Il razzismo non dipende dalla paura, ma fa paura

Stavo verificando la presenza del segnale ballerino sul canale di Tv Parma, quando mi sono imbattuto nello sproloquio versiliano di Matteo Salvini. L’impulso è stato di cambiare immediatamente canale, ma ho disgraziatamente resistito spinto dall’intenzione di farmi quattro risate al bar della Lega in compagnia del suo capo. Eravamo effettivamente al bar, i discorsi erano perfettamente ambientabili in tale contesto. Della gloriosa (?) Lega bossiana non c’era più niente. Dall’indipendentismo si è passati al nazionalismo, dall’autonomismo al razzismo, dall’antifascismo al fascismo: un pistolotto sconcertante zeppo di assurdi riferimenti all’attualità. Sembrava di essere in un altro mondo, altro rispetto alla mia mentalità e sensibilità, perfettamente in linea con l’andazzo socio-culturale.

Un piccolo emblematico episodio, una farneticazione politica che dimostra un fatto: è inutile girarci intorno, siamo in presenza di un pericoloso rigurgito fascista , razzista con venature naziste. La tendenza a scaricare sui neri immigrati, più o meno clandestini, i nostri problemi di delinquenza e di violenza sulle donne, sfogare sui ragazzi di colore il bullismo giovanile nostrano, ascrivere la mancanza di lavoro all’invadente presenza dei migranti, gridare all’invasore che mette a repentaglio l’incolumità delle nostre donne, fomentare la paura dell’uomo nero come si fa con i bambini, riportare i conflitti sociali alla guerra tra italiani e stranieri, motivare tutte le nostre insicurezze con la presenza fastidiosa, pericolosa, deleteria dei clandestini pronti a delinquere: sono tutti atteggiamenti che stanno prendendo sempre più corpo e che ci riportano a idee e climi sostanzialmente fascisti.

Da una parte non bisogna drammatizzare, ma dall’altra è necessario non sottovalutare la situazione. I singoli episodi, presi separatamente, possono essere snobbati e sepolti sotto le nostre risate. Se invece li prendiamo nel loro complesso e li analizziamo alla luce di quanto stanno predicando certe forze politiche, non c’è niente da ridere, semmai c’è tutto da piangere. Non si può neanche minimamente giustificare questa deriva razzista con i timori e le paure di una società che si vedrebbe messa in discussione dalle ondate dei barbari invasori. Non scherziamo col fuoco, perché da cosa nasce cosa, dalla giustificazione di assurde paure si arriva alla colpevolizzazione sic et simpliciter dei migranti, dalla colpevolizzazione è un attimo passare all’aggressione, dall’aggressione si arriva alla guerra, dalla guerra si arriva al disastro.

Non mi convincono le discussioni astratte sui confini tra legalità e solidarietà, sul diritto di una comunità a difendere le condizioni della propria riproduzione sociale, della propria continuità civile ed amministrativa che troverebbe una eccezione solo nelle emergenze umanitarie dei rifugiati politici, dei profughi forzati da circostanze eccezionali (vedi Giancarlo Borsetti che pone la questione in termini civilmente ed appassionatamente dialogici su la Repubblica del 02 settembre 2017).

Si afferma che la miglior difesa è l’attacco: nel caso in questione potrebbe significare che per difendersi dall’invadenza migratoria bisogna criminalizzare gli immigrati. Parafrasando questa regola mi sento invece di affermare paradossalmente che la miglior difesa sta nel non chiudersi in difesa di noi stessi, ma nell’aprirsi agli altri: con tutte le cautele dettate dal buon senso e dalle buone intenzioni tradotte in scelte politiche lungimiranti e solidaristiche, s’intende (a tale proposito il vescovo di Parma Benito Cocchi diceva che per fare il bene non basta volerlo, bisogna essere anche capaci di farlo), ma senza chiudere le porte col primo pretesto che si presenta.

