Andate a dar via le ferie

Nella mia ormai lunga vita non ho mai avuto l’ossessione delle ferie estive e, tanto meno, invernali. Però non sono mai stato nemmeno un patito del lavoro. Mio padre, con la sua saggezza, mi ha insegnato che nella vita c’è il tempo per lavorare, anche duramente, ma ci deve essere anche quello per riposare e divertirsi. A volte le circostanze mi hanno costretto a contenere al minimo il periodo di vacanza, talora non ho potuto allontanarmi dalla città al punto da abituarmi a tale modalità vacanziera. Tutto e sempre senza drammi e senza ansie e nervosismi, anche perché al rientro in ufficio mi ritrovavo una tale caterva di lavoro da smaltire al punto da sperperare, in mezzora di ripresa stressante, l’illusorio pieno di tranquillità accumulato e da ripromettermi quindi di non andare più in vacanza.

Ci vediamo dopo le ferie, ne parliamo dopo le vacanze, rinviamo tutto a settembre, riprendiamo il discorso dopo esserci riposati: tutte frasi che si sentono continuamente ripetere e che rappresentano solo l’alibi per giocare al rinvio dei problemi, i quali puntualmente si ripresenteranno ancor più difficili e induriti dalla pausa feriale.

La politica risente come non mai di questo clima pre-feriale, anche perché la pausa per i politici è piuttosto consistente, ma soprattutto perché è il pretesto per fuggire dalle realtà scomode. Prendiamo il Parlamento con una caterva di importanti e urgenti leggi in discussione: una per tutte, lo ius soli, la cittadinanza a chi vive da tempo in Italia (la giudico urgente per tante persone che aspettano con ansia e per tutti gli italiani che vogliano vivere in pace con loro stessi e con gli altri). Su questo provvedimento di civiltà si è strumentalmente   scaricato lo scontro sul problema dell’immigrazione: visioni diverse anche a livello governativo e di maggioranza parlamentare. Ebbene, si è trovata la soluzione: rinviamo tutto a settembre inoltrato, come se a quella data la serietà e la ragionevolezza diventassero più facili e gli accordi più semplici da raggiungere. Ma vale anche per altre questioni. Spesso il rinvio feriale diventerà rinvio alla prossima legislatura, per poi finire in un rinvio sine die.

Al rimpallo tra Camera e Senato si aggiunge quello tra periodo lavorativo (peraltro già piuttosto corto) e periodo feriale (peraltro piuttosto lungo). Possibile che di fronte agli enormi problemi che vive il nostro Paese, la classe politica non pensi di dare un segnale di maggiore impegno, rinunciando o contenendo al massimo le ferie o, almeno, smettendo di nascondersi dietro di esse per non assumersi con immediatezza le proprie responsabilità.

Non vorrei che i politici rientrassero nella categoria dei “procrastinatori”, fenomeno che gli scienziati osservano nel mondo occidentale, dove ci si rifugia nel rimando delle proprie responsabilità, preludio psicologico ad un comportamento sfuggente e omissivo.

Molto peggio sarebbe se la coscienza della classe dirigente impegnata nelle istituzioni democratiche si obnubilasse, per abitudine o per mancanza di etica, al punto da non sentire più alcun senso di colpa per le proprie manchevolezze. Certo, fatte le debite differenze, un chirurgo non può preoccuparsi troppo degli interventi operatori da eseguire, rischierebbe di impazzire, ma non deve nemmeno farsi prendere dalla mera routine o addirittura dalla cinica abitudine.

Si fa un gran parlare di riforma e taglio dei vitalizi (le pensioni dei parlamentari). Pur riconoscendo l’opportunità di rivedere severamente e rigorosamente questi trattamenti economici, paradossalmente preferirei non sforbiciare questi diritti (almeno nella parte che non è diventata assurdo privilegio), ma avere un maggiore impegno lavorativo e una maggiore produttività da parte dei parlamentari stessi. Ricordo al riguardo l’atteggiamento del presidente dell’associazione in cui lavoravo: durante le trattative per il rinnovo del contratto di lavoro non voleva parlare di diminuzione dell’orario. “Chiedetemi aumenti di stipendio, diceva, ma non chiedetemi di lavorare meno”. Aveva ragione.

L’Italia brucia negli incendi, ha scarsità di acqua, fatica a offrire lavoro soprattutto ai giovani, è martoriata dal dopo terremoti, è toccata nel vivo dal problema degli immigrati. In questo contesto risulta provocatorio e di pessimo gusto insistere sulle vacanze. Nel mese e mezzo di interruzione della vita politica si potrebbero fare tante cose urgenti, necessarie e utili. Il diritto al riposo di chi opera nelle istituzioni a servizio dei cittadini viene, a mio giudizio, dopo il diritto dei cittadini a trovare risposte concrete ai loro enormi problemi. Dico la verità: non so come possa un deputato fare tranquillamente vita da spiaggia, sapendo che nel Centro-Italia c’è gente che dorme e vive in situazione di estrema precarietà a parecchi mesi dai terremoti; come possa un parlamentare staccare la spina per parecchi giorni sapendo che c’è gente che rischia il posto di lavoro, gente che non lo trova affatto, gente che lavora vittima di uno sfruttamento vergognoso, gente che dorme sotto i ponti, gente che non ha di che vivere, gente che non riesce a campare dignitosamente, etc. etc.

