutare l’impatto sulle casse erariali, con tanti saluti alla certezza del diritto e alla coerenza amministrativa. Fosse stato presente il Ministro, come minimo, avrebbe dovuto cavare un occhio a quel suo collaboratore incauto, sciocco, e incompetente.

Il giorno dopo l’approvazione definitiva di un provvedimento di legge in materia fiscale, pubblicato tempestivamente dalla stampa specializzata, contenente un’agognata norma agevolativa, un mio collega si presentò all’ufficio interessato per presentare una pratica e si vide negare perentoriamente l’agevolazione approvata dal Parlamento. Subentrai nella procedura e mi recai dal capo-ufficio con il testo di legge e lo consegnai con delicatezza   nelle sue mani: lo lesse e lo rilesse per alcuni minuti, evidentemente non lo conosceva (niente di male, era appena stato sfornato). Alla fine confermò l’applicabilità e allora ebbi l’ardire di chiedere un suo intervento sull’impiegato recalcitrante. Lo fece tramite citofono e capii che lo sportellista non ne voleva sapere. Il capo fu costretto a venire di persona ad impartire l’ordine sotto il mio sguardo piuttosto compiaciuto. La pratica andò a posto, ma non ebbi più l’ardire di rivolgermi a quel funzionario, che per sua ignorante testardaggine si era messo nella condizione di essere necessariamente mortificato.

Dovevo rinnovare l’esenzione al ticket in materia sanitaria per i miei genitori molto anziani: mi recai alla stanza dove venivano sbrigate queste pratiche. C’era una certa fila e rimasi sorpreso che tutti rimanessero in attesa pur essendo libero uno dei due funzionari addetti. Mi lasciarono tranquillamente il passo, entrai ed esposi il problema. Mi sentii rispondere in stile piuttosto sgarbato, ma soprattutto in modo completamente sconclusionato. Mi azzardai a controbattere e vidi che il collega da un’altra scrivania guardava preoccupato la situazione con la coda dell’occhio. Capii tutto, rimisi la pratica in borsa e uscii piuttosto contrariato e sconcertato. Se non altro avevo scoperto perché nessun utente avesse il coraggio di interloquire con quell’impiegato maldestro. Per saltarci fuori mi recai presso un patronato.

Gravi indizi di una mentalità burocratica che sembra avere lo scopo di neutralizzare le riforme, di rendere difficile l’applicazione delle leggi, di evitare grane e responsabilità, di mantenere lo status quo, di conservare il proprio potere di interdizione: una sorta di ricatto corporativo inaccettabile e paralizzante.

Più volte mi è capitato di fare una battuta sui governanti prigionieri della macchina burocratica: “nemmeno se il ministro della funzione pubblica fosse san Giuseppe ci si salterebbe fuori…”. Oltre tutto sbaglio sempre il santo: troppo umile e remissivo. Forse si potrebbe provare con san Tommaso capace di ficcare il naso in pratiche molto delicate, complicate ed importanti.

 

 

Vaticano, croce senza delizia per papa Francesco

Estate calda in Vaticano. Il cardinale George Pell si congeda dall’incarico di prefetto della Segreteria per l’economia, dopo essere stato incriminato per abusi sessuali e stupro, che avrebbe compiuto su minori negli anni ’70 quando era prete in Australia. Le finanze vaticane continuano ad essere nell’occhio del ciclone, anche se questa volta il temporale è scoppiato per questioni ancor più delicate e scandalose.

Il cardinale Pell ha tutto il diritto di difendersi, le accuse non significano colpevolezza. Pur ammettendo la gravità delle ipotesi di reato e pur considerando la vastità del fenomeno della pedofilia a livello di clero, colpevolmente coperto nel tempo, mi pare di scorgere talora un certo compiaciuto accanimento: lo dico non certo per alleggerire la gravità di vicende sconvolgenti, ma un conto è il terrificante fenomeno mai sufficientemente condannato e combattuto, un conto è il dovere di cronaca senza alcun riguardo verso altolocati uomini di Chiesa, un conto il pericolo di sottoporre mediaticamente (forse) a processi sommari alcuni personaggi coinvolti. Lo dico e lo scrivo, dopo avere a suo tempo avuto il coraggio di interrompere l’omelia di un sacerdote, che in buona fede prendeva un granchio tremendo, riducendo la pedofilia a calunnioso e pretestuoso attacco alla Chiesa, mettendola fra le vittime al posto dei soggetti abusati.

Come minimo, il cardinale Pell, che sapeva da tempo di queste pesantissime accuse nei suoi confronti, avrebbe dovuto dimettersi molto prima, al fine di chiarire la sua posizione sul piano giudiziario e senza nascondersi dietro incarichi prestigiosi a livello di curia vaticana.

