I segreti di Pulcinella

Ormai non c’è scampo. Siamo tutti intercettati dall’intelligence e l’intelligence è intercettata dagli hacker. Tutti sanno di tutti, ma in realtà non sappiamo niente di niente. I capi di Stato sono regolarmente spiati e persino i segreti militari vengono violati, i sistemi protettivi dei dati più riservati si rivelano autentici colabrodo.

C’è da preoccuparsi? Sembrerebbe di sì. Io invece dico di no. Dietro le cortine fumogene dei segreti di Stato si sono da sempre combinati disastri. Dietro i paraventi degli affari riservati ne sono state combinate di tutti i colori. Basti pensare al recente affare Regeni, la misteriosa morte del giovane avvenuta in Egitto. Fanno solo scena i tentativi, più formali che sostanziali, di ottenere una verità che non verrà mai a galla, proprio perché coperta dai segreti spionistici e dalla rete in cui questa persona era caduta suo malgrado. Gli Stati, i regimi in particolare, si difendono così, nell’ombra della menzogna e non alla luce della verità. «Cos’è la verita?» chiese Pilato a Gesù. Gesù non gli rispose, tempo perso.

Quindi, tutto sommato, che la coltre menzognera venga squarciata e tornino a galla i segreti fangosi, in teoria non è male; potrebbe essere addirittura un deterrente alla montagna di bugie sotto cui rischiamo di asfissiare. L’era informatica ci ha globalizzato e forse ci sta mettendo a nudo. Può darsi che con gli hacker tutto il mal non venga per nuocere. Probabilmente si stanno scoperchiando le prime pentole. Il mondo si regge su equilibri menzogneri e precari, c’è quindi il rischio che il castello di carte possa crollare con un semplice alito di vento hackeristico. Insisto a dire che non sarebbe un gran male, anche se ho un timore. Rimarremo delusi: la triste realtà sarà di portata inferiore rispetto a quanto pensiamo, tutto molto più semplice rispetto alla nostra complicata immaginazione. Quando arrestarono Totò Riina, mi venne spontanea un’amara considerazione: tutto lì il gran capo mafioso? Me lo aspettavo diverso e più sofisticato. Un semplice macellaio. Credo possa essere così anche nei rapporti internazionali: ignobili connubi tra semplici macellai.

Gli anni bui della nostra Repubblica sono ancora avvolti nel mistero, non ci resta in prospettiva che sperare nei cyber-bulli delle reti informatiche. Se e quando dovessimo conoscere i segreti di Stato, forse rimarremmo assai delusi. Sì, perché, tutto sommato, non troveremmo niente di nuovo e niente di più rispetto a quanto abbiamo immaginato e soprattutto non riusciremmo a cambiare niente. Chi non ricorda il marciume emerso dagli atti della commissione d’indagine sulla loggia massonica P2: cosa è cambiato? D’altra parte, quando non si vuole risolvere un problema, non si fa una commissione? Magari d’ora in poi, quando si vorrà (non) capire una situazione, faremo ricorso agli hacker. Si alzerà un polveroso casino e poi…

Se pensiamo ai potenti che hanno rovinato il mondo ci accorgiamo che non si è mai riusciti a farli fuori, l’hanno sempre fatta franca rispetto ad eventuali attentati. Al contrario non appena si presenta sulla scena mondiale un personaggio che, bene o male, prova a cambiare certe cose in senso pacifico ed equo, viene subito fatto fuori, direttamente o indirettamente. Gli hacker, in fin dei conti, ci potranno spiegare i dettagli di quel che sappiamo già.

Prendiamo l’uccisione di Aldo Moro: la verità non è venuta a galla, se non in minima parte. Quando ci penso, mi prende una rabbia notevole. Però poi ragiono e mi dico: nella peggiore delle ipotesi scopriremmo che dietro c’erano gli Usa con la loro finta paura del comunismo o l’Urss con la sua falsa integrità comunista. Quindi cose stranote. Gli hacker possono risparmiarsi la fatica, sappiamo già tutto. Il problema è un altro.

 

Triton e ritriton, la cagata pazzesca del Mediterraneo

I lacci burocratici italiani da una parte, le minacce del governo libico dall’altra, si è riusciti a sbattere fuori dal Mediterraneo le Organizzazioni non governative e le loro navi in missione umanitaria in soccorso dei migranti. Stando ai dati pubblicati sui giornali, esse avrebbero salvato 46.796 profughi nel 2016 e 12.646 nei primi mesi del 2017. Niente paura, dice il Ministero degli Interni, se sarà necessario, le sostituiremo con le missioni europee Sophia e Triton e con i mercantili di passaggio in appoggio alla Guardia costiera.

Mi chiedo: se era ed è così semplice organizzare i soccorsi, perché non lo si è fatto prima. Se erano superflue le navi delle Ong, perché si è fatto tanto allarmismo sul rischio di trasformare il Mediterraneo in un cimitero di affogati. Qualcuno, secondo me, sta barando o bluffando.

