I cannoni e gli idranti

Alla fine degli anni sessanta-inizio anni settanta ricoprivo la modesta carica di segretario di una sezione Dc, nota per il suo orientamento di sinistra (una sezione Vietcong, si diceva allora). Durante una riunione venne fuori il discorso del disarmo della polizia, peraltro nei conflitti di lavoro: si alzò un iscritto e gridò a gran voce che lui alla polizia avrebbe dato i cannoni ed ebbe un seguito tale da riportare in breve tempo la sezione nelle rassicuranti mani della destra democristiana. Anche allora si speculava sulla paura della gente, non c’era il problema dei profughi, c’era il sessantotto con tutte le sue proteste studentesche ed operaie. Anche allora si fomentava l’ansia sociale per tradurla politicamente in reazione e conservazione.

La polizia respira questo esagerato desiderio di ordine e traduce, anche oggi checché ne dica il suo coccodrillesco capo Franco Gabrielli, questo sentimento in comportamenti esageratamente e spropositatamente forti: gli idranti contro i disgraziati che non sanno dove trovare un rifugio e occupano fabbricati e suolo pubblico. I benpensanti sostengono che la polizia deve far rispettare la legalità e infatti il prefetto, anzi la prefetta, di Roma ha dato l’ordine di sgombrare un palazzo in parte occupato da profughi e disperdere l’accampamento di (s)fortuna nei giardinetti di piazza Indipendenza. Un poliziotto con i gradi avrebbe addirittura incoraggiato gli agenti a reagire con violenza ad eventuali provocazioni (“questi devono sparire, peggio per loro. Se tirano qualcosa, spaccategli un braccio”). Sono curioso di vedere quali provvedimenti disciplinari verranno adottati nei confronti di questo funzionario così solerte. Per fortuna a questo incitamento di stampo fascista (bisogna pur chiamare le cose col loro nome…) ha fatto da contraltare il gesto di un poliziotto, che ha consolato con una carezza una rifugiata messa in grave difficoltà dalle sgombero effettuato. Le autorità emanano ordini sbrigativi e sgradevoli, i superiori non si fanno scrupoli, per fortuna chi esegue riesce a trovare un po’ di umanità anche nel bel mezzo degli scontri: uno smacco per chi comanda, un piccolo, grande gesto di solidarietà da chi (non) ubbidisce.

Di quanto sostiene il capo della polizia condivido una cosa: i problemi andrebbero affrontati e risolti a monte. Può infatti essere comodo scaricare le colpe sulla polizia che usa le maniere forti per arginare le esasperate proteste di gente che non sa dove sbattere la testa. Prima di dare quello scriteriato ordine di sgombero il prefetto doveva tentarle tutte coinvolgendo, governo, amministrazione comunale e regionale, volontariato, diocesi, Vaticano, Papa, etc. etc, non con burocratiche missive, ma con generosi interventi umani. Non può lavarsi le mani sostenendo, in una intervista a dir poco meramente burocratica, che non tocca al prefetto trovare assistenza e ricovero: fino a prova contraria il prefetto rappresenta lo Stato e quindi ha il “dovere” di cercare e proporre soluzioni, non solo di ordine pubblico, ma di carattere sostanziale. Il ministro abbia il coraggio di verificare se questa prefetta abbia fatto tutto quanto era in suo potere per evitare questa bruttissima pagina dei rapporti fra Stato e rifugiati o richiedenti asilo eritrei ed etiopi. Il ministro tenga sulla corda i funzionari pigri e imboscati, smuova quella burocrazia che pensa di risolvere i problemi con una circolare o, peggio ancora, con interventi di forza (lo Stato quando vuole essere forte, è allora che si dimostra debole).

È possibile che non si riesca a sbloccare una situazione del genere, che non si riesca a trovare un ricovero, anche se provvisorio, per questa gente disperata? Il governante deve rispettare le leggi, ma prima delle leggi vengono le persone, prima degli ordini viene il cuore, prima degli idranti viene il dialogo, prima della forza viene la ragione, prima della paura viene la solidarietà umana.

Non vorrei che l’adozione di queste maniere forti risentisse del clima antiterroristico, che in realtà non c’entra niente, ma psicologicamente sta condizionando un po’ tutti. Il ministro Minniti sta cercando di affrontare l’emergenza immigrazione con grande impegno, bisogna dargliene atto. Ha individuato alcune linee di comportamento interessanti, concrete, anche se in parte discutibili e ancora tutte da realizzare e verificare. Non mi cada però su queste bucce di banana. Ci risparmi gli attacchi ai poveracci: non si può attaccare con violenza i profughi, gente che ha sofferto e soffre, non si può essere intolleranti verso le loro trasgressioni. Non faccia la fine di Giuliano Amato, suo illustre predecessore, che voleva “dichiarare guerra” agli accattoni e che si sentì rinfacciare giustamente la corruzione promossa dal suo partito e da lui sopportata pazientemente per anni quando era nel “taschino” di Bettino Craxi. Quella pazienza, che aveva riservato alle malefatte di tangentopoli, non voleva accordarla ai fastidiosi poveracci che stendono la mano.