Un caro amico a cui tempo fa avevo fatto un simile ragionamento mi rispose acutamente: «Se è per quello, i nazisti e anche altri personaggi, torturatori e massacratori, riuscivano e riescono tranquillamente a dormire la notte…». Forse sto esagerando, chiedo scusa ai politici, ma lo faccio (solo) per rendere l’idea. Qualcuno penserà che sia demagogia. Lo ammetto, un po’ è così. Ma basta con i rinvii, basta con i giochini, basta con le alchimie, basta con le faziosità, basta con le scappatoie. E basta parlare di ferie. Fatele queste ferie del cavolo. Chissà che al rientro non abbiate più energia e più buona volontà. Ho i miei dubbi.

 

È giunta l’ora dei curiali incazzati

Il cardinale Müller, scaduto dall’incarico di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, un curiale vaticano d’altissimo bordo, c’è rimasto molto male: non è stato rinnovato, ma sostituito immediatamente senza troppi fronzoli ed ha protestato per questi modi ritenuti inaccettabili. Si è sentito maltrattato dal Papa ed ha lasciato intendere che Francesco stia sfoderando la mano dal velluto nei rapporti con la Curia vaticana, non escludendo una qualche resa dei conti con gli esponenti più critici nei suoi confronti.

Meno male, era ora! Questi illustri signori cardinali (così amava chiamarli papa Ratzinger) devono smetterla di sentirsi dei padreterni, devono imparare un po’ di ubbidienza (loro che ne hanno sempre pretesa tanta dai cattolici di fila), devono interrompere le loro trame di critiche verso l’impostazione teologica e pastorale di Bergoglio, devono capire che l’aria è cambiata e può comportare qualche inopinato raffreddore, devono mettersi in posizione di servizio con estrema umiltà senza nulla pretendere (hanno già avuto anche troppi onori e troppa considerazione).

Se papa Francesco ci va giù duro, a mio avviso fa benissimo, forse è un po’ tardi, ma non è mai troppo tardi. Io, al suo posto, sarei ancora più pesante: manderei questi signori a svernare in mezzo ai poveri, nelle periferie delle città, laddove mancano i preti e dove la vita è dura anche per i preti. Il cardinale Müller dice che non si trattano le persone così: la mentalità del privilegio e del “non sa chi sono io”. Un mio amico, dei preti in genere e dei curiali in particolare, dice: «Grazie, grazie e non pagano mai…».

Il cardinale Müller ha vissuto la sua religiosità nelle ovattate stanze del Sant’Uffizio, adesso provi ad esprimerla facendosi prossimo a quanti ha in precedenza bacchettato con dogmi, principi, regole, fardelli vari. Provi ad andarsi a sedere in mezzo alla gente, si adegui al nuovo corso bergogliano. È venuto il suo turno e non ne faccia un dramma. Si ritiri in buon ordine. Lasci in pace il Papa. Provi a pensare se il papa fosse suscettibile quanto lui: cosa avrebbe dovuto fare nei suoi confronti quando in interviste criticava il magistero bergogliano o quando era tra i firmatari di una lettera contraria alle procedure sinodali in merito alla famiglia e alla relativa difficile problematica?

Penso debba essere solo l’inizio di una profonda riforma a livello curiale: di cardinali e monsignori incazzati ne vedremo forse parecchi. Dopo il lungo pontificato di Giovanni Paolo II che ha lasciato fare, dopo Benedetto XVI che non ha avuto la forza di toccare certe situazioni, è arrivato papa Francesco: per la Curia vaticana è finito il tempo delle vacche grasse.

Quando sei invitato ad un banchetto, dice il Vangelo, vatti a sedere agli ultimi posti e non ai primi: meglio che il padrone di casa ti inviti a progredire piuttosto che a retrocedere. Questi signori cardinali si sono seduti da tempo ai primi posti e, adesso che il padrone di casa li invita a farsi da parte, pisciano per aria…Se ne faranno una ragione!

Le ragioni (poco convincenti) delle regioni

Ricordo come alla fine degli anni sessanta, quando si fece insistente e consistente la prospettiva della istituzione delle Regioni, il dibattito fosse dominato dal timore che questa istituzione, peraltro prevista espressamente anche se un po’ sommariamente dalla Costituzione, potesse diventare il grimaldello per far saltare la serratura ermeticamente chiusa verso l’assunzione di responsabilità governative da parte del partito comunista, ancora piuttosto lontano dalla maturazione democratica e dallo sdoganamento politico.

Francesco De Martino, allora segretario del partito socialista, lanciò verso i paurosi anticomunisti una ironica rassicurazione, garantendo ad essi che i social-comunisti, in odore di maggioranza nelle regioni rosse, non avrebbero fatto la rivoluzione con l’esercito dei vigili urbani.

La rivoluzione in effetti non c’è stata in nessun senso, anche nell’auspicabile indirizzo della sburocratizzazione dello Stato e dell’avvicinamento dei cittadini alle istituzioni e viceversa. Dopo i primi anni dalla riforma, passato l’entusiasmo iniziale, le regioni poco a poco sono diventate dei carrozzoni politici e burocratici, tradendo la loro mission costituzionale e la loro portata democratica. Chi abbia avuto rapporti di qualsiasi tipo con le regioni si è reso conto perfettamente di questa realtà: veri e propri ministeri in balia di nuove corporazioni burocratiche, molto clientelari, con poca esperienza e preparazione professionale. Nelle regioni si trovano tutti i difetti dei ministeri e quasi nessun pregio: alla ingessatura si aggiungono infatti l’incompetenza e l’inaffidabilità.