L’uovo di Minniti: con due o tre viaggi diplomatici in Libia e paesi africani, con un protocollo, condiviso a livello europeo, da firmare con le Ong, sembra avere risolto (quasi) tutto. Il flusso dei migranti si è placato, gli scafisti si sono messi in riga, i Libici si fanno carico di pattugliare il loro mare in lungo e in largo, i centri di accoglienza, in territorio libico, sono pronti ad assorbire eventuali onde migratorie di ritorno.

Con tutto il rispetto per l’intelligenza e l’operosità dell’attuale ministro, mi sembra che le cose non stiano proprio così. Probabilmente non sapremo mai quanti profughi lasceranno le penne nel mar Libico e in tutto il Mediterraneo: la guardia costiera e i suoi nuovi partner non faranno miracoli, ma lontano dagli occhi lontano dal cuore.

I profughi che non moriranno in mare torneranno nell’inferno da cui sono fuggiti: ci penserà la Libia foraggiata al riguardo (si ripeterà la vergognosa scaricata del barile effettuata dalla Merkel sulla Turchia per chiudere la porta d’ingresso dei Balcani), qualche avance del governo libico si intravede (dateci soldi, al resto pensiamo noi).

Si effettueranno cioè i cosiddetti respingimenti con classe, senza baccano, senza muri e senza chiusure nette: il risultato comunque non cambia e questa gente la faremo morire di risulta, mettendo a posto le coscienze con Sophia e Triton, missioni europee che, se ho ben capito,   riusciranno sì e no a salvare solo i profughi che non sanno nuotare.

Sta avvenendo una silenziosa e pretestuosa rimozione del problema: erano i rompicoglioni delle Ong che creavano casino. Tutto sta tornando sotto controllo. Il capo della marina di Tripoli lo dice a chiare lettere: «Le Ong non rispettano la nostra legge, le nostre direttive. E soprattutto le Ong fino ad ora hanno offerto un servizio eccellente ai trafficanti, un aiuto perfetto: le loro navi non fanno salvataggio, loro fanno trasporto, trasbordo diretto dei migranti. Per settimane abbiamo visto i risultati: barconi di migranti che venivano avvicinati al momento giusto dalle navi delle Ong. Il loro lavoro è prezioso, ma deve salvare i migranti, non trasportarli. Altrimenti diventano un elemento decisivo nella catena criminale che permette a questo sistema di essere efficiente». Affermazioni di una gravità e parzialità pazzesche alle quali qualcuno dovrebbe pur rispondere. Questi Libici hanno problemi enormi, non riescono ad esprimere uno straccio di governo, sono divisi e disperati al loro interno, hanno bisogno di aiuto e osano fare “i bulli”, minacciare le Ong, smerdare il governo italiano dopo avergli chiesto di intervenire in loro favore, vantare una supremazia territoriale, fare i primi della classe. Se non ci fossero di mezzo migliaia e migliaia di disperati, varrebbe la pena di mandare tutti a cagare nel mar Libico (Paolo Villaggio docet con la sua famosa cagata pazzesca).

Le uova e…le mele marce

Ogni tanto spunta la notizia che un prodotto alimentare sarebbe contaminato da sostanze chimiche utilizzate nelle colture e negli allevamenti. Titoloni, polemiche, paure, allarmismi, inchieste, distruzioni e poi tutto va in tacere. Queste vicende mi fanno pensare alle retate contro la delinquenza più o meno organizzata. Anche in tali casi grandi sceneggiate, grandi spiegamenti di forze, poi tutto in tacere.

Viviamo nell’epoca in cui si sa tutto di tutti, in realtà non si sa nulla di nulla. Per mia modesta esperienza professionale credo che la tracciabilità dei prodotti alimentari finisca con l’essere una montagna di carte, da cui non traspare un bel niente. Anche i marchi biologici mi lasciano piuttosto perplesso. Forse è meglio non pensarci. È come quando si va al ristorante: se andassimo a vedere in cucina probabilmente ci scapperebbe l’appetito. Se approfondissimo il contenuto di tutti gli alimenti che ingoiamo, rischieremmo di morire di fame.