Minniti, Amato e Craxi a parte, sforziamoci di buttare il cuore oltre l’ostacolo, lasciamo stare gli idranti e i manganelli, rientriamo tutti nella ragionevole volontà di considerarci e rispettarci reciprocamente come esseri umani.

Il costume di pietà della contessa Rai

Nel primo anniversario del terremoto nel Centro-Italia, che purtroppo ha coinciso con il terremoto di Ischia, si è scatenata un’autentica sarabanda commemorativa promossa soprattutto dalla Rai. Non so quale sia stato l’effetto sui terremotati e non ho idea quale possa essere stato quello sull’opinione pubblica. Personalmente ho vissuto queste occasioni in modo molto distaccato, quasi, paradossalmente, con fastidio: questo per diversi motivi.

Innanzitutto il pesante bagno mediatico ha prodotto solo una vuota e formale risposta all’insistente grido delle vittime sopravvissute al cataclisma: “Non lasciateci soli, non dimenticatevi di noi”. Durante queste trasmissioni mi sembrava di essere in quei crocchi di persone che durante i funerali fanno quattro chiacchiere in ricordo del morto: tutto solo ed esclusivamente per poter dire io c’ero.

In secondo luogo parlare, parlare, parlare, non vuol dire essere attenti e ancor meno condividere, ma solo, come sosteneva il caro amico Gian Piero Rubiconi nei suoi “sparpagliati pensierini”, dare libero sfogo ai ciarlatani del ricordo, agli sciacalli   che si avventano sulla morte degli altri per lucrare da essa qualche riflesso che illumini la propria scialba esistenza.

In terzo luogo la Rai sta passando da un’estremità all’altra: un tempo l’ingessatura dei programmi era tale da non lasciare spazio nemmeno ai terremoti, ora i terremoti diventano il leit motiv dei palinsesti. Il perbenismo dilaga persino nella pubblicità inondata da messaggi a favore delle organizzazioni che combattono la fame e la miseria nel mondo (basta un sms, dicono queste promozioni). Tutto ciò assume il sapore di una riverniciatina di coscienza che lascia il tempo che trova. Nell’opera lirica “Andrea Chenier” di Umberto Giordano, la contessa di Coigny, di fronte alla ribellione di un suo servo contro l’indifferenza della nobiltà sorda verso le miserie dei poveracci, dice con scandalizzato sussiego: «Ed io, che tutti i giorni facevo l’elemosina e a non fare arrossire di sé la povertà perfin m’ho fatto un abito, costume di pietà».

In quarto luogo queste occasioni sono passerelle per i soliti commentatori che portano i soliti argomenti: un gioco allo scaricabarile tra esperti, politici e scienziati. Se ne esce con la testa confusa e con niente in mano.

Quando sui campi di calcio si dedicava un minuto di raccoglimento al ricordo di qualche personaggio (succede anche oggi con ancora maggior enfasi), al termine di questa brevissima interruzione ripartiva immediatamente l’urlo dei tifosi per l’incitamento delle squadre. Mio padre allora, che non si lasciava mai sfuggire l’occasione per bollare la retorica, era solito borbottare: «I fan a la zvèlta a scordäros di mòrt…». Esistono però due modi per dimenticare: rimuovere dalla memoria o far finta di ricordare. Per i terremotati si sta adottando la seconda strada, che è ancor peggio della prima. Basta chiacchiere quindi e ognuno faccia tutto quel che può per aiutare chi è in gravissime difficoltà.

 

Il boom dell’illegalità

All’inizio degli anni sessanta, ancora bambino, mi trasferii con la mia famiglia da un vecchio e decadente immobile, sito nel cuore dell’oltretorrente, a un appartamento nuovo di zecca classificabile nell’edilizia economica e popolare, ma comunque, per l’epoca all’inizio degli anni sessanta, dotato di tutti i comfort.

Dopo qualche tempo ci accorgemmo che una stanza era in estate più calda delle altre: niente di strano, pensammo, sicuramente era la più esposta al sole e quindi nella stagione estiva accumulava il conseguente calore. Ci consolammo pensando che in inverno sarebbe stata la stanza più calda. Manco per sogno, nella stagione invernale era la stanza più fredda e quindi bisognosa di riscaldamento. Mistero che tentammo di spiegare con le correnti d’aria, ma mia madre acutamente ci fece osservare che dalla finestra di quel locale non entrava aria, era quasi protetta: anche quell’ipotesi fu scartata e per diversi anni ci tenemmo con rassegnazione quella stanza misteriosa e poco accogliente.