Il giorno successivo, preceduta da indiscrezioni di stampa, avviene la nomina di un nuovo prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, l’arcivescovo spagnolo Luis Ladaria Ferrer, che sostituisce il cardinale tedesco Gerhard Müller. Anche sul capo del nuovo responsabile dell’ex Sant’Uffizio si scatena un temporale: nel 2016 avrebbe firmato, come segretario della Congregazione stessa, un decreto di riduzione allo stato laicale di un sacerdote italiano per abusi sessuali su minori, senza operare denunce alle autorità italiane, con la raccomandazione ai suoi diretti superiori di far sì che la nuova condizione del sacerdote non desse scandalo ai fedeli e di divulgare la notizia soltanto in caso di “pericolo di abusi su minori”. Abusi che purtroppo avvennero nel silenzio dell’autorità ecclesiastica competente, che dichiara di non essere venuta a conoscenza di questi ulteriori fatti.

Vicenda molto brutta in cui l’arcivescovo Ladaria non è coinvolto direttamente, ma nella quale la Congregazione, di cui era segretario, non ha certo brillato per trasparenza e intransigenza, atteggiamenti peraltro raccomandati da papa Francesco e prima ancora da papa Benedetto. Il comportamento rispecchia un’osservanza meramente canonica delle procedure, ben lontana dall’impegno etico e religioso per la difesa delle vittime (effettive e potenziali) e per la bonifica del marciume esistente nella Chiesa. Non è ancora acquisito del tutto il concetto del mettere in primo piano le vittime (le autosospensioni di Componenti della Commissione anti pedofilia la dicono lunga).

I due casi, quello del cardinale Pell e questo dell’arcivescovo Ladaria non sono uguali e non si può fare quindi di ogni erba un fascio. Tuttavia il male della pedofilia è ben lontano dall’essere estirpato e la chiarezza, sul passato e sulle procedure per il futuro, è lungi dall’essere fatta una volta per tutte.

Questa lunga premessa non tanto per ribadire la gravità di queste situazioni, ma per esprimere la sorpresa davanti a vicende che scoprono la debolezza di papa Francesco nei confronti della curia vaticana, di cui sembra essere un corpo estraneo (e mi può andare bene), ma anche un interlocutore un tantino distratto (e questo non va bene). Ho l’impressione che a mettere le mani nel ginepraio curiale si finisca inesorabilmente per pungersi. Oltre tutto nessuno offre a Francesco i guanti protettivi: lo vedo allo sbaraglio. Probabilmente è il suo tallone d’Achille. Credo che, quando chiede insistentemente preghiere, alluda a questa sua difficoltà.

A mio modesto giudizio, più che ad operare delle sostituzioni sarebbero opportuno puntare a disboscare, tagliare, ridurre, reimpostare. Facile a dirsi, difficile a farsi. Sulla nuova nomina a Prefetto della Congregazione della Fede grava un macigno che andava valutato prima: la cosa era nota. Ladaria non parte certo con il vento in poppa.

E se si smantellasse questo residuato bellico del Sant’Uffizio, rinviando tutto al Vangelo? E se le finanze vaticane fossero smagrite, decentrate, gestite con assoluta trasparenza da personaggi laici indipendenti? E se si sbloccasse tutta l’impostazione dogmatica e pastorale sulla sessualità di preti e laici? E se molti curiali andassero a fare i parroci in prima linea dove si svolge il buon combattimento della fede? E se ci fosse tolleranza zero verso tutti i veri comportamenti abnormi del clero (magari si è stati e si è tuttora severi ed emarginanti verso un prete che ha una relazione con una donna o con un uomo alla luce del sole, e si è tolleranti e omertosi verso chi vive la propria sessualità nel nascondimento, magari nella sporcizia se non nella devianza totale)? Domande provocatorie, ma legittime ed opportune. Ho riflettuto prima di scrivere queste sofferte riflessioni, ho cercato di non avere cattiveria verso alcuno, non ho inteso scagliare pietre perché non sono senza peccato, ho esposto solo il mio pensiero critico. Caso mai il nuovo prefetto del Sant’Uffizio aprirà una pratica sul mio conto.

Non scherziamo sulla “cagata pazzesca” di Trump

Da tempo osservo con rassegnato distacco il comportamento di Donald Trump. Sono convinti infatti che l’eccesso di attenzione mediatica finisca col favorirlo, vittimizzandolo o esponendolo ad un surplus di considerazione. Vale sempre il famoso detto: “l’importante è che se ne parli, magari in male, purché se ne parli”.

Tutto però ha un limite e mi pare che Trump lo stia superando coinvolgendo i suoi elettori in un deriva politica che ha dell’incredibile. Proprio oggi è deceduto Paolo Villaggio, il grande attore e geniale inventore di comicità, noto tra l’altro per la sua storica battuta fantozziana sulla corazzata Potëmkin. La prendo in prestito adattandola al presidente americano: “la presidenza Trump è una cagata pazzesca…”.