Se non esiste un diritto assoluto all’immigrazione, non esiste nemmeno un diritto assoluto a respingere quanti chiedono accoglienza. Nella civiltà greca era previsto un diritto assoluto all’ospitalità, che era considerata sacra. Non vorrei che al fine di recuperare consenso in un clima di tensione sociale finissimo col giustificare le pulsioni razziali che vengono ben prima dell’immigrazione. La storia insegna che i regimi nazifascisti si sono incardinati speculando sulle paure dei diversi ed in un certo senso, a parti invertite, è stato così anche per i regimi comunisti. I regimi sono proprio la degenerazione dei sistemi politici, impazziti a causa dell’insicurezza creata dallo scombinamento sociale. Un manifesto oggi, un cartello domani, un video dopodomani, un’aggressione fra qualche giorno, una spedizione punitiva la prossima settimana, rischiamo di scivolare in un clima razzista “bello e buono”. Dietro tutto ciò c’è una mentalità egoistica che sta ritrovando spazio. Una spruzzata di prezzemolo salviniano (e non solo…) insaporisce il tutto e rende il piatto non indigesto, ma vomitevole.

 

 

Numero chiuso, cervello aperto

Il mio curriculum scolastico, che risale purtroppo alla notte dei tempi, si è svolto tutto all’insegna della selezione. Avevo appena dieci anni ed alla fine della scuola elementare fui preso e sbattuto in pasto a una schiera di professori a me sconosciuti, che mi fece il cosiddetto esame di ammissione alla scuola media inferiore (allora non ancora unificata) pena il ripiego verso la scuola professionale. Lo ricordo come l’esame più difficile e impegnativo della mia vita: due prove scritte (un dettato e un tema); una massacrante prova orale (italiano, storia, geografia, matematica); una severa ed esagerata radiografia per un bambino abituato al clima familiare della scuola elementare. Lo superai anche se non a pieni voti. Frequentai la scuola media con programmi massacranti (latino a tutta canna) ed alla fine, dopo un altro duro esame di licenza dovetti scegliere la scuola superiore. Lì scattò la selezione economica: le condizioni della mia famiglia mi imposero la scelta di un percorso breve e fu “ragioneria”. Ottenuto brillantemente il diploma di ragioniere dopo aver sostenuto un esame molto pesante (quattro prove scritte, due prove orali con interrogazioni per ogni singola materia e su programmi in certi casi addirittura pluriennali), decisi di accedere all’università, ma la selezione spuntava ancora una volta. Dato il mio titolo di studio di scuola media superiore, non potevo scegliere che tre facoltà: economia e commercio, sociologia (a Trento), lingue orientali (a Verona). Decisi di frequentare economia a Parma. Per mia fortuna   scartai sociologia in quel di Trento, che divenne fucina di “brigatisti rossi”: conoscendomi avrei potuto benissimo cascarci dentro, visto il mio spirito critico e la mia mentalità, che, ebbero altri sbocchi non violenti. Per lingue orientali era troppo presto. Pensavo di abbinare lavoro e studio: ci provai, ma non ci riuscii e allora chiesi un grosso sacrificio alla mia famiglia che mi sostenne in un percorso universitario in tempi stretti ed ultrapieni. Arrivò la laurea e il successivo soddisfacente e tempestivo inserimento nel mondo del lavoro (altri e bei tempi in questo senso).

Conclusione: io sì che me ne intendo di scuola selettiva e di numero chiuso! Il bello è che a breve distanza rispetto al mio difficile cammino la scuola media si unificò, l’esame di stato si trasformò in una quasi passeggiata e le facoltà universitarie vennero drasticamente liberalizzate. Troppo tardi per me, tanto meglio per quanti vennero dopo di me.

Come quasi sempre succede, si passò però da un’estremità all’altra. Poi arrivò, nel 2000, la riforma universitaria del “3+2”, vale a dire con laurea breve e laurea cosiddetta magistrale: detto brutalmente   laureati di serie B che dovevano entrare alla svelta nel mondo del lavoro e laureati di serie A che ci dovevano entrare dopo un supplemento di preparazione. Arriviamo ai numeri chiusi e programmati per arginare alla meglio   l’alluvione di iscrizioni alla viva il rettore. Non entro nel merito e faccio solo due riflessioni.