Le singole regioni hanno messo del loro, ognuna ha seguito lo schema politico della maggioranza di governo: la Lombardia, ad esempio, ha svaccato il “pubblico” a favore del “privato”, l’Emilia-Romagna ha rigorosamente schematizzato il “sociale”, portandolo sì ad un interessante protagonismo, temperato però da un asfissiante irregimentazione di procedure e rapporti.

È arrivata poi la velleitaria spinta federalista ed autonomista della Lega nord, a cui ha fatto riscontro un’improvvisata accentuazione dei poteri regionali, varata in fretta e furia dal centro-sinistra, che ha creato solo confusione di competenze, sovrapposizione di funzioni, contenziosi tra poteri.

Il recente progetto di riforma costituzionale intendeva solo riportare alla ragione l’assetto regionalista, ma non ne ha avuto il tempo e il modo, con la solenne, pesante e viscerale bocciatura al referendum popolare.

Di questi tempi ha ripreso corpo la battaglia nordista tramite la promozione di referendum, che puntano sostanzialmente a far diventare tutte le regioni a statuto speciale con relativa autonomia fiscale.

I sindaci e i presidenti provinciali lombardi del Pd sono promotori di un Sì a questi referendum, che assomiglia più a un Nì, nel senso che vogliono ottenere ulteriori competenze e risorse senza cadere nel velleitarismo nordista della Lega e portando avanti dopo il referendum quanto sta facendo il governatore emiliano del Pd, Stefano Bonaccini, vale a dire giocando in contropiede, senza plebisciti, in aperto dialogo con il governo centrale, per ottenere maggiore autonomia e più libertà di spesa, accreditando l’Emilia-Romagna come esempio virtuoso di federalismo regionale.

Non vedo grandi idee al di là dell’invadente   protagonismo di certi governatori al limite del populismo e oltre lo strumentale autonomismo riveduto e scorretto della destra filo-leghista. Non ho mai creduto molto nell’ordinamento regionale dello Stato italiano: troppo diversificate le aree geografiche, troppo contrastanti le esperienze storiche, troppo distanti le condizioni socio-economiche, troppo lontane le mentalità, troppo conflittuali le sensibilità politiche.

Checché se ne dica, una spinta eccessiva all’autonomia, consistente in deleghe di potere fondamentali e in autonomia fiscale tendente al 100%, rischia di minare il discorso dell’unità nazionale, di eliminare la solidarietà fra i territori, di creare paradossali o assurde discrasie nell’applicazione dei diritti dei cittadini.

Spero di sbagliarmi e di poter salutare, dopo l’ennesimo tira e molla tra spinte e contro-spinte, un assetto federale nuovo ed equilibrato che dia slancio e forza all’intero paese. Non vedo chi possa avere la necessaria lungimiranza al riguardo. Se dobbiamo fare l’ennesimo pasticcio moltiplicatore di burocrazia e sprechi, con l’aggiunta dello scontro tra egoismi regionali, meglio lasciar perdere. In un periodo di vacche magre nel consenso alla politica, aumentare il peso dei centri decisionali esistenti, mettendoli magari in conflitto fra di loro, mi sembra alquanto pericoloso. Cerchiamo di far funzionare al meglio quel che c’è. Preso per il giusto verso, il messaggio emergente dal referendum sulle riforme costituzionali dello scorso anno ha voluto significare proprio questo: state coi piedi in terra, tutt’al più volate basso.

Il rischioso abbraccio a Maria Elena Boschi

La sgradevole e penosa escalation nella polemica all’interno della sinistra italiana non ha limiti: siamo alle censure di stampo sovietico sugli atteggiamenti affettuosi nei confronti degli interlocutori. Durante la festa dell’Unità di Milano, Giuliano Pisapia, un anti-renziano ragionevole, ha amichevolmente abbracciato Maria Elena Boschi, una renziana doc. Che qualcuno ci trovi qualcosa di politicamente scandaloso è scandaloso.

Roberto Speranza non si è fatto scappare l’occasione di rivelarsi ulteriormente un vuoto personaggio che fa anacronisticamente il verso ai trinariciuti comunisti di un tempo che fu: «Giuliano, quella foto con Maria Elena Boschi a un pezzo del nostro mondo ha fatto storcere il naso…». Resta tutto da stabilire quale sia questo mondo e quale pezzo sia rimasto scandalizzato; è chiaro solo che il naso di questi ipotetici sinistrorsi ha tre narici.

Il politologo Gianfranco Pasquino la mette giù dura e in un tweet scrive in rima: «Giuliano Pisapia dimostra con abbracci e parole di non sapere cosa vuole». Che un intellettuale di questo livello si perda in polemichette gossipare vuote e   disgustose sorprende, ma ormai non c’è più nulla di cui sorprendersi.