Molti continuano a deridere gli americani che meritano tutta la beffa in corso: se la sono cercata. Purtroppo ce lo beviamo anche noi, se lo sta bevendo tutto il mondo. Non si riesce a capire fin dove arriva la realtà e dove interviene lo scherzo atroce: ad ogni atto politico fa riscontro una buffonata social. Ultima del crescendo per chi ha letto le cronache: una twittata infantile e paradossale ad un tempo, un video di lotta con la personificazione della CNN a significare il duello in atto tra il presidente macho e i media che lo pressano e tallonano in tutte le sue scorribande. Twitta oggi, twitta domani…

Follia pura o scalata pianificata e deteriore al consenso? Propendo per una combinazione tra le due ipotesi. Ciò che mi preoccupa e mi spaventa è che storicamente gli andamenti della società americana si sono riprodotti nel tempo anche in Europa. E allora fra qualche tempo potremmo trovarci qualche Trump sotto casa? A ben pensarci qualcosa di lui già c’è stato e c’è anche in Italia. Non penso solo alla parabola berlusconiana che tanto assomiglia a quella trumpiana. Vado oltre e vedo gli apprendisti stregoni che (non) nascondono le loro simpatie. Ma gli italiani non si faranno incantare! Non ci farei troppo conto. Forse si tratta di un fenomeno unico e irripetibile, ma potrebbe essere l’inizio di un epoca in cui la politica si riduce progressivamente a fenomeno da baraccone col nulla osta elettorale dell’antipolitica, con l’alibi culturale dell’anti-establishment, col riferimento storico del populismo.

Gli ingredienti della torta li abbiamo tutti, manca solo il cuoco che potrebbe uscire prima o poi dalla scuola di cucina d’oltremanica. Sarà bene che gli americani si sveglino prima che sia troppo tardi, per loro, per noi, per tutti. Se non ci fosse di mezzo il mondo, ci sarebbe da buttarla in ridere. Usando twitter naturalmente.

Il sinistro dibattito della sinistra

Sono da sempre culturalmente e politicamente a sinistra, la sinistra cattolica, difficilmente e problematicamente collocabile. Negli ultimi tempi mi illudevo di avere trovato finalmente una dimora stabile nel partito democratico, la sintesi dei valori provenienti dal socialismo con quelli di matrice cristiana.

Si poteva prevedere una convivenza ideologicamente difficile: ex comunisti ed ex democristiani, una gara dura renderli compatibili ed assemblarli in una formazione politica. La difficoltà invece non si è verificata in campo ideologico, ma nella prassi politico-programmatica, tra due impostazioni diverse: una schematica al limite del burocratico, legata ad una storia superata, fatta di pansindacalismo, di operaismo, di utopismo fragile e sociologismo datato; l’altra ostentatamente lontana dagli schemi e pragmaticamente puntata sui problemi e sul governo di una società che rimescola i bisogni, le categorie e gli obiettivi intermedi.

A questo confronto si sono sovrapposte le spinte e le resistenze personali: gli ex leader che non intendono mollare l’osso e un nuovo leader che non vuole scendere ad una sorta di compromesso storico a rovescio.

Se   sparigliare i giochi e rimescolare le carte può essere pericoloso o quanto meno provocatorio, restare fermi al palo, cullandosi nelle illusioni del passato remoto e prossimo, diventa consolatorio e paralizzante. Niente di grave, spinte e controspinte si possono capire e mediare, la politica è fatta anche di questo. Il problema insormontabile qual è? L’impostazione più aperta e liberal è maggioritaria nelle sedi statutarie Pd (primarie, congresso, assemblea, direzione, etc), ma si scontra con una confusa, articolata e nostalgica verve frenante (minoranza Pd, fuorusciti dal Pd, cespugli vari ed eventuali) che pretende di fermare la macchina, cambiare il guidatore, per poi impostare un non ben definito nuovo viaggio di centro-sinistra plurale.

In mezzo a questo casino non mi ci trovo. Faccio nomi e cognomi. Dico francamente che se vedo i difetti e i limiti di Matteo Renzi troppo incline a sorvolare sulle peculiarità sociali e territoriali, non vedo proprio una leadership alternativa se non quella fegatosa dei D’Alema, quella settaria dei Bersani, quella astiosa dei Letta, quella patetica dei Prodi e dei Veltroni, quella ingenua e lunare dei Pisapia, quella velleitaria e infantile degli Speranza, quella chiccosa dei Cuperlo, quella improvvisata degli Orlando, quella politichese dei Franceschini.

Siamo alle piazze contrapposte, ai dibattiti paralleli, agli scontri per corrispondenza, alle schermaglie continue, alle censure reciproche. L’elettore medio di sinistra, mi ci metto in mezzo, come potrà reagire ad un simile gioco al massacro?   Male, malissimo!

Non c’è spazio per due o più sinistre in conflitto fra di loro, le quali dovrebbero poi mettersi d’accordo su come governare. Non c’è futuro per un partito democratico costretto ad una leadership messa continuamente in discussione e diretto sul ring di una perpetua resa dei conti politica e programmatica. Qualcuno dice che così si fa il gioco della destra o di Beppe Grillo. Sarebbe il meno. Temo che così si faccia tornare indietro la storia di cento anni: poi venne il fascismo, poi la guerra, poi la resistenza, poi la costituzione. Ricominciamo daccapo? Finì bene, pagando prezzi enormi. Non so come finirebbe questa volta: per fortuna non ci sarò per motivi anagrafici.

