Le vergogne da (s)coprire

Una donna siciliana, esasperata dall’emergenza incendi boschivi e contrariata dai ritardi dei soccorsi, si è sfogata gridando all’indirizzo delle telecamere: «Vergognatevi!!!». Certamente tutti abbiamo di che vergognarci anche per questa piaga che si riapre tutte le estati: chi è senza peccato ambientale scagli la prima pietra.

Credo tuttavia che i primi a provare vergogna di simili scempiaggini dovrebbero essere gli abitanti delle zone interessate. La dolosità di questi incendi la dice lunga: rientrano senza dubbio in un ricorrente disegno criminale e mafioso volto a distruggere il territorio per farne un campo di speculazione selvaggia. Se qualcuno ha l’ardire di vilipendere il monumento a Giovanni Falcone, molti hanno il “coraggio” di tacere i nomi dei finti piromani: possibile che nessuna sappia o veda cosa e chi si muove dietro questi appiccamenti, mafiosi in senso stretto e lato? Si tratterebbe infatti, come descrive un interessante servizio di Antonio Fraschilla su “la Repubblica”, di agricoltori che bruciano sterpaglie (acqua: mi permetto di crederci poco), i pazzi e gli stupidi che amano il fuoco (fuochino: ci posso credere solo se vengono strumentalizzati da ben altri criminali), i precari forestali che sperano di avere più lavoro (fuoco: delinquere in nome del lavoro è un attentato alla Costituzione), criminali che preparano il terreno per le discariche abusive (fuocone: mafia e ambiente a braccetto), i mafiosi dei pascoli (fuochissimo: l’avvertimento e la vendetta contro i proprietari che non vogliono affittare i loro terreni, buoni per ottenere contributi dalla Ue), i mafiosi che vogliono gestire i terreni demaniali e quelli dei Parchi (fuochissimissimo: intendono evitare la certificazione antimafia per l’ottenimento in concessione di tali terreni).

Distruzioni immani, danni enormi, intere zone irrimediabilmente rovinate: la siccità, il vento, il caldo non ne sono le cause, ma costituiscono l’occasione che fa l’uomo mafioso. E allora, pur comprendendo il senso di smarrimento e disperazione degli abitanti, pur ammettendo i soliti ritardi e le consuete inadempienze pubbliche, pur capendo come non si possa pretendere dai cittadini un cuor di leone, un po’ di sana autocritica mi pare sacrosanta. Siamo al bue che dà del cornuto all’asino… Ci vorrà tempo e pazienza per rompere la spirale della delinquenza mafiosa, ma se non cominciamo mai, dall’alto e soprattutto dal basso, a cambiare mentalità e comportamenti, sarà inutile gridare allo scandalo.

Vergogniamoci tutti,   ma proviamo anche a fare qualcosa in più del gridare al lupo o del provare a intervenire quando il bosco brucia. Aiutati che il governo ti aiuta. Ma il governo… tu aiutati, rifiuta la logica mafiosa, denuncia persone ed episodi mafiosi, poi se ne potrà parlare, anzi si potrà gridare selettivamente “vergogna”.

 

 

 

Macron e micron

“La Francia non ha sempre fatto la sua parte sui rifugiati. Ora acceleriamo: efficacia e umanità (…) La Francia deve poter accogliere i rifugiati e i richiedenti asilo, faremo la nostra parte (…) Non possiamo accogliere uomini e donne che per motivi economici cercano di venire nei nostri Paesi: sono due realtà profondamente diverse e non ricadono nello stesso diritto e negli stessi doveri sul piano morale, non cederò allo spirito di confusione imperante” : così il Presidente francese Macron sull’emergenza immigrazione.

In lui c’è chi vede un novello De Gaulle, un moderno Mitterand, un aspirante Napoleone. Mi limito a prendere atto di un personaggio nuovo con tutto il suo carico di speranze e di illusioni (e immediate delusioni), un politico non politico (?), un leader che fa sognare i Francesi (i sogni francesi sono pericolosi), un europeista che fa riflettere gli Europei (per la Ue c’è bisogno di una scossa molto elettrica), un pragmatico che sa parlare al cuore della gente (una sfida piuttosto ardua), uno statista tutto da scoprire e da verificare.

La prima spina? Tra il dire e il fare sull’immigrazione ci sta di mezzo questo assurdo paravento della distinzione tra morto di guerra e morto di fame. Della serie: con i disperati me la vedo anch’io, con gli affamati vedetevela voi. Bene ha fatto il premier italiano Gentiloni a dichiarare: «Non possiamo dirci soddisfatti perché non accetteremo mai l’idea che qualcosa sia internazionale e qualcosa italiano».