L’eurodeputato dalemiano Massimo Paolucci ne fa una richiesta di chiarimento politico alla vecchia maniera comunista che non ammetteva eccezioni o deroghe alla linea ufficiale: «Uno può abbracciare chi vuole, anche Belzebù, e non è quindi una questione di buona educazione che va benissimo, ma c’è bisogno di un chiarimento: siamo tutti d’accordo a costruire una cosa alternativa al Pd di Renzi? Questo è il punto».

In queste tre reazioni al cordiale e amichevole scambio di saluti tra Pisapia e Boschi troviamo la pittoresca sintesi della demenziale battaglia in atto a sinistra del Pd: la nuova demagogia, la vecchia supponenza e la storica censura. Tutto il mal non vien per nuocere. Chissà che a qualcuno non serva per aprire gli occhi e vedere che intorno a D’Alema, Bersani e c. non c’è niente di rilevante, solo l’oscurantismo politico spacciato per coerenza ideologica.

Mi intristisce ancor di più pensare che Pisapia abbia ritenuto opportuno spiegare questo suo gesto distensivo: «Un abbraccio è solo un abbraccio, un gesto di cortesia e buona educazione…». Ma stiamo scherzando? Siamo al punto di dover rendere conto ai marpioni della sinistra del proprio comportamento persino in materia di galateo politico? Se ci mettiamo su questo piano vorrei tanto che Massimo D’Alema spiegasse cosa spende per l’acquisto delle sue scarpe e Pierluigi Bersani cosa fa a Piacenza durante i week-end. A Speranza non saprei cosa polemicamente chiedere: ha già detto tutto quel che poteva…

Per questa volta a Giuliano Pisapia è andata bene. D’ora in poi però, se proprio vorrà esprimere le proprie affettuosità, lo dovrà fare solo con un bacio in fronte a Susanna Camusso o Rosy Bindi: gli resta solo l’imbarazzo della scelta…

Ipocondria da corruzione

In Italia c’è un po’ di tutto: chi ha tanto pelo sullo stomaco da ridere sui terremoti, pregustando i vantaggi economici dell’appaltabile ricostruzione; chi tira un sospiro di sollievo per una sentenza che toglie alla corruzione romana l’infamia della mafia (la cacofonia è voluta); chi grida allo scandalo, sulla casette destinate ai terremotati del Centro-Italia, prima che ci sia: è bastata la notizia dell’apertura di un’indagine per criminalizzare i costruttori di questi alloggi con la possibilità di fare una scorpacciata di sputtanamento verso le cooperative vicine al Pd (cooperative rosse, brigate rosse, casette rosse: l’anacronistico toro anticomunista è sempre in agguato); chi gode e alimenta la sfiducia per il clima di malaffare dilagante, pensando di incassarne il paradossale dividendo in termini di voti qualunquisti (il populismo vive di questa deriva in cui non si riesce più a capire se è più qualunquista chi è corrotto o chi si schermisce dalla corruzione); chi tenta di negare l’evidenza per pulirsi la coscienza politica accontentandosi della sgrossatina capitolina indotta dalla sentenza sull’affarismo romano, ridenominato e ridimensionato (almeno concettualmente) con pignola, ma doverosa, cura giudiziaria.

L’Italia è bella perché è varia. A suo tempo Leonardo Sciascia aveva teorizzato “la mafia dell’antimafia”. Ora sarebbe il caso di parlare di qualunquismo dell’antiqualunquismo,   di sporcizia dell’antisporcizia o giù di lì. Ai tempi di tangentopoli un mio caro amico che bazzicava la Germania per importanti motivi di lavoro mi confidò a ragion veduta qual era la differenza tra Italia e Germania in materia di corruzione: nessuna nei fatti, perché esiste in abbondanza in entrambi i Paesi; grande nell’eco mediatica, perché, mentre in Italia se ne parla e ci si scandalizza, in Germania si tace per carità di patria.

Dico la verità, a volte al termine della lettura di certe cronache sui casi in odore di malaffare mi chiedo: e dove sono i reati? Esiste ormai una sorta di presunta colpevolezza per chi svolge certi ruoli e certe funzioni pubbliche? Che a Roma un dirigente del comune su tre sia indagato per reati riconducibili al malaffare nella pubblica amministrazione mi sembra un dato che impone serie riflessioni: stiamo esagerando nelle inchieste giudiziarie sparando a raffica nel mucchio o stiamo effettivamente affondando nel mare inquinato della trasgressione affaristica?

Vigilare, controllare, scovare i furfanti, condannare i colpevoli, risanare i rapporti tra pubblico e privato, riportare la politica all’onorabilità richiesta dalla Costituzione, sono tutte esigenze imprescindibili. Attenti, però, perché le rivoluzioni (lo insegna la storia) scadono nel terrore, che spara a vanvera nel mucchio finendo per colpire gli innocenti e col buttare il bambino assieme all’acqua sporca.

Può succedere quel che capitò ad un mio simpatico collega, il quale a fronte dei suoi disturbi di carattere fisico, diceva con spietata auto-convinzione: nelle cause delle mie malattie voglio andare fino in fondo per curarmi al meglio! E non si accorgeva, di piombare, piano piano, dentro alla peggiore delle malattie: l’ipocondria. Alle sue vere malattie ne aveva aggiunta una immaginaria ma deleteria, psicologicamente paralizzante e fisicamente imbarazzante.