Ricostruire la ricostruzione

I terremoti purtroppo si ripetono, la terra si muove troppo e noi non possiamo o non sappiamo resistere ai movimenti tellurici. Però c’è un altro fatto che si ripete in conseguenza dei terremoti: la immobilità della burocrazia. Quella non si muove mai, non trema, rende tutto più difficile: lungaggini, ritardi, rischi di corruzione, etc. etc.

Tutte le volte ci ricaschiamo. Non vi lasceremo soli. Infatti scattano meccanismi di solidarietà, impegni istituzionali, stanziamenti di fondi. Poi le macerie restano nelle strade, le casette prefabbricate arrivano con il contagocce, scattano indagini, emergono opacità e anomalie procedurali, forse qualcuno vuole speculare, forse altri si sono addormentati. I sindaci dei comuni interessati protestano. La gente dispera del ritorno alla normalità. I politici ammettono ritardi e confusioni. Tutta colpa della burocrazia. Ne siamo proprio sicuri?

Che la nostra pubblica amministrazione rappresenti una palla al piede è noto, che il cattivo funzionamento della macchina pubblica comporti un handicap per il nostro Paese è altrettanto scontato, che nelle pieghe di una burocrazia complessa ed elefantiaca si possano nascondere disgustosi e gravi fenomeni di corruzione è quasi normale, ma che tutto il male venga di lì comincio a dubitarlo.

Posso entrare al bar della politica? Me lo concedo. Come mai quando si organizzano eventi politici di portata internazionale (G7, G20 etc.) o quando si allestiscono manifestazione di portata mondiale (Expo), pur tra mille difficoltà ci si salta sempre fuori con un certo successo? Ricordo, come qualche tempo fa la manutenzione del duomo di Milano sia stata eseguita a tempi di record. Invece, quando si tratta di rimettere insieme i cocci dopo un terremoto, tutto diventa assurdamente lungo. Non ci si salta fuori. Ci sono i soldi, ci sono i commissari, si fanno le leggi ad hoc, la tecnologia non manca, eppure tutto si svolge a fiato d’oca.

In molti, e in diversi tempi, hanno tentato di riformare questo mostro burocratico che ci opprime: non ci si riesce. Però bisogna volerlo! A mio giudizio si tratta (anche e soprattutto) di una seria questione di volontà politica. Sicuramente il nostro assetto democratico è appoggiato comodamente sulla struttura burocratica che lo condiziona e lo imprigiona. Ci siamo liberati dal fascismo, ma non riusciamo a liberarci dalla conservazione degli apparati autoreferenziali ed inefficienti. Chi ci prova , ci lascia le penne. Un insigne ministro   lanciò la spugna, palesando l’intenzione di emigrare negli Stati Uniti (dove peraltro non sono sicuro che le cose funzionino così bene: purtroppo tutto il mondo è paese, lo stiamo vedendo anche in Gran Bretagna e in altri stati europei…). Certo, si tratta di una sorta di rifondazione statuale con tutte le conseguenze del caso. Forse prima, o meglio mentre ricostruiamo le zone terremotate, dobbiamo ricostruire la macchina statale. Bisogna volerlo fare ed essere capaci di farlo. Quante volte nella mia vita professionale ho visto fior di leggi svuotate e smontate dalla cavillosa e statica burocrazia. Quante volte ho constatato, nelle realtà aziendali in cui ho lavorato, che non è sufficiente dare un ordine per risolvere i problemi, bisogna anche eseguirlo, sta tutto lì il difficile. A volte basta poco, a volte non basta nemmeno il molto. La protezione civile deve allargare il campo e diventare protezione dalla burocrazia. Su questa partita ci giochiamo quasi tutto.

Il colonialismo ci presenta il conto

Una anziana donna senegalese ha spiegato alla sua maniera ai nipotini la storia del suo Paese: «Da quando sono arrivati gli occidentali abbiamo cominciato a mangiare col cucchiaio, ce lo hanno insegnato loro. Da quel momento però non c’era più da mangiare…era molto meglio mangiare qualcosa con le mani piuttosto che niente col cucchiaio…».

Ecco descritto in estrema sintesi il fenomeno del colonialismo, che tendiamo a rimuovere dalle nostre analisi socio-economiche e dal quale discende gran parte degli squilibri a livello mondiale e che oggi ci porta ad essere invasi dai disperati africani in cerca di vita.

Noi continuiamo a far finta di niente: pensiamo di chiudere le frontiere, di bloccare i porti, di alzare muri, di rimandare a casa gli immigrati, e non capiamo che si tratta di un fenomeno dalle dimensioni bibliche, che va affrontato con misure bibliche, vale a dire diminuendo drasticamente il nostro livello di benessere a favore degli ospiti più o meno graditi. Il resto è costituito da chiacchiere da bar di quartiere, di nazione, di continente, di mondo.