Azzardo una similitudine evangelica: sarebbe come se il Buon Samaritano, prima di soccorrere la vittima di una imboscata, avesse chiesto conto del perché e del percome e, visto che gli erano stati rubati i soldi e che quindi era un immigrato economico, lo avesse consegnato semplicemente all’albergo all’angolo della strada perché ne facesse quel che credeva. Sarebbe stato non il buon samaritano, ma un samaritano alla Macron.

I porti francesi restano chiusi, l’accoglienza vale fino a mezzogiorno, la condivisione fa un passo avanti e due indietro. Mio zio, residente in quel di Genova, quando tornava a Parma e incontrava gli amici di un tempo, ricreava immediatamente il rapporto cameratesco condito dai ricordi. Al termine di questi fitti dialoghi sparava quasi sempre una simpatica battuta. Al momento dei saluti rivolto all’amico di turno, dopo avergli dato una pacca sulla spalla e/o avergli stretto calorosamente la mano, diceva: «Veh, arcòrdot bén, quand at me vól gnir a catär…sta a ca tòvva».

D’Alema gira in mutande nella casa della sinistra

«Renzi ha esercitato una forte pressione per farmi cacciare dalla Fondazione (quella dei socialisti europei: ndr). Si è vendicato della mia esistenza, ma la mia esistenza è, e sarà, per lui un problema. Finché mi sarà dato di esistere non potrà stare tranquillo». Parole in libertà di Massimo D’Alema, che mette in campo tutto il proprio fegato nel già pretestuoso dibattito sulla politica fiscale ed economica di destra e di sinistra.

Ho sempre accreditato a D’Alema tre doti: intelligenza (direi più furbizia), senso politico e vis polemica. L’ho ammirato per questo al punto da considerarmi, in tutta umiltà, pronto a collaborare con lui e nel suo centro studi, qualora me lo avesse ipoteticamente chiesto. Questo per rendere l’idea della mia considerazione e del mio interesse per questo tagliente e divisivo uomo politico.

Nello scontro in atto nella sinistra italiana (si tratta più che altro di insofferenza verso Matteo Renzi ed il suo modo di fare politica) ammetto che la confusa e nostalgica area riferibile a Sinistra italiana (i residuati bellici di Sel), Mdp articolo 1 (gli irriducibili Bersani, D’Alema e c.), Campo progressista (i seguaci di Giuliano Pisapia) possa annoverare personaggi in buona fede, vedovi dell’ideologia e alla ricerca dell’identità perduta. In questo rassemblement si schiera però gente che ha come unico scopo spazzare via Renzi: in un certo senso l’antirenzismo ha sostituito l’antiberlusconismo, la individuazione di un comune nemico è il miglior collante per chi è a corto di idee e di programmi. Anche l’antiberlusconismo si è purtroppo rivelato nel tempo anche un paravento per coprire tutti i difetti della sinistra politica e sociale. Non a caso mi sono sempre dichiarato non tanto un antiberlusconiano, ma un aberlusconiano: non è il caso di spiegare la differenza…

Il portabandiera di questa asfittica e penosa armata antirenziana è proprio Massimo D’Alema. Se qualche dubbio poteva ancora sussistere le sue aperte e biliose dichiarazioni lo hanno sciolto. Delle tre suddette qualità è rimasta solo la vis polemica fine a se stessa o, meglio, finalizzata ad una sorta di vendetta personale. L’intelligenza si è annebbiata ed ha lasciato il posto alla furbizia di puro galleggiamento, il senso politico si è imprigionato negli schemi tradizionali e superati, la sensibilità ai problemi della gente non è mai esistita. Anche in passato la polemica e lo scontro personale tendevano a soffocare la vera politica, ma qualcosa di valido rimaneva. Ora gli altarini si sono scoperti. Se la rottamazione voluta da Renzi è fallita, ha comunque innescato un benefico processo di autorottamazione.

Sì, perché sono convinto che D’Alema, al di là delle sfuriate antirenziane, abbia perso ogni credibilità ed autorevolezza anche nella sinistra tradizionale: non è certamente un punto di riferimento per le anime inconcludenti e belle della sinistra-sinistra. È diventato, per usare un’immagine che Dell’Utri riferiva a Cossiga, il nonno sclerotico che gira per casa in mutande. Chi vede in queste schermaglie dalemiane la prova di una rottura irreversibile alla base della sinistra, sbaglia perché la rottura se avverrà non sarà certo orchestrata e pilotata da quel D’Alema che è più di inciampo che di aiuto: con quale credibilità infatti potrebbe essere un leader della sinistra casta e pura, lui che ha sempre incarnato il pragmatismo e la spregiudicatezza della sinistra e che è sempre stato mal sopportato dalla base comunista prima e da quella ulivista e piddina poi.