Aiutiamoci a casa nostra

Quando in una famiglia non si va d’accordo, ad aprire bocca si sbaglia sempre. Nella famiglia politica italiana non solo non si va d’accordo, ma non ci si rispetta e quindi ogni occasione è buona per schiamazzi verbali e attacchi strumentali. Matteo Renzi lo sa, ciononostante non tace un attimo e quindi offre il fianco ai tanti nemici interni ed esterni al suo partito: qualunque cosa dica viene girata e rigirata contro di lui.

Riguardo al problema degli immigrati ha usato lo slogan “aiutiamoli a casa loro”: affermazione lapalissiana, ma ignorata e contraddetta nei secoli. Mi sarei quindi aspettato che queste parole, piuttosto scontate dal punto di vista, storico, politico, economico e sociale, fossero snobbate e sminuite per il loro retorico significato.

Niente affatto. È diventato il pretesto per una squallida polemica a destra e sinistra. Da una parte è stato visto come un tentativo maldestro di scopiazzare il sempre moderno razzismo nostrano del “rimandiamoli a casa loro”; dall’altra parte come un tradimento del demagogico e parolaio aperturismo dell’ “accogliamo tutti e sempre”.

In realtà, pur nella sua vaghezza, il discorso di aiutare le popolazioni africane,   prevenendo l’estrema ratio della fuga da guerre e miseria, non fa una grinza. Non è né di destra né di sinistra, è razionale e solidale ad un tempo. Tuttavia risulta molto più comodo utilizzare il problema per fare un po’ di propaganda.

Renzi dovrebbe imparare a parlare e scrivere meno. I suoi nemici dovrebbero finirla di polemizzare a vanvera senza argomenti da proporre in alternativa. È un dibattito che affronta problemi enormi con l’armamentario della polemichetta politica: come se gli scalatori dell’Everest discutessero se partire con le ciabatte o con le scarpette da passeggio. In questo senso nel partito democratico va di moda la questione dell’uovo e della gallina: nascono prima le coalizioni politiche o i programmi? Altro busillis inventato. E giù fiumi di parole e di inchiostro. Volendo fare un commentino del tutto personale, più psicologico che politico, esterno un disagio crescente, che mi sta sempre più allontanando dalla “politica-politicante” alla disperata ricerca della “politica-politica”.

La scopa della storia pulisce, ma non toglie le incrostazioni

Se la ricostruzione, più o meno romanzata, della vita e della morte dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ci restituisce la migliore immagine possibile della magistratura, l’intervista del capo della polizia Franco Gabrielli ci offre una visione tranquillizzante delle forze dell’ordine. Allora uno si chiede: possiamo, democraticamente parlando, dormire sonni tranquilli tra i due guanciali di polizia e magistratura. Ho parecchi dubbi al riguardo.

Falcone e Borsellino erano punte di diamante che hanno messo e continuano a mettere a nudo le manchevolezze di un sistema giudiziario piuttosto ripiegato su se stesso, talora compromesso col potere politico e affaristico, assai corporativo e preoccupato di difendere i propri privilegi, poco efficiente e pieno di contraddizioni. Molti giudici hanno pagato con la vita il loro impegno contro le mafie e la corruzione, hanno scontato la loro personificazione nello Stato, hanno avuto il coraggio di scoperchiare pentole puzzolenti, di andare contro-corrente. Non è bastato e non basta a togliere il tarlo di una magistratura, che spesso non riesce a fare giustizia, forte coi deboli e debole coi forti, lenta e burocratica, restia a ripulirsi dalle pecore nere.

Alle forze di polizia bisogna riconoscere l’abnegazione e il coraggio impiegato nel loro difficile e rischioso servizio, ma il passato e il presente ci mettono davanti comportamenti nostalgicamente e gratuitamente violenti, una certa qual tendenza alla giustizia sommaria e vendicativa, una caduta piuttosto frequente nell’abuso del proprio potere, l’omertà nei confronti di chi sbaglia nei propri ranghi, la volontà di coprire responsabilità ed errori ai vari livelli. Franco Gabrielli contribuisce con equilibrio e onestà intellettuale a voltare pagina rispetto alla “catastrofe” della gestione dell’ordine pubblico del G8 di Genova nel lontano 2001, ma faccio fatica a credere in una conversione democratica totale dei comandi e degli operatori delle forze dell’ordine.

Se un gestore di uno stabilimento balneare fa l’apologia del fascismo, mi dà enorme fastidio, ma non mi preoccupa più di tanto. Se in una caserma una persona fermata viene sottoposta a violenza con tanto di obbligo a urlare “Viva il Duce”, le cose cambiano e si complicano, perché vuol dire che non siamo nella episodica manifestazione di un misto fra goliardia e nostalgia, ma nella espressione di una mentalità anti-democratica incistata negli organi dello Stato, inaccettabile da tutti i punti di vista, possibile e probabile preludio a ben altre violenze e procedure. Successe alla caserma di Bolzaneto, ma roba del genere temo possa continuare a succedere, nell’indifferenza dei capi, anche nelle caserme dell’esercito.

Non pensi quindi Gabrielli di avere archiviato un passato che continua ad incombere, di aver fatto pulizia, con una pur bella e schietta intervista, di una sporcizia incrostata, credo dovrà usare ben altro “unto di gomito” democratico ed anti-fascista. Sì, perché non dimentichiamoci mai che la nostra Repubblica è tale e non ammette deroghe, nemmeno in nome dell’ordine pubblico, che infatti non è un valore assoluto.