Dobbiamo trovare le risorse per aiutare questa gente, o qui da noi o a casa loro, e meno li aiutiamo e più loro arriveranno da noi e non riusciremo a fermare l’emoraggia col cotone emostatico. I fenomeni migratori sono sempre stati l’estrema terapia per le estreme patologie.

Stupisce la testardaggine con cui l’Europa (dis)unita   continua imperterrita a parlare di contenimento e regolamentazione dei flussi, di distinzione tra emigrazione   economica e fuga da violenza e guerra (come se morire di fame non fosse una tragedia), di spartizione del macabro bottino umano (prima ci siamo spartiti le loro ricchezze, adesso dobbiamo spartirci le loro povertà), di prima accoglienza, di integrazione, di rimpatri, di sicurezza, di controllo delle ong, di guerra agli scafisti, di tolleranza zero.

Ci sono due atteggiamenti possibili: rifiutare il problema arrivando, direttamente o indirettamente, a far morire questa gente in patria, in mare, sotto i nostri ponti, sotto le bombe; affrontare il problema concretamente sacrificandoci a loro favore e restituendo loro il maltolto. In mezzo c’è la fuffa del tirare a campare per noi e del tirare le cuoia per loro.

Qualcuno sostiene strumentalmente che dietro l’accoglienza agli immigrati ci sia un business: ma certo, bisognerà impiegare risorse, stanziare fondi, fare investimenti e qualcuno ci lavorerà e guadagnerà. E allora? O ci salviamo tutti assieme o moriamo tutti. Sono discorsi difficili, ma è inutile e impossibile evitarli.

L’Italia oltre tutto si trova nella scomoda situazione di soffrire l’impatto immediato del fenomeno: è una difficoltà in più, ma paradossalmente potrebbe essere anche la nostra fortuna, che ci costringe ad affrontare il problema abbandonando l’illusione di chi guarda da lontano e pensa che l’alluvione non gli arrivi addosso.

Ho letto che a Taormina non vogliono più immigrati pena la compromissione della stagione turistica: ho l’impressione che qualcuno non si sia ancora reso conto della portata del problema. Dovremo rivedere tante cose, anche le nostre vacanze. Posso essere drammatico? Non mi stupirei se ad un certo punto il ministro degli Interni imponesse al sistema alberghiero, Taormina compresa, di ospitare gli immigrati pagando agli albergatori eque rette di soggiorno (se non erro, in parte si sta già facendo). E i turisti? Se ne faranno una ragione. Una delle tante conversioni del nostro sistema economico, dai ricchi turisti ai poveri immigrati. Così come dalle speculazioni edilizie alla difesa del territorio, dall’industria delle armi ai servizi di manutenzione ambientale, dalla chiusura delle aziende inquinanti alla valorizzazione del patrimonio artistico-culturale. Rivolgimenti di mentalità, di portafogli, di posti di lavoro. Ce ne sarà per tutti? Penso di sì, anche se ognuno dovrà ricollocarsi al meglio in un sistema diverso. Non ci sono riuscite le ideologie, ci riusciranno gli immigrati.

 

Le contraddizioni che ci salvano

A detta di tutti gli stranieri l’Italia è un paese simpatico e ammirevole per la sua spontaneità e forse, aggiungo io paradossalmente, per le sue contraddizioni. Queste ultime sono sotto gli occhi di tutti, stridenti e provocatorie. In questi giorni mi è capitato di osservarne una clamorosa in campo etico. A Napoli una degente all’ospedale viene trovata letteralmente ricoperta di formiche, in Sicilia la Corte di Cassazione riconosce il diritto al risarcimento ai famigliari di un radiologo, dipendente della struttura sanitaria pubblica, morto d’infarto anche per lo stress procuratogli dal lavoro, che eseguiva con impegno esemplare e con dedizione eroica.

Da una parte un reparto ospedaliero gestito da fannulloni irresponsabili, dall’altra un medico che si dedica anima e corpo al suo lavoro al punto da rimanerne vittima. Due modi di concepire la professione e la vita. Confesso di avere tirato un sospiro di sollievo, dopo essere stato così fortemente impressionato dall’episodio “delle formiche”. Probabilmente, mi sono detto, a fronte della delinquenziale ed eclatante incuria di pochi (speriamo…) ci sta l’ammirevole e nascosta serietà di molti (speriamo…).

È un ritornello che si ripete troppo spesso: alle sciagure, spesso conseguenza in tutto o in parte della irresponsabilità e del menefreghismo, segue la solidarietà fattiva al limite dell’eroismo. Forse sarebbe meglio, se mai fosse possibile, travasare l’impegno a babbo morto nella prevenzione e nell’attenzione quando si è ancora in tempo per evitare il peggio. Meglio tardi che mai? In un certo senso sì.