Negli anni ottanta, divenuto adulto, proposi ai miei famigliari di verificare la possibilità di inoltrare al comune domanda di condono per sanare con una piccola penalità eventuali irregolarità edilizie contenute nell’appartamento, che, peraltro, avevamo acquistato dall’impresa costruttrice. Diedi l’incarico ad un collega geometra che istruì la pratica: sapete qual era la maggiore irregolarità o anomalia? Un muro perimetrale era molto più sottile di quanto progettato ed era proprio il muro esterno della stanza misteriosa, che lasciava passare caldo e freddo molto più di quanto sarebbe dovuto succedere. Risolto l’enigma anche se quella camera continua ad essere ancor oggi la meno confortevole.

Il racconto di questo piccolo aneddoto ha lo scopo   di evidenziare come negli anni del boom edilizio si costruisse con una certa disinvoltura al limite dell’irresponsabilità, aiutati dalla scarsa attenzione degli enti controllori, preoccupati di incrementare il volano economico che l’edilizia rappresentava per l’intera economia: l’importante era costruire, dare una casa dignitosa a che non l’aveva, far lavorare la gente, far circolare il denaro, creare benessere economico.

E la gente dove trovava le risorse per acquistare i nuovi alloggi? Anche dai guadagni che realizzava col duro lavoro di una miriade di piccole aziende artigiane a carattere famigliare, nelle cantine e nei garage delle grandi città, senza pagare tasse e contributi. Lo Stato sapeva, ma chiudeva gli occhi, l’importante era produrre, creare ricchezza, mettere in circolo danaro, consumare e investire. L’economia così tirava ed il benessere infatti non l’hanno creato l’Iri, l’Eni, la Fiat, ma i lavoranti in nero nelle cantine di Milano, Torino, Genova, etc.

E l’agricoltura? Venne sostenuta con agevolazione e soldi pubblici: gli affittuari vennero aiutati a comprare i poderi su cui lavoravano e anche l’imprenditoria agricola ebbe una spinta notevole per chi voleva rimanere nelle campagne, mentre per chi preferiva l’aria di città era possibile lavorare nell’industria. Un benessere gonfiato,   che viaggiava sui binari dell’illegalità, sull’urbanizzazione selvaggia e sull’evasione fiscale, che otteneva aiuti di stato diretti e indiretti.

Nel meridione la mafia seppe naturalmente sfruttare queste opportunità e il divario nord-sud si accrebbe con l’inevitabile migrazione interna, foriera di problemi notevoli a livello sociale.

Quando ci chiediamo il perché del pressappochismo urbanistico causa di disastri, quando ci scandalizziamo per il vergognoso fenomeno dell’evasione fiscale che condiziona il ruolo dello Stato, quando ci stupiamo dell’illegalità diffusa che caratterizza la nostra società, pensiamo allo scriteriato benessere di cui abbiamo usufruito in passato, costruito sulle fragili basi di cui sopra. I terremoti che sgretolano il nostro patrimonio edilizio, il debito pubblico che frena la ripresa della nostra economia, la corruzione che succhia risorse distogliendole da fini ben più positivi ci dovrebbero costringere all’autocritica, riandando indietro nel tempo e smettendola di scaricare le colpe solo su chi governa ed ha governato.

Non sarà facile cambiare registro. Il boom economico non si ripeterà. L’illegalità ci distruggerà. Smettiamola di piangere sul latte versato e di cadere dalle nuvole. Partiamo dall’onestà intellettuale di ammettere gli errori commessi nello sfruttare le situazioni contingenti rinviando al futuro le difficoltà. Il conto sta arrivando e non lo possiamo ritornare al mittente, anche perché trattasi di un ragioniere spietato che butta tutto all’aria.

L’urlo dei musulmani e le bombe dell’imam

Dovranno urlare con molta forza i musulmani di Spagna e di tutto il mondo per coprire il rumore delle bombe artigianali scoppiate nel covo terroristico organizzato a Barcellona da un imam, morto assieme ad altri correligionari nell’esplosione di un appartamento imbottito di bombole di gas da far scoppiare in ben altri luoghi e situazioni, uomo investito quindi di un compito religioso, pressappoco un prete musulmano per dirla con il nostro linguaggio.

Pur ammettendo che parlare di terrorismo islamico tout court sia una forzatura, pur capendo, per quanto mi è possibile nell’ignoranza religiosa che mi ritrovo, che la dottrina islamica non sia di per sé un invito alla violenza contro i non credenti, pur concedendo ai musulmani tutte le attenuanti di un passato storico vergognosamente a loro ostile, pur spazzando via tutti i luoghi comuni costruiti sui collegamenti tra migrazione e terrorismo, pur considerando i contesti socio-economici che possono in qualche misura favorire il cosiddetto radicamento, premessa al fanatismo terroristico, pur tenendo conto che in tutte le religioni esistono dei margini di equivoco tali da innescare devianze fanatiche (nel Vangelo non direi proprio, semmai nella Bibbia che, infatti, senza lo sbocco evangelico perde la sua affidabilità), c’è qualcosa di equivoco e di estremamente imbarazzante nel comportamento religioso dei musulmani a cominciare proprio dai loro imam, personaggi, in parecchi casi, assai discutibili nella loro predicazione e nella loro testimonianza.