Penso che Giuliano Pisapia, e non solo lui, se potesse, si libererebbe di questo scomodo interlocutore. Ma la storia della sinistra è fatta anche e purtroppo di ingombranti personaggi come Massimo D’Alema. Renzi ci ha provato e non c’è riuscito: li ha messi alla porta e se li è ritrovati alla finestra. Non mi sento attratto dalle velleità pisapiane, mi sembrano una ricetta generica e scaduta. Se però riuscirà a pulire la sinistra da certe impostazioni e incrostazioni di stampo prevalentemente post-comunista, avrà un indubbio merito politico.

Stacchiamo la spina alle ideologie

Si è scatenata un’ondata di attenzione verso il caso del piccolo Charlie Gard, il bambino inglese sballottato fra la vita e la morte, non tanto e non solo per effetto della tremenda sindrome di cui è vittima, ma a causa di una querelle etico-giuridica imbastita sul suo destino esistenziale.

Siamo in un caso opposto rispetto ai suicidi assistiti: i genitori del piccolo sono contrari a staccare la spina nonostante la scienza ufficiale non lasci scampo alla sorte di Charlie e la magistratura inglese abbia sentenziato lo stacco della spina stessa. Il mondo è bello perché è vario: se uno, in condizioni di vita irrimediabilmente compromesse, vuol farla finita, incontra parecchi ostacoli ed espone addirittura chi lo aiuta a guai giudiziari (Marco Cappato rischia paradossalmente 12 anni di carcere per aver aiutato un amico a recarsi in Svizzera in una clinica dove applicano il suicidio assistito); se uno, seppure tramite i suoi genitori, vuol provare a continuare a vivere sperando nei progressi della scienza, deve piegarsi alla sentenza di un giudice che ritiene, seppure motivatamente, giunto il momento di chiudere l’esistenza. Insomma tutti possono decidere quando una deve morire, meno l’interessato o i suoi legittimi rappresentanti: i medici, la scienza ufficiale, i giudici, i legislatori, i governi, i religiosi, i moralisti, tutti si arrogano, più o meno un diritto di interferire, tutti meno i diretti interessati.

Vorrei capire perché se una persona non vuole su di sé alcun accanimento terapeutico debba essere costretto a subirlo in base alla legge o ad un principio etico-religioso; al contrario non vedo perché se una persona vuole continuare la battaglia per sopravvivere, debba essere obbligato a gettare la spugna in base alla scienza che non gli dà scampo e/o alla magistratura che ritiene inumano tenere in vita una persona senza plausibili prospettive di miglioramento sanitario.

Tutto cospira contro l’uomo ed il rispetto per la sua vita: chi parla in nome della scienza, chi in nome della legge, chi in nome di Dio, chi in nome della società. Trovo assurdo che l’Alta Corte inglese non prenda doverosamente atto della volontà di questi due coraggiosi genitori e non consenta loro di provare ancora ulteriori terapie sperimentali, anche se molto improbabili o illusorie. Non si tratta di evitare al bambino ulteriori sofferenze: credo infatti che i genitori non siano egoisticamente e sadicamente attaccati alla loro creatura, ma solo pervicacemente decisi a non lasciare niente di intentato per il loro figlio. Si tratta invece di segnare autoritariamente il primato istituzionale sulla coscienza individuale: non sono assolutamente d’accordo. Questo vale, ripeto, per chi la vuol fare finita e per chi vuole provarci ancora. Non diamo la vita in pasto alle ideologie, stacchiamo la spina a queste sovrastrutture esistenziali e lasciamo che le persone abbiano la libertà di staccare la propria spina senza soffrire di spine nel fianco.

C’è un ospedale che si offre di accogliere questo bambino per sperimentare al buio una terapia. Lasciamo stare che in questa iniziativa possa esserci un qualcosa di strumentale (persino Trump ci ha visto uno scoop umanitario, lui peraltro a corto di credibilità etica), l’importante è lasciare che la prova possa essere eseguita. Questi genitori non solo hanno la sventura, umanamente parlando, di vivere con un figlio portatore di enormi handicap, ma anche l’amarezza di dover combattere una paradossale battaglia in difesa dello spiraglio di vita che continuano a vedere. Non mi interessa se lo vedono più con gli occhi del cuore che con quelli della ragione: hanno il diritto di vederlo e la società ne deve prendere atto con rispetto e solidarietà.

 

 

La demenza neofascista e il delirio grillino

È tornato di moda il fascismo? Ognuno si diverte come può. Non stupisce più di tanto che ci sia gente che gioca con le svastiche, con i saluti alla romana, con i cimeli del Duce, con gli slogan del ventennio. Non c’è da costruirci sopra teorie politiche. Siamo alla pura demenza. Ha fatto scalpore che uno stabilimento balneare di Chioggia sia organizzato e gestito da un “poveraccio”, che si sbizzarrisce a sparare cazzate apologetiche su fascismo e neofascismo. Ci sta tutto e il contrario di tutto. Questa gente non può avere, per motivi anagrafici, una esperienza   diretta del fascismo e quindi ne parla e ne canta come di una bella favola finita male.