In una delle fiction su Falcone e Borsellino viene presentato un episodio durante il quale appare il loro netto ed inequivocabile rifiuto   all’uso da parte dei poliziotti di metodi violenti e sbrigativi per combattere la mafia: «No, noi non siamo come loro! Avete capito!».

Sì, noi non siamo mafiosi e non siamo fascisti. La Costituzione dice che siamo democratici: che lo siamo veramente lo dobbiamo dimostrare nei fatti, anche gestendo correttamente le situazioni più difficili e delicate in cui la violenza sembra essere la cifra imprescindibile.

Da Ratisbona un coro di accuse per tutta la Chiesa

Da tempo si parlava e si scriveva dello scandalo delle annose violenze sistematiche usate nei confronti dei ragazzi facenti parte dello storico coro di voci bianche di Ratisbona. Un conto è però parlar di morte, altro è morire: è uscita infatti dalle indiscrezioni la clamorosa e choccante vicenda con le cifre incredibili di quanto avvenuto per decenni in una importante istituzione cattolica tedesca, vere e proprie torture fisiche con tanto di molestie ed abusi sessuali annessi e connessi.

Dietro questi comportamenti quasi incredibili ci sono due impostazioni pseudo-culturali (di religioso ed evangelico non hanno niente) che hanno segnato e segnano ancora la vita della Chiesa.

Innanzitutto la storia cattolica ci consegna una educazione di stampo religioso che, fra i tanti meriti accumulati nella formazione dei giovani, ha purtroppo un vizio di fabbrica drammatico e rovinoso: al rigoroso rispetto dei principi e delle regole si può sacrificare, fino alle estreme conseguenze, quello dovuto alle persone. Una sorta di fine altamente educativo che giustificherebbe la violenza dei mezzi punitivi e l’eccesso disciplinare, travalicante i confini del rigore per arrivare alla violenza vera e propria. Non credo che Ratisbona sia un caso unico, forse è la punta dell’iceberg di un sistema, che, dai convitti e dai collegi ai seminari, ha imperversato nel passato almeno fino agli anni settanta.

Un altro pilastro negativo consiste nella criminalizzazione e nella repressione della sessualità vista come vizio e quindi consegnata alla clandestinità degli sfoghi più o meno violenti, nella perversa convinzione che l’abuso episodico possa essere meglio perdonato e tollerato rispetto alla pratica sessuale aperta e naturale. Per dirla brutalmente meglio abusare di un ragazzino per poi chiedere perdono che legarsi ad una donna andando all’inferno: una castità criminale che salva le apparenze e illude di galleggiare sul mare tempestoso delle passioni. La repressione sessuale ha ottenuto questi paradossali risultati. Credo si tratti dell’errore peggiore commesso dalla Chiesa nella sua storia: ne sono rimasti condizionati chierici, laici, religiosi, educatori, preti, suore, vescovi, cardinali, papi. Un vero e proprio attentato al Vangelo.

Attorno a queste impostazioni devianti si è creato un alone di complicità, di omertà, di inerzia, di viltà che non riesce a finire al di là dei proclami, delle commissioni, delle inchieste, dei risarcimenti, dei provvedimenti e delle buone intenzioni. Questa fitta ed avvolgente rete si è strappata in più punti, ma non si è dissolta: continuano ad emergere fatti gravissimi che toccano o almeno sfiorano persino responsabilità di altissimo livello gerarchico. Si coglie un desiderio di voltare pagina, ma la storia continua a buttare in faccia alla cattolicità gli echi di un passato, che rivolge accuse pesantissime, tali da mettere i brividi.

Non invidio papa Ratzinger alle prese con una scomodissima parentela: qualcuno ha malignamente ipotizzato che la sua rinuncia fosse dovuta anche e soprattutto all’ingombrante macigno del fratello Georg, coinvolto nell’affaire Ratisbona almeno per omessa vigilanza. Non credo, sono convinto che Benedetto XVI abbia passato la mano per motivi ben più strategici. Resta tuttavia un gran brutto schizzo di fango che attacca la sua tonaca bianca: solo lui sa la sofferenza proveniente dall’indiretto rimorso per i tanti patimenti arrecati nei tempi dalla Chiesa da lui recentemente governata. Ratzinger aveva capito che il marcio era grande nella Chiesa, ma forse la realtà sta superando la sua pessimistica previsione.

Non invidio papa Bergoglio, che vede compromesso il suo nuovo corso da retaggi del passato e da contraddizioni del presente. Ma tutta la Chiesa deve cambiare registro rimuovendo coraggiosamente due suoi tabù. Il sesso non è un potenziale peccato, ma uno stupendo dono; la persona più è piccola e indifesa e più va rispettata senza “se” educativi e senza “ma” dogmatici. Quando si vuole evidenziare e condannare il massimo disprezzo per la religione, si dice: non si può bestemmiare in chiesa. Ebbene a Ratisbona si è fatto molto di peggio.

 

Le travi migratorie negli occhi europei e italiani

Mio padre era implacabilmente critico con i faciloni in casa altrui, ma inetti in casa propria: «Coi che all’ostaria con un pcon ad gess in sima la tavla i metton a post tutt; po set ve a vedor a ca’ sova i n’en gnan bon ed far un o con un bicer…».