Ha ragione Fra Francesco Patton, Custode francescano di Terra Santa quando afferma autorevolmente: «Bisogna capire se davvero la religione è la motivazione reale della guerra. Lo scontro del Medio oriente, ad esempio, è tutto interno all’Islam, tra sunniti e sciiti. Dall’esterno possiamo incidere poco. È invece dall’interno del mondo musulmano che può e deve venire la spinta al cambiamento. Penso che questo sia un compito delle autorità religiose e delle istituzioni culturali. È accaduto così anche nel mondo cristiano. La spinta al rinnovamento del Concilio Vaticano II è venuta dall’interno della Chiesa. Solo dall’interno può maturare una concezione dell’Islam che ripudi la guerra».

Non basta quindi gridare in piazza che “questo non è Islam” con riferimento agli attentati terroristici, non bastano le lacrime sincere delle donne velate, non bastano le loro giuste paure per la vendetta che cova nell’animo occidentale, non basta contare le innumerevoli vittime musulmane provocate dai fanatici stessi (a noi occidentali, che facciamo i perbenisti, purtroppo fanno lo stesso effetto delle vittime all’interno delle faide mafiose), non basta ammettere che in tutte le famiglie ci sono le pecore nere (sarebbe meglio dire che in tutte le comunità ci sono le famiglie nere), non basta!

Occorre qualcosa in più, da parte dei musulmani, più o meno integrati nel nostro sistema, e da parte nostra, più o meno disponibili a vivere in una società multirazziale, multiculturale e multireligiosa. Dice ancora Fra Patton: «Se ci combattiamo a colpi di rivincite storiche non se ne esce più». I musulmani taglino quindi ogni e qualsiasi legame con lo storico astio post-coloniale, rispettino la civiltà delle popolazioni in cui si sono inseriti, abbiano il coraggio di modernizzare la loro religione e di toglierla dagli equivoci. Noi occidentali non smettiamo di dialogare, di aprirci, di convivere in pace con questi nostri concittadini (ius soli concedendo). Abbandoniamo i tatticismi della realpolitik, le sporche convenienze economiche, le paure globalizzate, le illusioni dei muri e delle barriere. Il dialogo non ha alternative: o così o così!

Errani humanum est

Se devo essere sincero non mi interessa e non capisco la polemica che si è scatenata intorno all’intenzione di Vasco Errani di rinunciare all’incarico di commissario per la ricostruzione di Amatrice e degli altri paesi distrutti dal terremoto di un anno fa: è nei suoi diritti considerare esaurito il suo compito, così come è lasciata alla sua libertà personale la decisione di candidarsi o meno nelle future liste di Mdp o della nuova formazione politica in gestazione tra gli scissionisti del Pd e gli unionisti di Giuliano Pisapia.

Non vedo nemmeno uno scandalo nell’eventuale combinazione fra i due fatti: abbandono del commissariato post-terremoto legato ad un rientro nell’agone politico a livello parlamentare. Cosa c’è di strano, di anomalo e di sconveniente? Direi proprio niente. Bisogna cominciare a smetterla con questo fastidioso e dannoso scandalismo: ovunque si vuol vedere la politica legata alla ricerca delle poltrone. Finire in questa deriva antipolitica   non aiuta certo a costruire, ma solo a distruggere.

Discorso diverso è la valutazione dell’operato di Errani a favore delle popolazioni terremotate: non ho sinceramente gli elementi per dare giudizi compiuti. Mi limito ad una impressione: non credo sia riuscito ad imprimere la giusta e necessaria velocità alle procedure volte alla ricostruzione; i ritardi ci sono, anche se possono avere mille giustificazioni burocratiche ed amministrative, qualcuno li ritiene incomprensibili, io li giudico inaccettabili.

In questi giorni mi è venuto spontaneo pensare ai tempi record con cui si restaurò il duomo di Milano: le tecnologie ci sono per fare in fretta opere ben più complesse delle casette per i terremotati. È pur vero che si fece la giusta scelta di optare per case non meramente provvisorie, ma quasi definitive, tuttavia arriviamo lunghi, con ulteriori disagi e ansie per le popolazioni colpite.

Errani afferma di lasciare ai terremotati le basi per ricostruire: mi aspettavo sinceramente qualcosa in più delle basi, pur sempre indispensabili. Il suo è stato un compito arduo tra i lacci della burocrazia e la disperazione dei senza tetto: ammetto che non sia facile destreggiarsi in tal senso. Fare bene, fare presto e fare correttamente, una sfida improba dalla quale Errani non esce alla grande. Non so chi altri avrebbe fatto meglio di lui, che peraltro aveva l’importante esperienza del post-terremoto emiliano. Probabilmente si sarà sentito condizionato dalle solite procedure burocratiche e dalla paura di scivolare sulle bucce di banana degli appalti facili e della corruzione. Do atto a lui di avere accettato con coraggio un incarico ingrato e di essersi messo alla prova: non è poco in mezzo ad una classe politica di chiacchieroni e di faciloni. Però mi sembra che non si possa tracciare un primo bilancio lusinghiero.