Qualcuno teme che, sottovalutando questi fenomeni, si conceda spazio alla propagazione di idee sostanzialmente fasciste, quali il razzismo, la discriminazione sessuale, l’intolleranza per i diversi, l’omofobia, etc. etc. Su 3600 pagine Facebook ce ne sarebbero 500 che fanno apologia di fascismo e razzismo. Alcuni improvvisati e incredibili costituzionalisti (dei miei stivali) disquisiscono sul confine tra il libero sfogo delirante e l’incitamento alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali. Penso valga la pena di essere intransigenti: qui non si scherza, non c’è liberticidio che tenga.

Sono quindi portato non tanto a sottovalutare, ma a squalificare alla radice queste farneticazioni, considerandole rientranti in una patologia mentale, prevalentemente frutto di frustrazione personale e sociale se non di vera e propria anormalità intellettuale. Ce ne sono un po’ troppi e la cosa fa pensare alla storia che si ripete e fa temere politicamente l’effetto emulazione.

Concedere a questi pazzi un surplus di attenzione però non conviene. Forse è meglio ignorarli. I cortigiani del ducato mantovano cantano così contro le impennate di Rigoletto: «Coi fanciulli e coi dementi meglio giova simular…».

Se proprio vogliamo affrontare l’aspetto politico della questione, ci sarebbe da preoccuparsi non tanto di questi imbecilli che giocano a fare i fascisti, ma di chi in Parlamento e nelle Istituzioni ha fatto e fa del neofascismo doc: basti pensare al sindaco di Roma Gianni Alemanno accolto all’atto della sua nomina da manifestazioni di chiaro stampo fascista. Ebbene, persino la Chiesa Cattolica lo aveva appoggiato. A livello di esercito e di forze di polizia non si nascondono simpatie fasciste e si tollerano comportamenti aberranti in tal senso. Ricordiamoci che le macellerie genovesi dei manifestanti contro il G8 furono fatte allorquando, si dice, Gianfranco Fini spadroneggiava nei corridoi della questura genovese: altro personaggio riciclato e vezzeggiato da milioni di italiani, che ha fatto il ministro, il presidente della Camera dopo essere stato per tanti anni un esponente del Msi, vale a dire della forza politica che si richiamava e si collegava apertamente al fascismo. Abbiamo avuto per vent’anni un berlusconismo che faceva rima con fascismo da tutte le parti lo si guardasse: ho scritto un libro su questo argomento e chi lo desidera può consultarlo nella sezione libri di questo sito.

Attualmente la maggiore preoccupazione la desta il M5S che al delirio neofascista risponde col delirio menefreghista, ammantato di farneticante post-ideologia, di insopportabile equidistanza politica tra destra e sinistra e di fasulla rivisitazione della teoria degli opposti estremismi. La presenza nelle proprie file di simpatizzanti neofascisti o di soggetti refrattari alle ideologie non giustifica la deriva sempre più qualunquistica dei grillini: una forza politica non deve infatti operare la notarile sintesi delle opzioni “intestinali” dei propri elettori reali e/o potenziali, ma dovrebbe tradurre il consenso in proposte politiche serie, rispettose della storia e sensibili ai problemi dell’attualità. Sui vari argomenti emergenti, ultimo il discorso sulla propaganda fascista, non capisco se i cinque stelle blaterino in proprio o si limitino ad affermare sistematicamente il contrario di quanto dice il PD.

Queste sono le cose che mi preoccupano, ben più dell’evidente cretinismo di chi al mare si diverte con le nostalgie mussoliniane. Questa gente non ha vissuto il fascismo, non sa cosa è stato, ne coglie in lontananza solo gli aspetti folcloristici: in un vero regime neofascista sarebbero considerati gli scemi del villaggio e pertanto sarebbero i primi ad essere emarginati o addirittura fatti fuori. Purtroppo il fascismo è stato una cosa seria e tragica, non una farsa.