D’altra parte perfino Gesù non era molto incline ai rigorismo alimentare, sosteneva infatti che non è quel che entra nell’uomo a contaminarlo, ma quel che cova nel suo animo. Infatti le frodi e gli inquinamenti sono opera nostra. Facciamo solo finta di preoccuparci, in realtà ce ne freghiamo altamente. Tutti ricordano l’allarme sui coloranti di parecchi anni fa. Ben pochi oggi scelgono bevande senza coloranti. Succederà così anche per le uova: per un po’ di tempo se ne gioverà il fegato, si abbasserà il colesterolo. Altra mania salutista dei giorni nostri. Tempo fa un carissimo amico medico mi confessava paradossalmente: «Per controllare la salute dei pazienti oggi si guarda il tasso di colesterolo nel sangue. Se va bene quello, tutto il resto non conta. Hai un tumore? Niente paura, l’importante è il colesterolo basso…». Avrete badato anche voi come si comportano certe persone con alto tasso glicemico, certi soggetti diabetici: mangiano pane, pasta, dolciumi etc, in fondo   arriva il caffè, tirano fuori dalla tasca il contenitore della saccarina e ne mettono una pasticchina nella tazza, così mettono a posto tutto…

Pensiamoci: continuiamo a fumare come turchi, beviamo alcolici a più non posso, ci droghiamo con roba leggera e pesante, straviziamo da tutti i punti di vista, poi un bel giorno esce la notizia che ci sarebbero delle uova contaminate da un antiparassitario. Ebbene allora ci sentiamo tra color che son sospesi e tremiamo dalla paura di morire avvelenati. La natura ci incute giustamente paura: quando però si ha veramente timore di qualcuno non lo si prende in giro. Noi invece istighiamo la natura, ce la tiriamo addosso, salvo piangere sulle uova rotte nel paniere, anzi ci tiriamo addosso da soli le uova marce.

È stato ed è tutto un costruire in barba alle norme (in riva al mare, usando materiali inadeguati, fregandocene altamente dei vincoli idrogeologici o paesaggistici, sprecando suolo, disboscando i terreni, appiccando il fuoco per meglio fare tabula): ce ne accorgiamo quando arriva un terremoto, quando crolla qualche fabbricato anche senza terremoto, ma è troppo tardi. Qualcuno addirittura ci ride sopra, pregustando speculazioni immobiliari in vista della ricostruzione, che magari avverrà ancora in barba alle norme antisismiche, così arriverà il prossimo terremoto e via col gioco dell’oca.

In questi ultimi giorni l’abusivismo tiene banco nei discorsi: sanatoria sì, sanatoria no, demolizioni sì, demolizioni no, arriviamo persino a teorizzare l’abusivismo di necessità…

Mi sovviene dell’ aneddoto in materia di peccato. Un prete in confessionale ascolta l’accusa di un penitente, che ammette di avere bestemmiato. Il sacerdote vuole approfondire e chiede: «Ma lei bestemmia molto?». Arriva l’imbarazzata e sdrammatizzante risposta: «Una cosa giusta…».

Buon ferragosto (salutista, naturista, dietetico, perbenista, un po’ disincantato e un tantino qualunquista) a tutti!

Il centralino della vera povertà

In questi giorni, a dieci anni dallo scoppio della grande crisi economica, si fanno i conti dei danni e si verificano i dati della ripresa in corso. L’Italia resta in situazione molto critica per quanto riguarda le famiglie che vivono in povertà, la disoccupazione, il debito pubblico, , il reddito pro-capite, le sofferenze delle banche. Non c’è di che rallegrarsi anche se probabilmente il peggio è passato, ma il meglio tarda ad arrivare. Preoccupazioni legittime ed anche opportune al di là degli inutili allarmismi e dei dati statistici, su cui nutro non poche perplessità e che, a mio giudizio, non fotografano con obiettività la pur difficile situazione economico-sociale italiana.

In questo periodo ferragostano è giusto non farsi prendere dalla frenesia delle vacanze a tutti i costi, rimuovendo fanciullescamente i gravi problemi che incombono e che si ripresenteranno puntualmente al ritorno dalle ferie. E questi gravi problemi non hanno proprio niente a che vedere con le multe a chi va in bikini a passeggiare sul lungomare di Viareggio o con le insulse diatribe sui bermuda e la loro ammissibilità a cena nei ristoranti di livello.

Si va da un’estremità all’altra: da una parte sembra che l’Italia stia precipitando nella miseria più nera, dall’altra appare un’Italia dove si possono rincorrere questioni di eleganza e di stile nelle località di villeggiatura. Un Paese double face con l’alternanza di serie preoccupazioni e di assurde e chiccose quisquiglie d’immagine. Ce n’è per tutti i gusti.

In mezzo batte il vero polso della situazione abnorme e deprimente: la sala operativa del 112 di Roma, non risponde, parte il disco con un interminabile “rimanga in attesa”, nel frattempo un uomo muore e i soccorsi che non arrivano, scoppia la solita polemica, partono le inchieste, resta un senso di amara impotenza di fronte ai più elementari inadempimenti pubblici, scatta l’ansia di essere in balia di una burocrazia perfidamente inefficiente e reiteratamente menefreghista.

Questi sono i dati veramente angoscianti: come si potrà uscire dalla crisi, come riusciremo a dare lavoro ai giovani, come faremo a riscattare tanta gente dalla povertà, come potremo garantire a tutti un reddito dignitoso, se non riusciamo neanche a prestare tempestivamente soccorso a chi sta morendo e a rispettare i diritti fondamentali dei nostri cittadini e degli uomini e delle donne (bianchi, neri, gialli, rossi, etc.) che ci chiedono di vivere e di non morire?