Altra cosa la sua adesione politica al Mdp: non mi sarei aspettato da un uomo del concreto governare una rincorsa ideologica in compagnia dei Bersani e dei D’Alema. Ma questo è un altro discorso, che con i terremotati c’entra come i cavoli a merenda. Pur non essendo un apologeta dell’esperienza regionale del governo di sinistra, pur ritenendo che in questi decenni la sinistra a livello emiliano abbia soprattutto puntato a formare un establishment chiuso e abbarbicato al potere (gli striminziti risultati elettorali non possono essere scaricati sulle spalle di Matteo Renzi), ammetto che Vasco Errani ne sia uscito con un notevole bagaglio di esperienze. Spero quindi solo che non lo usi per fare mera copertura alla vecchia sinistra che (non) avanza.

Realpolitik e realterrorismo

A mio modesto parere la storia insegna che ogni forma di terrorismo fa leva, dal punto di vista culturale e sociale sul fanatismo, religioso o di altra matrice, ma per reggersi ha bisogno di appoggi politici ed economici, a volte espressi, a volte coperti.

Per stare in Italia pensiamo al terrorismo della destra eversiva, che portò alla catena di stragi, da piazza Fontana alla stazione di Bologna: si serviva di deliranti e nostalgici nazi-fascisti, ma poteva contare sulla complicità dei servizi segreti più o meno deviati e sulla “simpatia” della massoneria, rientrava cioè in un disegno eversivo che andava ben oltre i farneticanti progetti dei vari Freda, Ventura, Fioravanti e Mambro.

Possiamo fare riferimento anche al terrorismo di sinistra: le brigate rosse sul piano sociale portarono a compimento il percorso rivoluzionario dei gruppi extra-parlamentari, si collegarono culturalmente all’impazzimento dell’ideologia comunista ed anticapitalista, ma furono oggettivamente strumentalizzate dai paesi dell’Est europeo da una parte e dai complottisti americani dall’altra. Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro sono al riguardo molto eloquenti e significativi.

La verità non uscirà mai per due motivi molto semplici. Innanzi tutto i combattenti in campo a livello terroristico non ammetteranno mai di essere stati guidati e usati per scopi a loro estranei, addirittura, per certi versi, a loro nettamente contrari: la loro debacle culturale è dura da digerire, più dura di trent’anni di galera. In secondo luogo le forze tramanti nell’ombra non verranno mai alla luce in quanto aggrovigliate col potere, aggrappate ai sistemi e ai regimi e pronte a riciclarsi camaleonticamente col tempo e nel tempo.

Il discorso vale anche per il terrorismo cosiddetto islamico (definizione semplicista e scorretta). Sul piano culturale esso fa leva sulla fanatizzazione degli equivoci della religione islamica e sui retaggi di un insopprimibile e storico sentimento anticoloniale, dal punto di vista sociale sfrutta il disadattamento umano e il disagio di minoranze, situate, più psicologicamente che effettivamente, ai limiti della ghettizzazione economica della popolazione proveniente dai paesi islamici e non integrata nella nostra società.

Non c’è tuttavia Isis che tenga, terrorismo che si avvalga della facoltà di morire per la causa, senza appoggi economici, logistici, politici a livello internazionale. Certi Paesi islamici foraggiano e sostengono questo radicalismo terrorista perché fa loro da scudo e da alibi, tiene loro calde le folle, li accredita come difensori dell’Islam, fa per loro conto il lavoro sporco che consente il mantenimento degli equilibri di potere a livello mondiale, li protegge dai rischi di svolte democratiche (le varie spontanee primavere democratiche a cui succedono gli inverni teocratici).

Quando penso che l’Occidente non deve attestarsi sul presuntuoso convincimento di resistere al terrorismo senza cambiare nulla, mi riferisco proprio alla strategia diplomatica ed anche al filo dei rapporti affaristici con Arabia Saudita ed altri Paesi di questa area geografica. Se non avremo il coraggio di recidere questi legami, continueremo ad allevarci le serpi in seno. La condanna petrolifera incombe sul nostro capo. Donald Trump, da provetto imbecille diplomatico, non a caso si è spinto ancor più avanti nei rapporti con l’Arabia Saudita, ne ha conclamato il ruolo, ne ha colto le sporche opportunità economiche. I giochi sono tutti aperti e coperti. La caduta dei blocchi, la fine della guerra fredda, il rimescolamento delle carte hanno reso inestricabile la matassa dei rapporti internazionali, all’interno dei quali trova buon gioco il terrorismo islamico quale elemento impazzito ma non troppo.