Prendiamo l’Italia davanti all’emergenza immigrati. È quasi automatico vedere la pagliuzza (forse sarebbe meglio dire la trave!) nell’occhio della Ue. Molti Paesi non sono disposti a farsi carico dei migranti: chi proprio non vuol sapere di quote con cui dividere il carico; chi si trincera dietro la suddivisione tra rifugiati e migranti economici, dando la propria disponibilità solo per i primi; chi chiude i propri porti all’accoglienza delle navi stracolme di fuggiaschi; chi addirittura alza muri difensivi e respingenti. Ognuno ha le sue ragioni per non fare il proprio dovere etico e umanitario: abbiamo già dato, siamo oberati dai nostri problemi, di immigrati ne abbiamo già anche troppi, bisogna rimandare a casa quelli che non hanno un bisogno assoluto, bisogna fermarli prima che partano, guardiamoci dentro perché i terroristi sono in agguato, bisogna essere intolleranti verso chi delinque, etc. etc.

L’Italia è il Paese più esposto e si trova nella condizione di accoglierli, poi si vedrà…e non si vede niente perché vale di fatto una regola cinica secondo la quale gli immigrati chi li ha se li tiene. Molte chiacchiere, molti elogi, pochissima solidarietà concreta, che tende a limitarsi a qualche contributo finanziario (meglio di niente) senza affrontare il problema nella sua drammatica portata.

Ben vengano, in un certo senso, le provocazioni italiane nei confronti della latitanza Ue: la pressante richiesta ad aprire gli altri porti   alle navi cariche di disperati, la minaccia di munire gli immigrati di permessi temporanei in modo da poterli far giungere negli altri Paesi Ue, le ritorsioni a livello comunitario su altri capitoli economici o politici, le pressioni a tutti i livelli per coinvolgere i partner europei in un’azione obiettivamente impossibile per la sola Italia. Niente da fare! Le orecchie da mercante si sprecano anche da parte di personaggi teoricamente sensibili.

Angela Merkel, in vista delle elezioni, non si sbilancia, ritiene di avere già dato; Emmanuel Macron, dopo avere stravinto le lezioni presidenziali e parlamentari, non vuole mettere alla prova il suo feeling con i francesi e si nasconde dietro la divisione fra rifugiati e immigrati per sgattaiolare fuori dalla sempre più stretta emergenza europea. Qualcuno ha polemicamente affermato che se la chiusura dei porti francesi fosse stata deliberata da Marine Le Pen, qualora avesse vinto le elezioni, tutti si sarebbero scandalizzati e avrebbero gridato al razzismo di stato, invece con Macron…Non è del tutto vero, ma nemmeno del tutto falso. Al discorso logico, prima che etico-politico, del dividiamoci responsabilità, compiti, costi, impegni, si risponde con un sostanziale e misero “a chi tocca leva”.

Quando però l’Italia cerca di applicare al proprio interno quei criteri che vorrebbe rispettati a livello comunitario, casca l’asino, spunta la trave nel nostro occhio: le Regioni e i Comuni, si comportano, più o meno, come i Paesi i comunitari, le quote non funzionano, si alzano le barricate, i sindaci fanno gli schizzinosi, i prefetti fanno casino, il ministero degli Interni non riesce a governare le situazioni. Sembra facile, ma non lo è, a nessun livello. Scattano comunque meccanismi di rigetto, egoismi geografici e sociali, calcoli di convenienza, accuse reciproche. Anche al nostro interno ognuno ha ragioni da accampare. Fatto sta che non riusciamo a trovare la quadra e non diamo certo una prova di serietà a quell’Europa che inondiamo (giustamente) di critiche.

Aiutati che l’Europa ti aiuta! Invece col gesso sul tavolo europeo vorremmo quadrare quei conti, che non riusciamo a far tornare a casa nostra. Oltre tutto quando i nostri governanti battono i pugni sul tavolo a Bruxelles, a Roma si scatenano le polemiche dei benaltristi e degli antieuropeisti totali, sicché rimaniamo soli, divisi, polemici e inconcludenti. Se Renzi (Gentiloni e Minniti soprattutto) puntano i piedi e osano alzare la voce per rompere i coglioni alla sorda Ue, torniamo al solito schema: “è tutto inutile, dall’Europa è meglio uscire”, oppure “non si fa così, occorre ben altro per confrontarsi con i Paesi europei…”. Minniti per gli uni è un pasticcione convertito alla fermezza, per gli altri un traditore della linea accogliente e integrante.

Resta comunque incontestabile una realtà che ci fa onore: bene o male abbiamo saputo salvare ed accogliere migliaia di disperati. Gli Italiani saranno dei pasticcioni, ma tutto sommato il cuore ce l’hanno e sono capaci di buttarlo oltre l’ostacolo. Non può essere motivo di sollievo, ma di incoraggiamento. Facciamo tutto il possibile a casa nostra e poi andiamo a bussare con forza e credibilità alle porte europee. Speriamo che qualcuno apra…

 

La psicanalisi e i cadaveri della sinistra

In questo periodo mi sono ripetutamente e impietosamente chiesto, alla luce delle mie continue dissonanze rispetto agli atteggiamenti politici di quella autoproclamatasi “sinistra-sinistra” che ha trovato il suo irrinunciabile mestiere nel conflitto con Matteo Renzi: sto diventando un revisionista renziano? Sto annacquando la mia ispirazione e la mia cultura per sposare un moderatismo di comodo? Sto rinunciando a certi saldi principi per approdare a un indefinito modernismo? Domande leali e per nulla retoriche.