Chi parla oggi di scuola di classe o di università d’élite mente spudoratamente: chi ha voglia di studiare lo può fare, chi abbandona l’università lo fa non costretto dalle ristrettezze economiche ma dalla propria scarsa propensione allo studio. Semmai ci sarebbe da discutere sui sacrifici a fondo perduto “imposti” da giovani sfaticati alle loro famiglie: quanti studenti che non studiano e quanti genitori che pagano e tacciono facendo finta di non vedere (i miei genitori non mi avrebbero consentito perdite di tempo, lungaggini, ripensamenti, etc.).

Che l’università sia dequalificata, disorganizzata, burocratizzata, non sono in grado di verificarlo: ho sempre avuto e mantengo un deferente rispetto verso il mondo accademico anche se lo so percorso da lotte intestine e da questioni di carriera e di potere (in fin dei conti l’Università non è e non può essere la perfetta anticamera di una società imperfetta…). Tutte le riforme scolastiche sono sbagliate? Non sarà forse sbagliato l’approccio poco impegnato degli studenti, quello poco disponibile dei docenti e quello fazioso delle famiglie?

Se la selezione ha da essere la si faccia però con un “challenge in progress” (la pallavolo mi sta contagiando…), vale a dire con verifiche approfondite che tengano conto di tutto il curriculum dello studente e non sottoponendolo alla (quasi) lotteria dei test.

Stringi stringi il problema tuttavia, a mio giudizio, sta nel rapporto col mondo del lavoro: bisogna trovare la possibilità di rendere compatibili le libere opzioni teoriche degli studenti con le effettive possibilità di sbocchi professionali. Che un giovane possa scegliere l’indirizzo di studi a lui congeniale è più che opportuno e molto positivo per tutti. Forse però stiamo esagerando e indirettamente ipotizzando una società di filosofi, psicologi, sociologi, medici. Lo studente e la sua famiglia devono scendere dalle nuvole: la società è complessa e l’inserimento lavorativo non è in discesa. Bisogna fare sintesi. Ho richiamato la mia esperienza perché, se da una parte suscita parecchi rimpianti e mi ha lasciato sul campo qualche frustrazione, in pratica dimostra come sia possibile coniugare, seppure a fatica e con qualche rinuncia, i propri sacrosanti desideri con le possibilità economiche familiari e soprattutto con quelle lavorative. Sì, perché la Repubblica italiana è fondata sul lavoro e lo studio ne è la prefazione e non la postfazione.

La palla che vola al di sopra delle beghe sportive

Ho seguito in televisione le gare dei campionati europei di pallavolo maschile, un po’ per celia sugli effetti del caldo soffocante di questa interminabile estate, un po’ per non morire nell’opprimente clima affaristico del calcio-mercato. Ho cominciato mosso dall’onda dei ricordi, perché la pallavolo è lo sport che si impara e si pratica nelle palestre scolastiche, poi pian piano mi sono appassionato e divertito, indipendentemente dal risultato non molto soddisfacente, ottenuto dalla nostra squadra nazionale.

Chi legge si chiederà cosa ci sia di strano e di rilevante in questa esperienza da telespettatore sportivo, tale da indurmi ad inserirla nella mia cronologica trattazione. Non certo un appagante diversivo ai gravi problemi che ci opprimono: lo sport non dovrebbe infatti mai essere un’evasione dalla realtà, ma un modo per riempirla di contenuti agonistici. Non certo una manifestazione di puro tifo anche perché la pallavolo non si presta a questi sfoghi, monopolio indiscutibile del foot-ball giocato a tutti i livelli: le partite tra squadre di ragazzini scatenano spesso assurde risse fra genitori, le partite delle serie inferiori inducono nella tentazione di violenti scontri campanilistici, le partite di serie A arrivano persino a combattimenti fra ultras di opposte fazioni a sfondo politico nonché a sfoghi culminanti in cori razzisti, le partite internazionali rispolverano i fantasmi nazionalisti e guerrafondai. Tutto alla faccia dello sport che dovrebbe affratellare le persone e le genti, educandole al dialogo ed alla sana competizione.