È inutile far finta di scandalizzarsi perché l’Italia ha ripristinato il collegamento con l’Egitto al di là delle responsabilità di questo Paese per l’uccisione del nostro connazionale Giulio Regni. E gli Usa non facciano i saputelli della situazione. Non si può andare contro questi Stati, anzi vi è chi autorevolmente ipotizza di utilizzare questi rapporti border line per combattere o almeno contenere il terrorismo. Pie illusioni della realpolitik.

Se è vero come è vero che l’errore più clamoroso è stata la bushiana e ingiustificata invasione dell’Iraq, se è vero come è vero che la sbornia guerrafondaia anglo-francese sfogatasi contro la Libia di Gheddafi è stato un autentico disastro diplomatico, non possiamo tuttavia pensare di destreggiarci tra un dittatore e l’altro, per difenderci dal terrorismo dilagante. Bisogna avere il coraggio di fare scelte di campo, non per dividere il nemico ma per cambiare il campo di gioco. Nel calcio devono sussistere gravi motivi per disporre l’inversione di campo. I gravi motivi ci sono e allora…

No al carcere contro la vita

Sento forte l’obbligo di coscienza di affrontare il tema del carcere, delle pene carcerarie e della rieducazione del condannato. Facendolo voglio dare atto al partito radicale di riuscire ad affrontare queste delicatissime problematiche coniugando legalità e solidarietà alla luce della Costituzione italiana.

La pena consiste nella privazione della libertà e non ha nulla a che vedere con la situazione carceraria fatta di sovraffollamenti, di situazioni invivibili,   di lunghe carcerazioni preventive, di incompatibilità tra malattia e carcere, di condizioni inumane di vita che spesso portano a gesti estremi.

Da tempo i radicali portano avanti lotte non violente per ottenere il rispetto dei diritti dei carcerati: non sta scritto da nessuna parte infatti che il carcere debba trasformarsi in una tortura fisica e psicologica.

Tutto rientra o almeno dovrebbe rientrare nel dettato costituzionale, che all’articolo 27 recita: « L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte».

La Costituzione, non solo in questo articolo, viene sistematicamente violata: l’abuso della carcerazione preventiva su persone, che oltre tutto in gran quantità vengono poi addirittura assolte dai reati loro ascritti; le modalità di esecuzione della pena sono spesso inumane, basti pensare alle celle in cui vengono stipati i condannati come fossero polli d’allevamento; la pena di morte esiste indirettamente, se tanti carcerati arrivano a suicidarsi per le condizioni disperate in cui versano al di là dei loro rimorsi di coscienza; la rieducazione del condannato è un obiettivo più teorico che pratico dal momento che i carcerati vengono tenuti in cella ad oziare e non hanno spesso alcuna occasione di lavoro e di impegno interno o esterno.

Non tutte le carceri sono uguali, ma comunque la situazione è sostanzialmente e prevalentemente questa, salvo poi esagerare, a volte, con la concessione di permessi troppo generosi, a volte addirittura ingiustificati: o troppo o niente… Il concetto di rieducazione, ad esempio, è legato più al trascorrere del tempo che all’effettiva e provata volontà del reinserimento: le chance dovrebbero consistere nella possibilità offerta al condannato di accettare un percorso di concreto recupero, una specie di contrappasso che significhi il riscatto progressivo dalla mentalità delinquenziale. Certe facili concessioni servono solo a scatenare le ire della gente e soprattutto quelle dei familiari delle vittime ed a squalificare tutto il sistema delle pene alternative, dei permessi e delle semilibertà.

Sempre e comunque meglio abbondare nel senso del graduale superamento della carcerazione piuttosto che incollare i detenuti a celle fatte apposta per incattivire il loro animo e prepararli alla reiterazione dei reati. La società civile non deve cercare una vendetta, ma la giusta punizione accompagnata dalla possibilità del riscatto: discorsi difficili, ma essenziali in un sistema democratico.

Mi ha favorevolmente impressionato la notizia che i detenuti, aderendo alle lotte non violente dei radicali, scendano in sciopero della fame chiedendo di destinare i loro pasti ai poveri: è gia un bel passo verso la rieducazione.

I media spesso fanno la loro parte nel creare un clima reazionario da “chiudi la cella e butta la chiave”. Molti parlano di carcere senza avere conoscenza del fenomeno e del problema, si fanno fuorviare dall’idea che la vita carceraria sia, tutto sommato, una mezza pacchia. La realtà carceraria va considerata con molta serietà e delicatezza: non si tratta infatti di regalare vacanze premio ai killer, di ripiegare su un buonismo da strapazzo, ma di rispettare la persona umana anche se condannata a una pena detentiva e soprattutto di offrirle la possibilità di riscattarsi e reinserirsi. Sono contrario al carcere a vita, figuriamoci a quello che va contro la vita.