Mio padre, a proposito di antifascismo (quello vero e precoce) annidato nell’oltretorrente parmigiano, mi raccontava come esistesse un popolano del quartiere (più provocatore che matto) che era solito entrare nei locali ed urlare una propaganda contro corrente del tipo: “E’ morto il fascismo! La morte del Duce! Basta con le balle!”. Lo stesso popolano dell’oltretorrente che aveva improvvisato un comizio ai piedi del monumento a Filippo Corridoni (ripiegato all’indietro in quanto colpito a morte in battaglia), interpretando provocatoriamente la postura nel senso che Corridoni non volesse vedere i misfatti del fascismo e di Mussolini, suo vecchio compagno di battaglie socialiste ed interventiste: quel semplice uomo del popolo, oltre che avere un coraggio da leone, conosceva la storia ed usava molto bene l’arte della polemica e della satira. Ci voleva del fegato ad esprimersi in quel modo, in un mondo dove, mi diceva mio padre, non potevi fidarti di nessuno, perché i muri avevano le orecchie. Ci vorrebbe ancora quel bel personaggio: gli proporrei un giretto sulla spiaggia di Chioggia con licenza di sparare le sue verità. Servirebbe di più delle leggi contro l’apologia di fascismo, comunque da salutare sempre col massimo rispetto, con sacrosanta e scrupolosa attenzione e col conseguente sollievo costituzionale.

Una soffocante stretta di mano

Quando mi capita di vedere le immagini di una stretta di mano fra capi di governo o di stato, scatta in me una sorta di speranza che, nonostante tutto, l’amicizia fra i popoli possa prevalere sulla volontà di predominio e sui venti di guerra. Subito mi correggo e mi disilludo, pensando che il tutto possa rientrare nella solita messa in scena per buttare fumo negli occhi dell’opinione pubblica nazionale e internazionale. L’ingenuità infatti non è ammessa dopo averne viste di tutti i colori nei rapporti fra gli Stati, laddove predomina il più sfrenato ed egoistico opportunismo rispetto all’auspicabile senso diplomatico basato   sul rispetto dei valori e dei diritti, presupposto della convivenza pacifica. Non si tratta di ingenuità ma di testarda fiducia negli uomini, anche di quelli investiti di grandi responsabilità: se si parlano, se si scambiano idee, se arrivano a stringersi la mano, qualcosa vorrà pur dire di positivo. In fin dei conti non sono stati fascismo e nazismo a bandire la stretta di mano ed a sostituirla con gesti militareschi e distaccati? Anche se capisco di essere un illuso, preferisco illudermi con l’ottimismo dei rapporti umani piuttosto che schiantarmi sul pessimismo dei rapporti di forza.

In questi giorni ho visto e rivisto le ostentate strette di mano fra Putin e Trump, ma confesso di non essermi affatto emozionato nel senso di cui sopra, al contrario mi sono turbato e impaurito: due personaggi simili, se si danno la mano lo fanno per pura convenienza, per stipulare patti osceni alle spese dell’umanità che li sta guardando. Nessuna stima, nessun interesse, nessuna illusione davanti alla mera ed evidente sceneggiata dei due autocrati che stanno prendendo in giro i loro Paesi e il mondo intero.

Di strette di mano false o meramente protocollari ce ne saranno state a centinaia durante il G20 di Amburgo, ma quella fra Putin e Trump non riesco ad accettarla, me la sento addosso come una prevaricazione, la vedo come la stipula di un patto scellerato fra personaggi senza scrupoli, la soffro come un bruttissimo destino verso cui precipita la nostra epoca, la interpreto come la morsa che stringe e soffoca la speranza in un mondo migliore.

Donald Trump, al primo incontro alla Casa Bianca con Angela Merkel, mostrò indifferenza e fastidio versa la Cancelliera che timidamente gli porgeva la mano: fossi stato al posto della Merkel me ne sarei venuto via immediatamente, segnando una distanza abissale fra due modi opposti di intendere la politica. La Merkel invece si rassegnò alla prepotenza di questo personaggio e da allora cominciò addirittura a tentare di recuperare il difficile rapporto: la realpolitik vince sempre. Trump è a capo della potenza americana, che ha perso peso, ma resta sempre la maggior potenza a livello mondiale. Bisognerà farci i conti? Temo proprio di sì. Ma attenti a quei due! Il gioco può diventare veramente pericoloso: Trump e Putin che si fanno i complimenti, roba da brividi! Anche perché di autocrati in giro ce ne sono altri, di affaristi della politica pure, i pazzi megalomani non mancano e potrebbero cogliere la palla al balzo.

Del velleitario e violento movimento protestatario, che ad Amburgo ha fatto da scontato e inutile contraltare all’indifferenza dei potenti, salverei soltanto un eventuale piano per coprire Trump e Putin di escrementi: sarebbe un “bel gesto”, emblematico, non violento, significativo, serio e pacifico. Invece…distruzioni, danneggiamenti, esplosioni, tutto funzionale al sistema di potere.

L’Europa, pur debole, contraddittoria e divisa, rimane la nostra ancora di salvezza. L’Italia si è presentata sola al G20, con il biglietto da visita di migliaia di migranti salvati e accolti pur tra enormi difficoltà e problemi. L’hanno snobbata. Mi sono sentito orgoglioso di essere italiano.