L’anomalia che ho colto e che intendo esprimere consiste nel clima sereno e leale che si notava in queste palestre (senza indulgere all’enfasi retorica del volley che ha sicuramente i suoi pregi e i suoi difetti): niente proteste verso gli arbitri, l’attesa disciplinata del responso della moviola ripetutamente richiesta dagli allenatori delle squadre in campo, la festosa cornice di pubblico prevalentemente giovanile e femminile, il rispetto reciproco degli atleti vincenti e perdenti emergente da un fin troppo insistito rituale nello scambio di complimenti e di incoraggiamenti, il combattere fino in fondo senza ostruzionismi e senza drammi, il rapporto serio, rispettoso e cordiale tra allenatori e giocatori, una rara combinazione tra serietà professionistica ed appassionato divertimento. Persino le petulanti telecronache ed i commenti stereotipati o imbrillantati dei tecnici, chiamati a rimpinguare il già troppo consistente gruppo dei giornalisti di Raisport, finivano con lo stemperarsi nel contesto spontaneo e divertente della manifestazione.

Non potevo fare a meno di operare parallelismi col mondo del calcio: la colpevolizzazione sistematica degli arbitraggi, l’accoglienza polemica e sospettosa del Var, i cori sguaiati quando non triviali delle tifoserie, la violenza degli ultras che dettano legge, l’artificiosa gioia da parte di giocatori superpagati che coprono la loro mercenaria verve affaristica con gli sfoghi del dopo-goal, la drammatizzazione di quanto avviene sul campo per distrarre gli osservatori dagli intrighi e dalla corruzione che esiste fuori dal campo, l’invadenza degli allenatori padreterni, l’infinito calcio-mercato che rischia di falsare i risultati della stagione in corso.

Finalmente una boccata d’aria fresca nello sport sempre più inquinato e dopato, un modo accettabile e sereno di vivere un avvenimento: una festa, dove si faceva fatica persino a distinguere le tifoserie tanto erano accomunate nel clima gioioso della partita a cui assistevano col sorriso anche nei momenti di più intensa tensione agonistica.

Ci voleva per riappacificarmi con la vita. Sì, perché lo sport è vita! Viva la pallavolo. Non è nemmeno lontanamente paragonabile alla bellezza del calcio, ma sicuramente ha qualcosa da insegnare a quel mondo, che del pallone fa un pretesto per il raggiungimento di scopi impronunciabili, in campo, negli stadi, nelle società e nei media.

Poveri di beni, ma signori per dignità

La peggior disgrazia che può accadere ad una persona non è quella di essere povero di risorse materiali, ma di essere senza dignità, vale a dire privo di risorse umane e di rispetto verso se stesso e gli altri. Quando mi recavo in quel di Verona per assistere agli spettacoli areniani, per accedere alla platea ero costretto a passare in mezzo a due ali di folla: erano frotte di curiosi alla spasmodica ricerca di qualche vip da ammirare, per soddisfare la voglia di “sgolosare” sulle sfarzose primedonne del pubblico, per accontentarsi cioè di “sfrugugliare” nel retrobottega dell’affascinante mondo dello spettacolo. Erano i poveri senza dignità, che invidiano i ricchi e non riescono ad essere “signori”.

Quando poi la povertà si fa dura e mette a repentaglio l’esistenza nei suoi bisogni essenziali, il gioco può diventare delicato al limite della violenza individuale e collettiva. Per farla breve è quanto sta succedendo nel tessuto sociale italiano tra “poveri con cittadinanza” e “poveri senza patria”, tra abitanti del nostro Paese alla ricerca di una casa, un lavoro, un sostentamento e profughi alla deriva in mare e sulla terra straniera, tra rifugiati   e migranti economici, tra giovani in cerca di futuro e anziani in difesa del passato, tra migranti riusciti ad integrarsi e loro simili ancora in balia dell’indifferenza o dell’ostilità.