Dobbiamo prendere umilmente atto che la vita singola e comunitaria è piena zeppa di contraddizioni: è il dato caratteristico della nostra umana fragilità. Non dobbiamo rassegnarci, ma nemmeno pensare di eliminare radicalmente questo brutto difetto. Dobbiamo conviverci al meglio, tentando di smussare gli angoli, facendo tutto il possibile con l’impegno personale e collettivo. Anche il Padre Eterno ci sopporta in questo nostro ondivago comportamento. A proposito di Padre Eterno ricordo un piccolo episodio: ero davanti al video in compagnia di mia sorella, persona che non sopportava l’ingiustizia (basti dire che scappava letteralmente, quando si imbatteva in immagini riguardanti le condizioni miserevoli dell’infanzia). Come spesso accade il telegiornale era un deprimente bollettino di fatti negativi e condannabili. Ad un certo punto uscì finalmente uno spiraglio di luce: un piccolo, grande gesto di eroica umanità, riportato dalle cronache. Non ricordo di cosa si trattasse. Rammento soltanto il commento che mi venne spontaneo: Dio, per chi ci crede, ci sopporta, ci ha creato Lui e sa che, tutto sommato, non siamo così cattivi come a prima vista potrebbe sembrare. Una minimalista ma importante scusa da accampare davanti alla maestà divina.

Un sacerdote che aveva svolto una proficua azione pastorale a livello di carcere mi disse un giorno, a commento dei miei tanti peccati a lui spietatamente confessati: «Non si demoralizzi, non si senta perduto! Nella mia esperienza a contatto con i carcerati mi sono reso conto che anche dietro le più squallide vicende umane (che non sono ospitate solo nelle carceri), c’è sempre un filo d’erba, uno sprazzo di luce che ci salva e ci redime».

Mi permetto di aggiungere che la vita di Gesù è piena di esaltazione per questi piccoli segni di umanità: gli bastava una carezza, una lacrima, una parola, un gesto per santificare una persona disprezzata, condannata e rifiutata. Dal pastore, che gli rende omaggio alla nascita, al ladrone, che lo consola durante l’agonia sulla croce, passando per quella donna che gli tocca il mantello e che solo Lui riesce a percepire e a guarire.

 

Renzi tra le pentole del sinistrismo e i coperchi del giustizialismo

Qualcuno ha la fantasia di intravedere nell’operato di Matteo Renzi la prova generale di un nuovo “regime”, una sorta di berlusconismo riveduto e corretto (con Berlusconi coinvolto in un accordo pseudo-istituzionale o senza Berlusconi accontentato nel grigiore dei suoi interessi): la ritengo fantapolitica. Siccome però molti ci guazzano dentro, provo a tuffarmi anch’io, scegliendo la piscina opposta.

Il torto fondamentale di Renzi è quello di voler toccare nel vivo della carne sistemica italiana: dalle istituzioni ai sindacati, dalla sinistra alla destra, dagli industriali ai pubblici dipendenti. Le riforme da lui avviate, da quella costituzionale a quella del mercato del lavoro, dalla scuola alla pubblica amministrazione, dalla magistratura ai diritti civili, avrebbero lo scopo di rivoltare il Paese come un calzino. Se è vero, come disse a suo tempo Massimo Cacciari, che non si può governare contro tutti, è altrettanto vero che si dovrebbe governare senza guardare in faccia a nessuno.

Ebbene Renzi ha sofferto la reazione di tutti quanti desiderano mantenere lo status quo, apertamente o sotto-sotto. Il coagulo di queste forze reazionarie, culturali, sociali, politiche, si è avuto con la battaglia del No al referendum sulla riforma costituzionale: dietro il dito della difesa della Carta si celava la volontà di interrompere un disegno riformatore sgradito e pericoloso per tutte le intellighenzie e per tutti gli interessi consolidati.

Momentaneamente accantonato Renzi a livello governativo, il discorso si è spostato a livello politico, nel Pd e nella sinistra: la strumentale e inqualificabile scissione, la rinascita dell’armata brancaleone sinistrorsa, la scoperta dell’acqua calda pisapiana, le nostalgiche e penose rentrée dei padri e dei patrigni, il nuovo partito della sinistra unita (ma rigorosamente senza Renzi), vagheggiato anche da la Repubblica (non è la prima volta che questo giornale si diverte(?) ad elaborare e/o sposare progetti politici, spesso rivelatisi fallaci).

Siccome Renzi testardamente rimane in sella al Pd, facendosi forte dei due milioni di consensi ottenuti alle primarie del partito stesso, sarà bene assestargli qualche botta a livello giudiziario: eccoci alla montatura dello scandalo Boschi (la “gigliosa” amica politica chiamata in causa dall’acido zitellone del giornalismo, Ferruccio De Bortoli), ma soprattutto allo scandalo Consip (il babbo e il ministro amico: così il cerchio si chiude).

Sembra però che il diavolo sappia fare le pentole, ma non i coperchi, che si chiamano strane ed inquietanti anomalie in un’inchiesta giudiziaria: ufficiali indagatori svagati e distratti, un pizzico di servizi segreti che vanno e vengono, segreti d’ufficio che circolano liberamente, un giudice indagato con tanto di compagna al seguito. Ci puzza di bruciato lontano un miglio.