Possiamo scappare dalla realtà e baloccarci con il rispetto dell’estetica e del buongusto: divertimento innocuo per cittadini scemi e per media anestetizzanti.

 

 

L’ipocrisia dell’emergenza e della legalità

Una bella vignetta apparsa sul quotidiano Avvenire fotografa molto acutamente la situazione emergenziale italiana. Su una scialuppa di salvataggio tre naufraghi aspiranti immigrati si scambiano alcune parole. Uno di essi dice: «Le mafie in Italia hanno un fatturato di oltre cento miliardi di euro». Il secondo gli risponde: «E poi l’emergenza saremmo noi…». Il terzo prende atto.

Enzo Bianchi, fondatore della comunità di Bose, guarda in faccia la realtà e sostiene: «Non è “emergenza” il fenomeno dei migranti – richiedenti asilo o economici – che in questa forma risale ormai alla fine del secolo scorso e i cui numeri, sia assoluti che percentuali, sarebbero agevolmente gestibili da politiche degne di questo nome. (…) L’emergenza riguarda la nostra umanità: è il nostro restare umani che è in emergenza di fronte all’imbarbarimento dei costumi, dei discorsi, dei pensieri, delle azioni che sviliscono e sbeffeggiano quelli che un tempo erano considerati i valori e i principi della casa comune europea e della “millenaria civiltà cristiana”, così connaturale al nostro paese».

In questi giorni, mentre riempiamo la bocca e le pagine di legalità miserevolmente contrapposta alla solidarietà verso i migranti, a Licata, nel cuore della Sicilia, il sindaco, che da mesi viveva sotto scorta dopo essere stato minacciato, aggredito, dopo aver subito ben due incendi alle sue case, per la sua battaglia contro gli edifici abusivi, viene sfiduciato dal consiglio comunale con un autentico colpo di mano a cui sembra abbiano addirittura partecipato alcuni consiglieri in odore di abusivismo. Un vero e proprio incredibile soccorso politico alla rovina territoriale, che oltretutto si ritorce contro di noi, quando la realtà naturale mette a nudo la nostra fantasia criminale.

È più illegale un povero diavolo che si rifugia in Italia senza avere i documenti in ordine o un italiano che difende a spada tratta la sua proprietà abusiva magari opportunamente difeso dalla politica (i cinque stelle sembrano vaneggiare e addirittura teorizzare e difendere “l’abusivismo di necessità” in cerca di consensi per le prossime elezioni regionali siciliane). Abusivi di necessità ok, scempi edilizi sanati, immigrati di necessità a casa loro: questa è la nostra legalità.

Poi arriviamo a Foggia e si squaderna davanti a noi una situazione di vera propria guerra mafiosa a suon di droga, estorsioni, delitti, lupare bianche, faide tra clan, omicidi, di fronte a uno Stato assente, che manda precipitosamente il suo pur bravo ministro degli interni ad assicurare una risposta durissima agli attacchi della delinquenza organizzata. Mafiosi tollerati, clandestini criminalizzati: questo è il concetto di legalità che abbiamo.

Ognuno vede l’emergenza dove gli fa più comodo. Ognuno difende la legalità a suo modo. Le contraddizioni sono evidentissime e tali da svergognare gli improvvisati tutori del (dis)ordine umanitario, ma anche legalitario.

Termino citando ancora Enzo Bianchi: «Sragionare per slogan, fomentare anziché capire e governare le paure delle componenti più deboli ed esposte della società, criminalizzare indistintamente tutti gli operatori umanitari, ergere a nemico ogni straniero o chiunque pensi diversamente non è difesa dei valori della nostra civiltà, al contrario è la via più sicura per piombare nel baratro della barbarie, per infliggere alla nostra umanità danni irreversibili, per condannare il nostro paese e l’Europa a un collasso etico dal quale sarà assai difficile risollevarsi».

I calci della giustizia asinina

Adesso basta! Che l’intento indagatorio della magistratura arrivi a mettere nel mirino un prete, don Mussie Zerai accusato di favoreggiamento nei confronti dell’immigrazione clandestina, è clamorosamente fazioso e sinceramente intollerabile. Il capo d’accusa è talmente generico da mettere i brividi. Stiamo arrivando al reato d’opinione, anzi al reato di solidarietà. Cosa vuol dire favorire l’immigrazione? Certo, favorisce l’immigrazione chi si sente in coscienza di aiutare gente disperata a fuggire dal proprio paese, non per fare una passeggiata turistica o una missione terroristica, ma per cercare uno spazio vitale di cui ogni persona umana ha il sacrosanto diritto, che viene assai prima delle fisime giudiziarie dei procuratori x e y.