Il bicchiere della giustizia

Daniela Poggiali, 45 anni, infermiera, condannata in primo grado all’ergastolo per l’omicidio di una paziente ricoverata all’ospedale di Lugo di Romagna, è stata assolta e scarcerata dalla Corte di assise d’appello. L’indagine e la sentenza di primo grado ne avevano fatto una sorta di serial Killer in corsia, un angelo della morte con circa dieci vittime a carico. Aveva conseguentemente perso il lavoro ed era destinata al carcere a vita. Poi è arrivata la sentenza di secondo grado che l’ha assolta perché il fatto non sussiste.

Bruno Contrada è stato capo della squadra mobile di Palermo, dirigente della Criminalpol siciliana e numero tre del Servizio segreto civile: è stato condannato e ha scontato la condanna a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa a partire dal maggio 2007. La Corte di Cassazione dopo 25 anni dall’arresto cancella la condanna ritenendo il reato non perseguibile, in quanto commesso quando ancora questo reato non esisteva, accogliendo così il pronunciamento della Corte europea dei diritti dell’uomo a cui il Contrada aveva fatto ricorso.

Il Pm Henry John Woodcock è indagato dalla procura di Roma per violazione del segreto d’ufficio nell’inchiesta Consip ed è stato quindi interrogato dai colleghi romani in una caserma del centro della capitale.

Non entro nel merito dei tre casi giudiziari, ma faccio spontaneamente una riflessione di carattere istituzionale: di fronte a queste clamorose vicende come ne esce l’immagine della giustizia italiana? La vita di una donna completamente distrutta e improvvisamente riabilitata; un alto funzionario pubblico che, a babbo morto, si vede ripulire la fedina penale; un giudice della procura di Napoli viene messo sotto inchiesta per comportamento gravemente scorretto durante le indagini da lui condotte su un caso di grossa rilevanza.

Si potrebbe dire: una giustizia che sa rivedere le proprie decisioni e correggerle, seppure con gravi ritardi, e che non guarda in faccia nessuno, anche un importante suo giudice inquirente viene indagato. E siamo al bicchiere mezzo pieno!

Si potrebbe però anche pensare: ma che razza di giustizia è quella che sputtana a vita un’infermiera, mettendola precipitosamente alla gogna e destinandola al carcere per sempre, per poi ammettere di essersi sbagliata o quanto meno di avere esaminato troppo superficialmente le prove? Ma che razza di giustizia è quella che non sa riconoscere se un reato è perseguibile o no e intanto mette in carcere per dieci anni una persona, poi si vedrà? Ma che razza di magistratura inquirente abbiamo se i segreti d’ufficio vengono violati sistematicamente e si dubita non solo che essa non controlli a sufficienza la segretezza delle indagini, ma addirittura che possa violarla direttamente divulgando alla stampa elementi e documenti coperti dal segreto stesso? E siamo al bicchiere mezzo vuoto!

Rimango stordito, con questo bicchiere in mano e non so se fidarmi o meno della giustizia italiana: e, se mi dovesse capitare, da innocente, ma persino da colpevole, di essere sottoposto a indagine o a processo, potrei stare tranquillo e confidare in un trattamento equo? A prescindere dalla stucchevole contrapposizione pseudo-culturale tra giustizialismo e garantismo, sinceramente non dormirei fra due guanciali, con tutto il dovuto rispetto per la magistratura, per la sua indipendenza e per la sua funzione essenziale.

Ma liberaci da Google

Io non guardo la pubblicità, cambio canale. Io non vado al supermercato, scelgo lo scaffale. Non vado nei negozi, uso internet, faccio gli acquisti on line e decido io quel che voglio. Pie illusioni. Il consumismo ci perseguita con le sue regole rivedute e scorrette. Scaffali reali o virtuali, siamo sotto una dittatura inesorabile che ci impone cosa acquistare e quindi, in un certo senso, come vivere, perché nella nostra mentalità la vita dipende dai beni materiali su cui possiamo contare.

Resistenza? Passiva: non guardare la televisione, non connettersi ad internet, andare nel negozio sotto casa gestito da un amico di provata onestà, aborrire supermercati, ipermercati, centri commerciali, etc. La ritengo assurda, ci alienerebbe ancora di più.

Attiva: spostare il discorso dai beni materiali a quelli immateriali, educazione, cultura, arte, solidarietà sociale, equità, altruismo. La ritengo difficile, ma possibile, forse l’unica difesa personale, ma può diventare collettiva nella misura in cui imposta i rapporti su una diversa scala di valori.

Se ne è parlato in un gruppo di amici in vena di riflessioni esistenziali. Le agenzie educative (famiglia, scuola, parrocchia, centri sociali, associazioni varie) sono spiazzate o addirittura soppiantate dal mondo dei social network. Bisogna avere la masochistica pazienza per aspettare che la vita con le sue “disgrazie” renda la sua giustizia educativa a suon di sofferenze e di batoste?