Le chiamano guerre fra poveri e sono le peggiori guerre che possano scoppiare, perché dividono, squalificano, compromettono ulteriormente la vita di questi soggetti, portandoli dalla disperazione del presente alla impossibilità di un futuro, togliendo ad essi ogni e qualsiasi speranza di riscatto.

È una trappola mortale in cui cadono i poveri, tesa loro dai ricchi per squalificarne in partenza ansie, battaglie, rivendicazioni, proteste. Si scatena il gioco della legalità: è illegale che un disperato senza casa occupi un immobile abbandonato? Al di là di qualche interessante sentenza della magistratura che ha dovuto affrontare e talora negare simili situazioni di presunto reato, mi chiedo: è legale che ci siano persone che non hanno uno straccio di casa in cui rifugiarsi per piangere almeno, con dignità, la propria miseria?

In questa rete perbenista finiscono col restare impigliati i senza diritti, che cercano di liberarsi “rubandone” qualcuno ai propri simili o “accontentandosi” della paura verso i propri simili e finiscono col perdere anche il bene più prezioso, la dignità. Se devo essere sincero, resto molto più angosciato di fronte a questi scontri tra disperati che non davanti ai naufragi di quanti fuggono dalla loro disperazione. Sì, perché in mare aperto, tra le onde che coprono i barconi straboccanti e traballanti c’è pur sempre un barlume di speranza in una mano tesa a salvarti, mentre nella guerra per un tozzo di pane c’è tutta la sconfitta dell’isolamento totale perché l’avversario è il tuo amico di sventura.

I media fomentano il malcontento, come afferma acutamente Emma Bonino gli imprenditori della paura fanno affari, i politici dissertano sull’uovo della legalità o sulla gallina della solidarietà, l’Unione europea continua a sottilizzare sulla differenza tra un individuo che rischia di morire per fame e uno che rischia la pelle in mezzo alle bombe, Virginia Raggi si esercita nelle graduatorie sulla fragilità dei senza casa (che le gridano giustamente “vergogna”), il ministro Minniti sputa il sangue per combinare qualcosa prendendosi critiche a destra e manca, i potenti della terra europea si scambiano complimenti come quegli assurdi progettisti di una porcilaia costruita senza porta: “Méstor mi, méstor vu e la zana in dò vala sù…”.

I migranti, so di chiedere loro un sacrificio quasi impossibile, si sforzino di evitare il ricorso alla violenza, fra di loro, con gli italiani, con le forze dell’ordine, con tutti: l’arma della dignitosa e pacifica richiesta di aiuto è l’unica che hanno e non si possono permettere di sprecarla, buttando come si suol dire, “il prete nella merda”.

Gli italiani la smettano di giocare sporco sulla pelle dei migranti: non rubano nulla a nessuno, chiedono un aiuto e non glielo possiamo negare nascondendoci dietro i nostri problemi. Sarebbe come se, davanti a un estraneo che sta morendo e chiede disperatamente soccorso, ci voltassimo a guardare un nostro familiare a letto con una grave malattia. Dobbiamo trovare il modo di assistere ed aiutare entrambi, ne va della sorte di tutti.

 

Il morto nella stiva

Mi scuso in anticipo della macabra brutalità con cui forse mi esprimerò. Il problema della sanità in Italia non è certo la collocazione dei morti, ma la cura dei vivi. Tuttavia anche il percorso delle salme non è e non è mai stato dei più dignitosi e rispettosi per il defunto e per lo stato d’animo dei parenti. Ho fatto purtroppo alcune esperienze al riguardo, non al limite della denuncia, come è successo all’ospedale Cardarelli di Napoli, ma piuttosto eloquenti .