Il terrorismo che ci interpella

All’attentato terroristico di Barcellona ha fatto seguito il solito fastidioso diluvio di parole stucchevoli, retoriche e scontate. Un tempo i palinsesti erano ingessati e non si smuovevano nemmeno di fronte ai cataclismi, oggi tutte le reti televisive si buttano a pesce sulle cronache del dopo attentato alla ricerca di audience e con il contorno di raffiche di commenti   superficiali sparati con il copia incolla. La cronaca per scovare il testimone oculare, l’immagine choccante, con tanto di gara al macabro bilancio di morti e feriti; i commenti volti alla riproposizione dei ritornelli del nulla. Non si trovano nemmeno parole di pietà per le vittime, sommersi come siamo da un profluvio di parole vuote che consentono solo di dare aria ai denti cariati.

Tra le tante riflessioni a macchinetta la più ripetitiva e vuota mi è sembrata quella del “non facciamoci condizionare e non cambiamo il nostro stile di vita”. Ormai al lungo elenco dei luoghi comuni possiamo tranquillamente aggiungere il presuntuoso refrain occidentalizzante: si dice, di fronte a questi fatti drammatici e sconvolgenti, una cosa è certa, noi non dobbiamo cambiare niente. Non fosse altro che per sfogare la mia propensione ad essere bastian contrario, mi viene spontaneo, magari istintivo, pensare: forse sarebbe il caso di cambiare tutto, non per darla vinta ai terroristi, ma per migliorare un mondo che fa acqua da tutte le parti e di cui il terrorismo sta diventando la paradossale contestazione globale, umanamente cruenta e dolorosa, culturalmente di comodo.

Dopo avere giustamente affermato di voler combattere il terrorismo, dopo averne condannato la delirante ideologia, dovremo pure chiederci il perché di tante cose, dovremo umilmente analizzare la storia passata e recente per individuare le colpe della civiltà occidentale, dovremo mutare equilibri a livello internazionale. Non si tratta tanto di islamizzare la modernità o di modernizzare l’Islam, semmai di umanizzare la modernità e l’Islam.

Ad esempio: personalmente sarei molto più intransigente sugli alibi religiosi dell’Islam deviato e deviante e sarei più autocritico sugli assetti socio-economici che dovrebbero consentire l’integrazione dei migranti di provenienza islamica. Mi pare invece che, tutto sommato, ci sia più disponibilità a sopportare gli eccessi pseudo-religiosi rispetto al perseguimento dell’apertura laica della nostra società. Della serie: meglio una moschea che non disturba più di tanto, piuttosto che un lavoro regolare “rubato” al nostro mercato. La moschea infatti ci dà l’alibi per sovrapporre Islam e terrorismo, migrazione e violenza, mentre il muro socio-economico ci permette di sfruttare i disgraziati nei campi, nelle bicocche, nei lager, con la falsa giustificazione dell’autodifesa degli autoctoni.

Discorsi grossi, difficili, compromettenti, meglio rifugiarsi nel corner delle intelligence che non funzionano, della regolazione dei flussi che sta diventando un respingimento bello e buono, dell’illusione di risolvere il problema a parole. L’Isis ha subito dei colpi fortissimi a livello militare, ma non vorrei che venisse ributtata nelle nostre strade la guerra che si è combattuta in Iraq e Siria. Forse continuiamo a sparare cannonate contro le mosche senza capire che per combatterle bisogna ripulire il nostro habitat a tutti i livelli.

Che queste riflessioni siano in grado di farle gli attuali potenti della terra ho seri dubbi. Proviamo a farle da cittadini del mondo più che da abitanti dell’occidente.

 

Pil, termometro per malati terminali

Se il Pil cala è un disastro; se inverte la tendenza, è solo un’illusione ottica; se aumenta appena un po’, non basta; se decolla, resta sempre al di sotto della media europea; se cresce più del previsto, non si traduce comunque in nuovo lavoro. Non è questione solo di faziosità politica, di gufaggine antigovernativa, di propaganda elettorale. Il problema è che non ci rendiamo conto come la ripresa economica non potrà avvenire senza una profonda reimpostazione della produzione: stanno cambiando i bisogni e la relativa domanda di beni e servizi; deve cambiare l’offerta e le relative modalità produttive.

Finora il consumismo aveva messo al centro del nostro (finto) benessere i beni: col tempo “la bestia” ha cominciato ad essere sazia, abbiamo continuato a darle da mangiare ed ha cominciato a vomitare. L’economia non è riuscita più a produrre e quindi si è rifugiata nelle chiacchiere della finanza: è come in una famiglia, quando non si sa come fare a sbarcare il lunario, si cercano di cambiare gli equilibri interni, ma le difficoltà anziché diminuire si accentuano.