Sì, anche, però in attesa che la vita si rifaccia viva, bisogna combattere la “perdente” ma “vincente” battaglia dei valori o meglio della critica ai falsi valori, tramite la proposizione di quelli autentici. Gara durissima, conflittuale, impegnativa allo spasimo.

Una ricetta rasserenante: rassegnarsi ai tempi lunghi di una semina a fecondità differita. Ci siamo passati tutti. Gli insegnamenti ci davano e ci danno fastidio, urtano i nervi, vengono rifiutati. Alla lunga riemergono, magari nel frattempo sono avvenuti disastri.

Una ricetta impegnativa: gli insegnamenti non valgono niente se non sono accompagnati da concrete testimonianze di vita vissuta. Quale credibilità ha sul piano educativo una famiglia in cui i genitori non si rispettano, in cui il denaro arriva per vie traverse, in cui il benessere economico è perseguito a tutti i costi, in cui il lavoro serve solo a fare carriera?

Mi capita spesso di riguardare la mia esistenza col senno di oggi: un disastro! Come è stata possibile una successione di cavolate così insistente e consistente? E domani sarà ancora così? Attenzione, perché il fuoco dell’esperienza dovrebbe purificare, ma può anche distruggere.

“Vale più un caffè bevuto in compagnia di amici, che la lettura di un libro”: così dice sostanzialmente Ermanno Olmi in una sua stupenda provocazione. A vivere non si impara con i libri, la vita la si costruisce con i rapporti umani. E allora non c’è Google che tenga.

 

Antimafia ma non troppo

Quando si tratta di chiacchierare di politica, i giornali sono prodighi di particolari e di approfondimenti più o meno pertinenti, quando si passa dalle schermaglie tattiche di partiti e correnti ai contenuti di leggi in discussione al Parlamento, il taglio diventa estremamente superficiale, approssimativo e confuso. Ragion per cui è spesso difficile coglierne la portata, il contenuto e capire il motivo del contendere.

Non so quindi se ho ben inteso, ad esempio, quale sia il nocciolo della questione in materia di codice antimafia. Mi pare si stia discutendo sulla opportunità di applicare le misure della lotta alla criminalità organizzata (sequestro e confisca dei beni) anche ai casi di corruzione. Materia delicata e complessa.

Senza voler fare il processo alle intenzioni, sembra che niente a che fare con l’ansia di   evitare i rischi di un giustizialismo paralizzante abbia la posizione strumentale di chi teme che questa mannaia allargata possa abbattersi su significative fette di politica corrotta o in bilico tra spregiudicatezza e corruzione: tale atteggiamento si nasconde dietro i tecnicismi per boicottare una legge scomoda per un sistema di potere alquanto tentato di lasciarsi corrompere.

Prescindo quindi da queste eventuali fuorvianti, opportunistiche e maliziose posizioni, lasciandole alla coscienza dei parlamentari. Riporto il dibattito alla buona fede ed alle rette intenzioni dei protagonisti. Da una parte c’è l’esigenza di combattere con efficacia e possibilmente di prevenire il fenomeno dilagante della corruzione: a detta della Corte dei Conti sarebbe la causa principale del dissesto finanziario nei conti pubblici. Dall’altra parte esiste il pericolo di creare confusione facendo di ogni erba (reati diversi) un fascio (mafia).

Nella mano dei politici parlano, più o meno opportunamente, magistrati in prima linea sul fronte antimafia e anticorruzione, che vengono giustamente ascoltati non fosse altro per il fatto che sarà la magistratura a dover applicare questi provvedimenti (per la verità tutte le leggi devono essere applicate dai giudici, non per questo devono essere loro a dettarle direttamente o indirettamente). Mi sembra di capire che il Parlamento sia giunto ad un testo che risponde sostanzialmente alle valutazioni del procuratore nazionale antimafia (specificare al meglio i limiti tra corruzione e mafia), mentre tale testo viene aspramente criticato dal presidente dell’Autorità anticorruzione (non è condivisibile la traslazione tout court della normativa antimafia alla corruzione).

Che i parlamentari siano piuttosto confusionari nel legiferare è un dato scontato, ma bene o male spetta a loro questo potere: mi pare che in questa fase il fiato giudiziario stia un po’ troppo sul collo legislativo delle nostre istituzioni. Le leggi non le devono fare né Franco Roberti, né Raffaele Cantone, ma il Parlamento, mediando al meglio tra le diverse istanze, esigenze e impostazioni. Altrimenti si arriva alla paralisi e non se ne esce più.

Ricordo quando operavo nell’ambito della programmazione e gestione teatrale: mi facevo spesso scrupolo di ascoltare (troppo) i tecnici, gli addetti ai lavori, etc. Un astuto collega mi confortava, riportandomi alla realtà: «Se stessimo rigorosamente ai pareri dei musicologi non metteremmo in scena neanche la recita della poesia di Natale…». A ognuno il suo compito. Penso debba essere così anche a livello delle massime istituzioni.