E cosa significa immigrazione clandestina? La fuga dalla fame, dalla tortura, dalla guerra, dall’oppressione, è di per sé clandestina, deve ricorrere necessariamente, per cause di forza maggiore, alla clandestinità: non si può fare domanda in carta bollata, mettersi disciplinatamente in fila e aspettare di morire per fare piacere ai pruriti garantisti di chi vuol chiudere gli occhi di fronte a un fenomeno enorme e di proporzioni bibliche.

Mi sono sempre detto: se mi si rivolge, per chiedere aiuto, un immigrato che vive nella clandestinità, non lo denuncerò mai e poi mai, con buona pace di ogni e qualsiasi procuratore della Repubblica.

Questo prete eritreo, tra l’altro candidato al premio Nobel per la pace nel 2015, aiuta da vent’anni i suoi connazionali a scappare dalla guerra, dalla violenza e dalle torture. Il solo fatto di metterlo sul banco degli imputati (non in quanto prete e/o personaggio noto, ma in quanto persona schierata a favore dei poveri) mi fa letteralmente ribrezzo. Se nel corso del tempo si fosse eventualmente macchiato della colpa di aggirare qualche ostacolo, operando ai limiti della legalità, avrebbe tutta la mia approvazione: non ci si può immergere in certe realtà con il codice in mano, bisogna tenere in mano il Vangelo, se uno è cristiano, oppure farsi guidare dalla coscienza. Queste sono le vere obiezione di coscienza che mi convincono, non quelle di comodo di chi non si vuole sporcare le mani navigando in un mare di merda.

A don Gallo un importante Cardinale fece alcuni appunti sul modo di testimoniare la fede. Don Gallo si difese citando il Vangelo. Il Cardinale reagì stizzito dicendo: «Se la metti su questo piano…». Al che don Gallo ribatté: «E su quale piano la devo mettere?».

Proviamo a riportare l’episodio al discorso dell’aiuto ai migranti e vedremo che il conto torna perfettamente nel senso dell’assurdità delle indagini. Don Mussie Zerai dovrebbe rispondere: «Cosa dovevo fare di fronte a situazioni disperate? Girarmi dall’altra parte per paura di contravvenire a qualche assurdo obbligo di legge? Non posso non aiutare chi sta sprofondando nel fango perché qualche schizzo potrebbe sporcarmi!». Sta dicendo infatti cose di questo genere con una certa energia. Fossi al suo posto, ne direi di ben più pesanti e irriguardose nei confronti della politica e della giustizia (?).

A far del bene agli asini si prendono i calci, ma qui stiamo andando ben oltre i calci dei beneficiati, arriviamo alle indagini della magistratura, che finiranno sì in una stupida bolla di sapone, ma che rischiano di fare opinione. “Indagato l’amico di Laura Boldrini” ha titolato qualche giornale, di quelli che su Berlusconi non si poteva e doveva indagare, su don Mussie Zerai invece…

Cosa vuol dire tutto questo? Siamo al reato di amicizia con chi sostiene politicamente una linea di accoglienza verso gli immigrati? Reati di solidarietà, di amicizia! Roba da matti. E il Consiglio Superiore della Magistratura assiste imperterrito a questo scempio del buon senso, a questi autentici ribaltoni della spirito solidale in nome di una fantomatica legalità (quella di chi non vuole essere disturbato). Se è questo il modo di onorare la memoria dei Falcone e dei Borsellino…

Basti aggiungere che in questi giorni il leader della Lega Matteo Salvini ha mandato un avvertimento a Roberto Saviano, autorevole sostenitore di una linea solidaristica sul problema immigrazione: se la destra andrà al governo gli ritirerà la scorta, a lui concessa per i pericoli riguardanti le sue battaglie contro la mafia. Autentiche ritorsioni in una guerra all’ultimo voto e all’ultimo naufrago.

Se andiamo avanti di questo passo dovremmo arrivare ad indagare papa Francesco: qualcuno, che sta rozzamente teorizzando che la Chiesa dovrebbe interessarsi dei cristiani e non dei migranti, lo sta già facendo. Molti volevano un papa che desse una scrollata caritativa alla Chiesa: adesso che la scrollata è in atto e sta facendo proseliti, certi benpensanti si accorgono che il cristianesimo, se esce dalle sacrestie, è scomodo e provocatorio. Meno male!

La squadra …e la città del “non gioco”

Cosa mi sta succedendo? Mi allontano dalla politica e mi riavvicino al calcio? Paradossi della mia terza età? No, solo la voglia di rilassarmi uscendo dalla mia ipercritica torre d’avorio. Forse per mettere a posto la coscienza, in senso famigliare e sociale, ho ripreso da qualche tempo a seguire, seppure a distanza, la squadra del Parma calcio. Perché famigliare? Si tratta di una eredità paterna, una sua debolezza piena di significato e di insegnamenti. Perché sociale? Sempre meglio legare il calcio alle vacche magre della comunità locale piuttosto che rincorrere il vomitevole mercato delle vacche grasse.