Possibile cioè che Renzi sia quel diavolo che tenta e porta la sinistra fuori dal seminato? Non sono un tifoso renziano, ne vedo pregi e difetti, ma gli riconosco una spinta positiva e innovativa per il nostro Paese. E allora? Sono diventato un traditore della causa? Ecco perché ho letto con estremo interesse, quasi con trepidazione ed emozione quanto ha scritto con rara lucidità e obiettiva schiettezza Massimo Recalcati in un articolo apparso su la Repubblica, in netta controtendenza rispetto alla posizione attuale del giornale, una spietata analisi che potrebbe diventare una pietra miliare nell’attuale fase politica.

In poche parole egli sostiene che l’odio verso Renzi altro non è che l’odio storico della sinistra   verso “l’eterogeneo inassimilabile”, verso chiunque osi esprimere una cultura, una sensibilità, una generazione diverse rispetto a quelle ideologicamente canoniche e per ciò stesso considerato un usurpatore e un traditore da combattere, da espellere o da ridurre ad amico del giaguaro.

Da dove verrebbe questo odio? Dalla incapacità di ammettere la morte della propria identità ideologica, preferendo imputare tale morte “all’eterogeno”, al corpo “estraneo” che pretenderebbe un’ospitalità arricchente. E cosa è morto nella concezione storica della sinistra? La lotta di classe, la concezione etica dello Stato, l’identificazione del liberalismo come Male, la gerarchia immobile del partito, la prevalenza della Causa universale sulle relazioni di cura particolari, la separazione paranoide del mondo in forze del Bene e forze del Male, l’inclinazione populista della democrazia diretta, la riduzione delle politiche sociali all’assistenzialismo, il sospetto verso la singolarità in tutte le sue forme, il paternalismo verso le nuove generazioni.

Ho provato a rileggere tutte le critiche più roventi rivolte al renzismo in questa chiave critica e devo ammettere che la prova ha funzionato perfettamente. La riforma Costituzionale è stata accanitamente contrastata quale attentato ai capisaldi dello Stato; di certe misure fiscali non è stato valutato l’impatto sullo sviluppo economico, ma sono state viste tout court come un regalo alle classi privilegiate; la liquidità del partito è stata respinta come attentato alla struttura pietrificata del partito stesso; le politiche particolari in materia di lavoro sono state respinte in base ad uno schema generale e stucchevole di società equa; ogni rapporto con l’opposizione viene ridotto a rischio di contaminazione ideologica; i famosi 80 euro sono stati snobbati e sottovalutati in quanto non rientranti nell’assistenzialismo ufficiale e pansindacale; ogni cambiamento nella vita di partito viene rifiutato aprioristicamente a difesa dell’ingessamento nella dialettica interna: non potendo infatti più funzionare il centralismo democratico per il tramonto irreversibile della storica leadership, si ripiega sulla concezione di una maggioranza usurpatrice, che non può mai decidere per non fare ombra alla minoranza nostalgica che non si vuol rassegnare ad essere tale.

Gianni Cuperlo è disposto a rimanere nel Pd solo se chi guida smette di usare la clava, cioè se rinuncia all’autopsia del cadavere. Romano Prodi sposta la sua tenda lontano dal Pd, perché non vuol assistere all’autopsia. Enrico Letta sta in silenzio, esprime il disgusto e tiene le distanze, perché il primario di necroscopia lo ha defenestrato. Walter Veltroni teme che il Pd assomigli alla Margherita, ma non vede che è stiracchiato verso il Pds. D’Alema si ritiene leader maximo e sputa l’odio verso chi mette in discussione l’unica sinistra ammissibile, la sua. Pierluigi Bersani fa un tuffo quotidiano nel (suo) passato, facendo battutine ad uso e consumo di pochi ma carissimi amici. Giuliano Pisapia vuole ibernare il cadavere sperando che possa risuscitare.

Anche la storia parmense della sinistra è piena di riscontri sulla impermeabilità assoluta al cambiamento, dei quali è persino superfluo riparlare, tanto sono clamorosamente evidenti e significativi.

Massimo Recalcati, uomo di scienza, autorevole psicoanalista italiano, mette la sinistra sul suo lettino e ne fa uscire tutte le paranoie e i complessi. Qualcuno dirà che la politica non è la psicoanalisi. Sì, ma analizza quel che viene prima della politica e quindi ne scopre le profonde pulsioni. Mentre tutti si esercitano nell’anti-politica, Recalcati punta sulla pre-politica.

Esco rinfrancato ma preoccupato. Non sono un revisionista (così sostenevano le Brigate Rosse con riferimento al PCI degli anni settanta), anche perché oltre tutto non sono mai stato comunista. Forse mi salvo dai tuffi nel passato dal momento che non sono rimasto vittima delle ideologie della sinistra pur essendo di sinistra. È il caso di dire come Andrea Chenier durante la rivoluzione francese: «Non sono un traditore, uccidi, ma lasciami l’onore».