O riusciamo a mettere al centro “l’uomo” o pestiamo l’acqua nel mortaio. La natura, la cultura, l’arte, l’ambiente, la salute sono i bisogni a cui fare riferimento. Vale per tutti e vale ancor più per il nostro Paese. La qualità della vita sarà il business del futuro. Questa inversione di tendenza consentirà oltre tutto di mettere al centro della produzione il fattore umano e quindi il lavoro. Nei settori suddetti il protagonista è l’uomo e non può essere sostituito dai robot. Nelle biblioteche, nelle pinacoteche, negli ospedali, nelle case di riposo, nelle scuole, nelle università, nelle aziende turistiche, nella difesa ambientale, nella salvaguardia della natura la persona umana è al centro, come fruitore e come operatore.

Saranno necessarie profonde e sofferte conversione produttive, dovrà aumentare la mobilità intersettoriale e a livello territoriale, il posto fisso sarà una chimera, la scala di valori verrà scombinata, i rapporti tra pubblico e privato dovranno essere ripensati e ricalibrati, la politica dovrà guardare avanti ben oltre le elezioni, il sindacalismo dovrà affrrancarsi dagli interessi categoriali, salteranno molti schemi culturali, cambieranno gli equilibri tra i Paesi e all’interno dei Paesi, salteranno molte sicurezze ma si apriranno molte prospettive nuove.

A ben pensarci qualcosa in tal senso si sta già muovendo. Siamo però tutti bloccati sulle mentalità pensionistica: chi ha maturato il suo vitalizio lo vuole difendere a tutti i costi pena il fallimento della propria vita lavorativa; chi rischia di non arrivare alla pensione soffre una vera a propria crisi di identità prospettica; chi non ha il lavoro dispera di riuscire a trovarlo; chi lo ha perso smette di cercarlo: una disperazione globale che sfocia nell’egoismo individuale e nazionale, un precariato esistenziale che mette in discussione la politica nei suoi valori democratici.

Sarà un percorso lungo e faticoso in cui tutti, più o meno, dovranno ritagliarsi un nuovo spazio di vita. Sarà dura e il Pil conterà sempre meno: rischierà di diventare la frenetica misurazione della febbre per un malato grave o addirittura terminale.

La favola del vecchietto imbellettato e del bambino obeso

Non so se si tratti di incoscienza difensiva o di irragionevole sottovalutazione, ma non riesco a prendere sul serio il ping-pong delle minacce bellicistiche tra Usa e Nord Corea. Sarà probabilmente tutta colpa delle ridicole immagini dei due guerrafondai da operetta. Kim Jong-un sembra un bambinone cresciuto troppo in fretta che gioca coi missili delle play-station; Donald Trump sembra un imbellettato vecchio giocatore di poker che si illude di risolvere tutto bluffando al rialzo.

Da una parte ci sarebbe di che essere terrorizzati dallo scontro fra questi due nani che giocano alla guerra, dall’altra si può solo sperare che due simili imbecilli non trovino la freddezza e il coraggio per dichiarare guerra. L’uno è un dittatore patentato e storicizzato, l’altro è un presidente incapace e improvvisato.

Sembra di assistere alla scenetta tra i due sordi, che tanto piaceva a mio padre. Uno dice all’altro: “Vät a lét?” ; l’altro risponde: ” No vagh a lét”. E l’altro ribatte: “Ah, a m’ cardäva ch’a t’andiss a lét”.

Forse non li sta prendendo sul serio nessuno: Russia, Cina, Giappone, Europa e financo Corea del Sud nicchiano. Non vorrei però che prima o poi potesse succedere quel che pronosticava mio padre con gustosa acutezza: «Se du i s’ dan dil plati par rìddor, a n’è basta che vón ch’a guarda al digga “che patonón” par färia tacagnär dabón».

Mi fido di papa Francesco che respinge aprioristicamente la guerra, bollandola con la sua spietata visione scoordinata e continuativa: un focolaio qui, uno scoppio là, una battaglia oggi, una battaglia domani e via di questo passo.

Negli Usa l’establishment trumpiano, che non riesce a trovare e forse non troverà mai un assetto credibile e stabile, probabilmente non crede alle minacce presidenziali e le usa solo quali deterrenti sul confuso e complesso scacchiere internazionale; il popolo americano mi fa paura, perché, pur nella stanchezza delle inutili guerre che lo hanno tristemente coinvolto negli ultimi tempi, si è lasciato trasportare da una deriva populista di cui non vede e non sa gli sbocchi futuri.

Difficile considerare cosa stia succedendo in Nord Corea: un misto irrazionale e vecchia maniera tra comunismo cinese e sovietico, una dittatura che resiste all’usura del tempo, una pedina che può sfuggire di mano a chi pensa di poterla utilizzare.

Fatto sta ed è che ci troviamo in balia di personaggi inqualificabili: se tutto sommato non ci sono saltati fuori Gorbaciov e Obama (che non hanno potuto lavorare assieme), cosa potranno combinare Putin e Trump alle prese con le loro squallide ed esplosive megalomanie. Se tanto mi dà tanto…