Può bastare. Mi sono divertito, ho scherzato(?), ho guazzato nel torbido. È lo sport preferito da media e dintorni. Probabilmente un po’ di vero c’è in entrambe le piscine evocate: mi sembrava opportuno farci un tuffo pirandelliano, scandagliarle entrambe. Adesso, uscito dall’acqua torbida, mi faccio una bella doccia.

 

 

La madre di tutte le sconfitte

Anche in politica le sconfitte hanno sempre un perché, che, sovente, è assai più semplice di quanto si possa pensare. Prendiamo il Pd in quel di Parma. Continua imperterrito a perdere le elezioni amministrative. Ci sono due date di riferimento che segnano il declino inarrestabile della sinistra a livello di amministrazione comunale parmense: la salita al trono di Ubaldi e la incoronazione di Pizzarotti.

Il primo appuntamento segnò la testarda riproposizione di Stefano Lavagetto a candidato sindaco. Pur riconoscendogli un livello culturale notevole, una personalità di spicco, un’intelligenza vivace, si capiva che bisognava assolutamente cambiare cavallo: il centro sinistra aveva il fiato corto, era burocraticamente abbarbicato al potere, opprimeva la città con una impostazione sostanzialmente conservatrice ed asfittica. A nulla valsero le sacrosante lamentazioni di Mario Tommasini portate fino alla drammatica   rottura e le avvisaglie di un malcontento che si stava allargando a macchia d’olio. Si andò, con presuntuoso senso di superiorità, alla catastrofe. E fu regime ubaldiano per quasi un ventennio, durante il quale la sinistra tirò fuori dal cilindro solo candidature suicide dell’ultimo minuto.

Quando il regime affaristico implose con la debacle vignaliana (come al solito, l’ultimo incaricato di spegnere la luce), nel 2012 finalmente emerse uno spiraglio di luce proveniente da un’opposizione ferma e costante, che era riuscita a presentare un’alternativa credibile di governo della città: si chiamava Giorgio Pagliari. Ebbene, lo misero da parte e gli preferirono il solito “funzionario di partito” e persero miseramente le elezioni fallendo un rigore a porta vuota.

Quando si commettono questi svarioni o meglio quando si fanno scelte di potere, di conservazione e di ordinaria amministrazione, recuperare diventa quasi impossibile. Infatti le recenti elezioni hanno confermato la incapacità di presentare alla città un progetto credibile di cambiamento. A nulla vale scaricare le colpe sul sorprendente ubaldismo, sul prorompente grillismo e sul civico pizzarottismo.

Sapete chi sono i responsabili di questa deriva della sinistra a Parma? Quelli che oggi fanno gli antirenziani, che postulano la ripresa identitaria della sinistra, che vogliono recuperare il popolo: Bersani, D’Alema, Errani e c. Quelli che l’anno dopo aver spianato, a Parma, l’autostrada a Ubaldi, la spianarono, a Bologna, a Guazzaloca.

Da allora è stato tutto e solo un tentativo di recuperare la situazione manovrando burocraticamente. Ha perfettamente ragione Paolo Scarpa (gli do atto di una tardiva quanto inutile lucidità di analisi) ad incolpare il Pd che negli ultimi tempi strizzava l’occhio a Pizzarotti (vedi avance meroliane): non se ne era accorto prima? Non doveva candidarsi! Se pensava che il Pd non fosse convinto verso di lui e probabilmente non lo era, se riteneva che avesse fatto un’opposizione scialba ed effettivamente era andata così, se faceva i conti con un partito debole, diviso e sfilacciato e la situazione era proprio questa, nessuno lo obbligava ad una gara impossibile. La giuste motivazioni del prima diventano le petulanti proteste del dopo.

D’altra parte le candidature non si improvvisano, ci vuole ben altro. Questo Pd parmense non ci va mai fino in fondo. Ora daranno la colpa a Renzi, alle divisioni della sinistra, al pressappochismo dell’elettorato, all’astensionismo, alle furbizie pizzarottiane.

D’altra parte, ricordo che l’indomani dell’elezione di Ubaldi a sindaco, Valter Veltroni (forse allora sindaco di Roma) gli fece un endorsement posticipato. Sì, proprio come Merola a Pizzarotti in vista della consultazione elettorale. Errori tattici? No, errori strategici: la solita idea di recuperare le situazioni con un colpo di acrobazia politica, la solita presunzione di essere i più bei fichi del bigoncio.

Scarpa non era nel bigoncio, non era fico, quindi…ma non era nemmeno un’alternativa seria e credibile in sé e per sé. Occorreva un diverso carisma e una ben più convincente proposta, fermatasi invece all’arrogante, generalizzata e parolaia critica.

Era solo l’ormai trito e ritrito tentativo di mettere in campo candidature cosiddette civiche (a Parma questa volta civico contro civico), illudendosi di aggirare così la sfiducia della gente nei partiti, di ottenere consenso fingendo di esserci senza esserci, di percorrere la scorciatoia del continuismo spacciato per nuovismo. La matassa si ingarbuglia sempre di più. Non se ne viene fuori. E Parma tace o si dà pace. Intanto, mentre a sinistra è cominciato il rimpallo delle responsabilità, ci beviamo Pizzarotti per altri cinque anni. Chi si contenta gode…

 

P.S. Il riferimento a sindaci del passato può essere considerato di cattivo gusto, ma in realtà è un richiamo spassionato e rispettoso a personaggi, che fanno parte della nostra storia.