E allora parliamo un attimo di questo Parma calcio riveduto e rilanciato. Non mi hanno convinto le scelte societarie durante lo scorso campionato: tuttavia i risultati mi hanno dato torto, c’è scappata la promozione in serie B. Non mi convince l’assetto della squadra approntata per la serie B e non vedo molta convinzione a livello societario e nemmeno a livello della tifoseria. Spero di essere smentito dai fatti.

Ripesco dalla memoria un giudizio che mio padre formulava sconsolatamente sulla squadra di calcio parmense. Le voleva bene, la seguiva con interesse e partecipazione, non ci faceva una malattia, ma tifava e soffriva in silenzio. Alla fine spesso concludeva con un’amara constatazione tecnica (lui che non si avventurava mai in critiche ad allenatori): «Il Parma, diceva, può vincere o perdere, ma il fatto è che non ha un gioco…le altre squadre possono essere migliori o peggiori, ma comunque hanno un loro schema di gioco…».

Dopo la faraonica sbornia “tanziana”, che in un certo senso non fa testo, siamo tornati coi piedi per terra e il Parma, come diceva mio padre, si ritrova senza un gioco. Qualcuno si accontenterà dei risultati, che finora non sono mancati: in due anni dalla famigerata quarta serie alla dignitosa e interessante serie cadetta. Ma se questi traguardi non sono accompagnati e conquistati col gioco, che senso ha appassionarsi al calcio che è il più bel gioco del mondo? Il Parma gioca male? Direi, alla luce di quel che ho potuto vedere dalle cronache televisive (è poco ma sufficiente): non gioca, salvo qualche raro sprazzo, più personale che di squadra.

Ricordo di avere interrotto il mio seguito al calcio parmense nel pieno dell’avventura della serie A: si giocava una partita di cartello e mi ritrovai a soffrire per il risultato in bilico. Mi scossi e pensai: soffro? Ma per chi soffro? Per la mia squadra? No, per la squadra di Tanzi, legata ai suoi interessi imprenditoriali!. Basta e avanza… Fui, in un certo senso facile profeta. Non bastò il fascinoso e perbenistico afflato di Nevio Scala, uomo di grande levatura morale e di forte sensibilità umana e sociale.

Ricominciare dal basso mi ha sdoganato dai sistemici propositi contestatori. Nelle serie minori mi ritrovo a casa mia anche se non ho ancora avuto il coraggio di rimettere piede allo stadio Tardini. Sono un perdente, non mi interessa vincere, mi piace divertirmi in modo semplice e pulito. Ma se non si gioca, casca l’asino.

Così come il Parma di Tanzi era specchio fedele della megalomania della città, l’attuale Parma del non gioco assomiglia molto alla città della non politica. E dalli con questo tasto. È più forte di me…Anche se la politica voglio farla uscire dalla porta, eccola rientrare dalla finestra. Tutte le occasioni sono buone. Forse però è meglio parlarne in piazza anziché allo stadio. Ci penserò.

 

Quel mercato che non esiste

Non per fare il bastian contrario, ma negli accordi di cartello fra imprese concorrenti all’assegnazione di importanti appalti non ci trovo nulla di strano e tanto meno di delinquenziale a prescindere. Innanzitutto bisogna smetterla di fare i puristi della libera concorrenza: essa non esiste o meglio esiste in teoria, ma non nella pratica. Esisterebbe se il mercato, altro mito liberista, potesse essere fatto dalla domanda, ma in realtà è l’offerta di beni e servizi che crea e condiziona il mercato. E allora dalla libera concorrenza si passa inevitabilmente a regimi di monopolio o più realisticamente a situazioni di oligopolio. Questa è economia politica da scuola media superiore: i giornalisti e i commentatori politici vantano fior di lauree, ma incespicano in queste lapalissiane analisi.

Non basta quindi creare una forte concentrazione della domanda a livello di pubblici appalti (la tanto chiacchierata Consip voleva costituire un’unica stazione appaltante al fine di ottenere vantaggiose condizioni nell’assegnazione dei servizi riguardanti gli enti pubblici di vari comparti e di varie zone), perché dall’altra sponda, quella dell’offerta, si reagisce tendendo a spartirsi la torta senza bisogno di smagrirla eccessivamente.

Fin qui le regole di mercato. Altro è il discorso della corruzione o della concussione, vale a dire l’ottenimento tramite mezzi illeciti (danaro o altri favori) di appalti truccati e/o tagliati su misura dell’impresa X o Y. Nel groviglio degli appalti risulta difficile capire dove sta il lecito e l’illecito, non per questo tutto è da considerare illecito gridando sempre e comunque allo scandalo. Il giustizialismo non fa un buon servizio ai corretti assetti economico-finanziari: squalifica tutto e finisce col riportare tutto nella norma. È perfettamente inutile dimenticare che viviamo in un sistema capitalistico, che, purtroppo non ha alternative credibili (la storia lo ha dimostrato) e con esso bisogna fare i conti non a colpi di sentenze, ma di riforme.