Per ritornare a bomba vedo il rischio che il provvedimento di legge in questione, stiracchiato dai soloni giudiziari, finisca nel binario morto (con grande soddisfazione dei disfattisti): lo dice il ministro della giustizia. Lui ha l’autorità per esprimere tali timori. Io non ho l’autorità, ma mi permetto di temere che, gira e rigira, il codice antimafia, anziché essere applicabile ai corrotti, finisca in cavalleria. Operazione tutt’altro che cavalleresca.

L’assurdo diritto di chiudersi in casa

È da giorni che mi scervello (si fa per dire) per capire quale sia il collegamento tra la cagnara parlamentare sulla legge riguardante il riconoscimento del diritto alla cittadinanza italiana per tante persone che sono già italiani di fatto e il fenomeno dell’immigrazione con tutte le implicazioni problematiche che comporta. Alcune forze politiche infatti ritengono irresponsabile e/o inaccettabile la proposta di porre in discussione lo ius soli considerando tutto quello che sta accadendo sul tema immigrazione. Altri aggiungono: «Mentre l’Europa si preoccupa di difendere i propri confini dall’invasione, la priorità del governo Gentiloni e della sua maggioranza è la cittadinanza facile per gli stranieri».

Siamo al delirio politico e legislativo. Che una persona nata in Italia da genitori stranieri di cui almeno uno in possesso di permesso Ue per soggiorni di lungo periodo e che un minore straniero, nato in Italia o che vi abbia fatto ingresso entro i 12 anni ed abbia frequentato un ciclo formativo per almeno cinque anni nel nostro paese, abbiano diritto ad essere considerati cittadini italiani è questione talmente scontata da non essere nemmeno lontanamente messa in discussione. Si tratta soltanto di regolarizzare giuridicamente situazioni di fatto riguardanti circa un milione di persone: gente che è nata in Italia, ha frequentato le scuole italiane, da tempo vive in Italia. Non capisco quale sia il problema. Cittadinanza facile? Non direi proprio.

Si intuisce come si voglia far passare strumentalmente e demagogicamente questo sacrosanto provvedimento come una sorta di incentivo all’immigrazione. Volendo proprio affrontare il discorso da questo punto di vista, mi pare sia un disincentivo viste le condizioni tutt’altro che semplici da superare per ottenere la cittadinanza italiana. Bisogna in sostanza inserirsi e integrarsi concretamente e stabilmente, dopo di che si può ottenere un diritto che arriva a sancire e a completare giuridicamente un percorso esistenziale.

Questo assurdo e demenziale dibattito altro non è che il segno ulteriore della incapacità di accettare il mutamento sociale e culturale della nostra società: viviamo fuori tempo e fuori luogo. Purtroppo è l’atteggiamento ipocrita non solo e non tanto italiano, ma europeo. L’aula vuota del parlamento di Strasburgo durante il dibattito sui risultati del semestre maltese di presidenza dell’Unione, discussione che riguardava certamente anche il punto della situazione sul problema immigrazione, è, senza voler esagerare o criminalizzare alcuno, un segno eloquente e sconfortante della disattenzione e della insensibilità verso il nuovo assetto socio-culturale dell’Europa inserita nell’area mediterranea.

Continuiamo pure a cavalcare, come scrive Lucio Caracciolo, l’equazione migranti= invasori=terroristi; continuiamo pure a nasconderci, come scrive Gianluca Di Feo, dietro la pretestuosa distinzione tra rifugiati (da accogliere) e migranti economici (da respingere); continuiamo pure ad illuderci di riuscire a rimpatriare migliaia di persone (forse risolveremmo il problema di Alitalia, garantendole un traffico aereo smisurato); continuiamo pure a vomitare accuse contro le Ong e contro le loro immaginarie complicità con gli scafisti; continuiamo pure a scaricare compiti e responsabilità sulla Libia così come sulla Turchia o sul Marocco (la Libia l’abbiamo voluta mettere a soqquadro per soddisfare il gusto belligerante di francesi e inglesi ed ora pretendiamo di ributtare il problema dall’altro lato del Mediterraneo); continuiamo pure a non aiutare i paesi africani pensando che il mondo finisca col mare Mediterraneo; continuiamo pure a seminare paure e zizzania. I migranti continueranno ad arrivare e noi avremo sempre più paura e semineremo sempre più zizzania pensando di essere noi il buon grano, che invece verrà bruciato, come dice Lucio Caracciolo, nel fuoco dell’antistoria, dell’antigeografia, dell’antidemografia, dell’antieconomia, dell’anticlima e dell’antipolitica.