La torta elettorale impazzita

Dopo i due turni per l’elezione a sindaco di una notevole quantità di comuni italiani, si è scatenata la solita sarabanda post-elettorale in cui tutti pontificano e tirano conseguenze, che saranno regolarmente smentite alla prossima consultazione. Si trattava di elezioni amministrative in cui generalmente emergono elementi di storia locale, in cui spesso prevalgono le personalità dei candidati sui rispettivi partiti di appartenenza o di supporto, in cui si formano liste civiche   fiancheggiatrici o contestatrici rispetto ai raggruppamenti politici tradizionali: è quindi difficile trarne direttive nazionali ed individuare comportamenti univoci da parte dell’elettorato.

Credo emerga comunque con insistenza un diffuso e crescente senso di sfiducia dei cittadini nella politica ( aumenta paradossalmente a livello delle istituzioni che dovrebbero, almeno territorialmente, essere più vicine ai cittadini), dovuto a tanti e diversi fattori: la corruzione, la confusione, l’incoerenza, l’inadeguatezza, etc. etc. Questa ansiogena e distruttiva voglia di rinnovamento non riesce più a trovare, né all’interno né all’esterno del sistema partitico, un riferimento ed un aggancio.

La sinistra fin che non ha governato, per il famigerato “fattore K”, che la escludeva pregiudizialmente dall’area ufficiale del potere, era il rifugio di quanti vagheggiavano un radicale cambiamento della politica italiana. Non era proprio così: perché la sinistra (mi riferisco al Pci) in campo politico, oltre al seppur episodico coinvolgimento istituzionale e solidaristico a livello nazionale, governava importanti comuni e regioni, in campo sociale governava, tramite il sindacato, il conflitto sociale, in campo culturale governava, tramite una forte egemonia dell’intellighenzia ad essa più o meno organicamente collegata, l’evoluzione del rapporto tra l’uomo e la società.

La compromissione sostanziale della sinistra col potere emerse malamente con tangentopoli all’inizio degli anni novanta e di lì la sinistra perse irrimediabilmente la sua verginità e non fu più l’automatica spugna di assorbimento della protesta antisistemica. Paradossalmente questo ruolo venne interpretato dal berlusconismo, che seppe improvvisarsi come proposta accattivante di rinnovamento di facciata dietro cui si nascondeva il peggiore riciclaggio del solito potere al limite del “regime”. Un ventennio di inganni, durante il quale e alla fine del quale, la sinistra seppe solo reagire con improbabili alternative, politicamente raffazzonate e programmaticamente deboli.

E siamo alla terza fase dell’antipolitica: quella virulenta, confusionaria e spregiudicata raccolta da Beppe Grillo e, in minor misura, dalla Lega, sopravvissuta e riciclata in salsa populista e nazionalista. Rimaniamo tuttora impastoiati in questo meccanismo anche se il M5S, nonostante gli sforzi di rimanere a galla sull’indistinto magma della protesta antisistema, sta perdendo credibilità e consenso (le urne non gli concedono quello sfracello di voti che i sondaggi gli assegnano: sondaggi pieni e urne vuote?)   e anche se la Lega di Salvini non riesce a smarcarsi definitivamente da Berlusconi per interpretare in solitario le spinte populiste destrorse.

Al di là delle farneticanti ipotesi di connubio tra queste due compagini, il cittadino insoddisfatto e sfiduciato si rifugia sempre più nel corner dell’astensionismo: il centro-destra a trazione leghista prova a rivedere e correggere il berlusconismo; il Pd prova a rilanciare, con evidente fatica e fastidiose conflittualità e contraddizioni interne, un’idea corposa e rassicurante di sinistra di governo; i cespugli sinistrorsi provano a sbandierare un’inutile, assurda, inesistente e, per certi versi ridicola verginità; il M5S perde inevitabilmente smalto nella spasmodica ricerca compromissoria di tutte le viscerali   paure economiche e sociali a cui annettersi e con cui connettersi.

L’unica forza politica degna di questo nome rimane dunque, volenti o nolenti, il PD, che tenta disperatamente, anche a prezzo della perdita di consenso, di dare risposte compiute al disagio e quindi entra in rotta di collisione con tutti gli altri attori presenti sulla scena. Rischia di fare la fine dei cani in chiesa, vale a dire di prendere calci da tutti.

Poco o tanto i risultati delle elezioni amministrative dell’11 e 25 giugno fotografano questa situazione tutt’altro che rassicurante. Aggiungiamoci a livello territoriale le cucchiaiate di localismo inconcludente, di civismo improvvisato e di leaderismo artificioso e otterremo la torta impazzita uscita dalle urne. Quando non si rifugia nell’astensione, il cittadino corre dietro ai demagoghi di turno. Mi fermo qui. Almeno per ora.