In fin dei conti la sfida democratica sta in questo: chi interpreta la democrazia come semplice reggitrice del moccolo al potere economico, chi la punta come condizionatrice del sistema, a monte e valle. Non c’è posto per l’anticapitalismo delle Brigate Rosse e non vi è possibilità per l’illegittimazione ante litteram (delle varie autorità anti-qui e anti-là). In mezzo c’è la politica: è compito suo districarsi nel labirinto, tra ricette relative di destra e di sinistra, tutte comunque discutibili anche a seconda delle congiunture.

E allora ci dobbiamo rassegnare alle ingiustizie, agli squilibri, alle iniquità del mercato? No di certo, ma interrompiamo la ricerca delle scorciatoie teoriche che non esistono, per dedicarci pazientemente alla politica che è l’arte del possibile, lasciandoci possibilmente guidare da certi valori, non gridati solo e tanto dalle e nelle indagini, ma perseguiti concretamente e convintamente. Si tratta anche, al di fuori della bagarre personalistica, del nodo focale di una politica di sinistra che voglia uscire dai nominalismi e dalle utopie: non è di sinistra D’Alema perché accarezza la pancia al ceto medio impoverito e non è di destra Renzi perché detassa la proprietà immobiliare; soprattutto non è di sinistra chi vuole brandire l’arma fiscale e non è di destra chi vuole alleggerire il peso tributario. Bisogna ragionare…Non è facile. E chi mai ha potuto pensare che fare politica sia facile?

Sarà la stanchezza del caldo africano, sarà la superficialità dei media, sarà il tempo che trascorre, ma la demagogia non riesco a sopportarla. Molto meglio, tutto sommato, quella di un tempo, quella delle ideologie. Almeno si partiva dalla teoria per forzare la pratica. Oggi si forza la pratica per arrivare alla teoria.

 

Democrazia soffocata da rigore burocratico e stanchezza etica

La questione delle Organizzazioni non governative impegnate nel soccorso ai naufraghi si sta facendo molto seria e profonda. La volontà di imbrigliarle, l’accanimento inquisitorio nei loro confronti, il subdolo tentativo di generalizzarne gli eventuali errori sono fatti inquietanti oltre che sintomo di grave interferenza, che non mi sento di circoscrivere ai modi di affrontare l’emergenza migranti. Non penso sia solo un problema su come meglio combattere gli scafisti. Non credo nemmeno sia una faccenda dei rapporti tra Stati europei ed UE, tra UE e Paesi africani, tra Paesi africani e mondo occidentale. È tutto questo, ma è qualcosa che viene prima di tutto ciò e va oltre ciò: siamo alla cultura del rapporto aperto e costruttivo dell’individuo e le sue libere associazioni con lo Stato. Si tratta di un vero e proprio oscurantista soffocamento della democrazia tramite un distorto e burocratico concetto di legalità.

L’emergenza migranti scopre il nervo della mano pubblica incapace, a monte e a valle, di affrontare le più drammatiche e spinose situazioni sociali, ma nello stesso tempo velleitariamente e presuntuosamente portata a dettare le strette regole a cui devono attenersi i soggetti privati disposti a offrire e ad aprire la loro consistente mano. Emerge una sorta di prevenuta chiusura dei tradizionali organi dello Stato verso chi opera, è proprio il caso di dirlo, in mare aperto: tutti col fucile spianato a cercare le mani sporche di chi è disposto a sporcarsele; tutti a giudicare e squalificare chi non può formalizzarsi; il discorso migranti è diventato un processo alle ong ed ai loro comportamenti, ma anche e soprattutto ad un modo aperto e solidale di impostare e vivere la società.

Da una parte tutto diventa pretesto per far naufragare assieme ai migranti la cultura dell’accoglienza, riducendola magari alla opzione illusoria del buonismo a tutti i costi: non ci sta, non fosse altro perché le critiche piovono non tanto su chi fa chiacchiere da salotto buono, ma su chi si butta nella mischia e si impegna concretamente.

Da un’altra parte è sempre in agguato la mentalità di chi ritiene monopolio assoluto dello Stato (non) affrontare e risolvere le questioni più delicate e complicate: della serie “ma chi ve lo fa fare, ci pensi lo Stato”. È la teorica anticamera alla triste concretezza dell’egoismo individuale e al penoso tran tran burocratico.

Da un’altra parte ancora vi è chi vuol segnare a tutti i costi il primato dello Stato, che copre i propri limiti imponendone di assurdi, o quantomeno esagerati, agli altri soggetti disposti a scendere in mare.

Fatto sta che è in atto un paradossale giro di vite su un mondo che volontariamente e liberamente opera in situazioni di incredibile difficoltà e disagio: si sta usando la lente di ingrandimento per sputtanare le ong e si sorvola su tutto il resto; affiora sempre più una stanchezza etica che trova riscontro in questa intransigenza pelosa e strumentale.

Il passaggio è molto delicato sul piano culturale oltre che politico: se passa la concezione di una società schematicamente allineata e coperta, è la fine! Non è tanto e non solo questione di destra e sinistra, qui si gioca il modo di essere della società stessa, la sua apertura ai bisogni ed alle soluzioni. Giorno dopo giorno si abbassa la saracinesca: i sindaci per difendere le loro comunità, i magistrati per difendere la scrupolosa osservanza della legge, i politici per raccogliere consensi, le istituzioni per salvare la faccia, i razionalisti per regolare i flussi, i garantisti per sbaragliare gli scafisti, i razzisti per salvaguardare la nostra (in)civiltà, i realisti per sminuire, sfrondare e allontanare la disperazione che ci interpella.

Sarebbe una tragedia se passasse l’idea del perfezionismo del nulla fare, della pace dei sepolcri, dell’ordine nel disordine, del si salvi chi può: vincerebbe la regola che viene prima del bisogno, il sabato che viene prima dell’uomo, il distinguo prima della tragedia.

Il calore della discussione e la freddezza dell’indifferenza

Strana la nostra città e altrettanto strana la nostra diocesi. L’amicizia e la gentilezza di mons. Domenico Magri mi consentono di leggere con grande interesse i profili da lui appassionatamente tracciati di tanti sacerdoti, che hanno fatto la storia della Chiesa di Parma. Pur sgrossando tali ricordi dall’inevitabile enfasi e da un certo automatico stile agiografico, emerge da questa viva memoria storica uno spaccato ecclesiale di grande vivacità culturale, sociale e religiosa.

Dopo avere letto queste toccanti e profonde rivisitazioni mi viene spontaneo chiedermi: perché tanta apparente discontinuità tra un passato fervido e vivace e un presente così asciutto e statico. Ho una mia spegazione del tutto personale. È pur vero che le apparenze ingannano e quindi è possibile che del passato emerga un’immagine esageratamente positiva così come del presente emerga una fotografia smorta e opaca. Alti e bassi nella vita di una comunità non sono l’eccezione, ma la regola e penso sia così anche per una comunità cristiana. In fondo credo che la memoria della prima comunità cristiana emergente dagli Atti degli Apostoli sia un po’ troppo elogiativa e celebrativa: si intravedono tuttavia qua e là contrasti, divergenze e discussioni, cose normali e oserei dire positive. D’altra parte lo stesso papa Francesco dice: «Per favore, che nelle vostre comunità mai ci sia indifferenza. Comportatevi da uomini. Se sorgono discussioni o diversità di opinioni, non vi preoccupate, meglio il calore della discussione che la freddezza dell’indifferenza, vero sepolcro della carità fraterna».

Temo proprio che la differenza tra passato e presente, riferita alla diocesi di Parma, sia questa: il passato, pur tra le “stecche” di contraddizioni ed errori, alcuni anche gravissimi, veniva riscattato dagli “acuti”, dai “do di petto” di parecchi sacerdoti. L’opera poteva essere monotona e persino insopportabile, ma sul più bello arrivavano certi interpreti che salvavano la baracca col loro coraggio e con la loro lungimiranza. Il presente è invece piattamente e tiepidamente allineato e coperto, non si sentono voci discordanti, nessuno stona perché nessuno canta ad alta voce, tutti, o quasi tutti, solfeggiano e se la cavano senza infamia e senza lode.

La storia di Parma e della sua Chiesa viaggiano in parallelo: le morbide convergenze dello status quo. E non c’è verso di schiodare la diocesi da questo insopportabile piattume. Mi auguro che sotto la crosta dell’immobilità qualcosa si muova: è infatti difficile valutare la consistenza e la vitalità del regno di Dio, ma questo non deve essere un alibi per accontentarsi.

Non pretendo che tutti i sacerdoti di Parma abbiano la verve profetica e contestatrice di don Luciano Scaccaglia. Qualcuno mi dirà che don Scaccaglia ha commesso degli errori. E chi non ne commette! Non si tratta di giudicare e di dare i voti, ma di recuperare un atteggiamento, uno stile vivace e innovativo. È qui che la nostra diocesi lascia alquanto a desiderare. Non voglio tuttavia dare la colpa solo al vescovo ed ai sacerdoti. Sarebbe scorretto e comodo. I laici si devono prendere tutte le loro responsabilità. Il brutto è che se ci spostiamo sul laicato lo troviamo ancor più asfittico e “passo” del clero. Una cosa è certa: diamoci tutti una mossa, guardiamo indietro al fine di prendere la rincorsa. Poi magari cadremo, scivoleremo, ci stancheremo, ma avremo la spinta per andare avanti.