Innanzitutto molto spesso si muore senza un minimo di privacy, dietro ridicoli paraventi, in mezzo alla normale vita dei reparti, senza il conforto dei propri cari tenuti lontani da rigide e assurde discipline. Ricordo la sera in cui si capiva benissimo che a mio padre restavano poche ore di vita: io e mia sorella esprimemmo il desiderio di rimanere accanto al letto per accompagnare umanamente il decesso anche se mio padre era ormai privo di conoscenza.

Ebbi un imbarazzante discussione col medico di turno che consentì la presenza di una sola persona: rimasi io, mia sorella poté raggiungermi solo quando mio padre fu proprio in punto di morte. Espressi amara comprensione al solerte operatore sanitario che faceva rispettare le regole, ma gliele ributtai addosso dicendo che si trattava di norme a sbrigativa misura organizzativa e non certo a misura umana: sfogo doveroso ma inutile.

Dopo la morte si ha l’impressione che la salma venga collocata in stanzette d’occasione con discutibile rispetto dei vivi e dei morti. Nel caso di mia madre rimanemmo per ore in attesa che arrivassero i portantini per il trasferimento in necroscopia. Solo la consueta e sacrosanta irruenza di mia sorella riuscì a sbloccare la situazione: se ne erano dimenticati e quindi, se mia sorella non fosse intervenuta chiedendo aiuto ad un’amica infermiera, saremmo forse ancora là ad aspettare un macabro Godot.

Posso capire che sia opportuno preoccuparsi più dei vivi, per i quali si dovrebbe puntare alla guarigione, che non dei morti, ai quali si dovrebbe garantire solo una dignitosa uscita di scena. Mi ha sempre commosso come i vigili urbani si mettano sull’attenti al passaggio di un carro funebre. Meriterebbe uguale rispetto il tragitto precedente, dal letto alla bara.

E veniamo al Cardarelli ed allo strascico polemico successivo alle dichiarazioni di una persona che ha osato dire quanto probabilmente molti hanno osservato in silenzio per evitare inutili discussioni in momenti inadatti a scontri verbali: una salma messa quanto meno nel punto sbagliato, in bella vista di chi si recava al gabinetto, in una stanzetta che quando non serve a medicare i vivi serve ad ospitare i morti (tanto…che differenza fa?).

Il direttore della struttura sanitaria ha interpretato alla perfezione e con appropriati accenti burocratici il ruolo dello scandalizzato, ha espresso una fredda e imbarazzata difesa d’ufficio, complice una cronista pronta a legare l’asino dove vuole il padrone: questo direttore senza cuore in realtà capiva perfettamente la gravità della situazione strutturalmente indifendibile e si nascondeva dietro prassi e procedure penosamente insufficienti.

È molto grave morire in attesa dell’ambulanza che non arriva o dell’intervento tardivo dei sanitari o per svarioni diagnostici o chirurgici o terapeutici; è insopportabile vivere il ricovero in reparti igienicamente insufficienti o addirittura vergognosamente animaleschi; è altrettanto inaccettabile morire in mezzo al “traffico ospedaliero” ed essere trattati da oggetti ingombranti dopo la morte. La sanità continua ad essere un carrozzone in cui si fatica a trovare la giusta accoglienza, dalla nascita (ancor prima…) fino alla morte.

Termino con un pensierino paradossale: forse, quando uno è costretto ad impattare l’ambiente ospedaliero, è più preoccupato degli aspetti logistici dell’autentico labirinto in cui entra che non delle sofferenze della sua malattia. Se fosse possibile essere curati e morire a casa propria, lo farei, a costo di rimetterci magari qualche anno di vita. Butterfly, prima di suicidarsi per l’insopportabile tradimento sentimentale patito, afferma solennemente: «Con onor muore chi non può serbar vita con onore…». Il dramma di Butterfly è teatrale: nella vita ospedaliera è ancor peggio.

 

 

 

La politica della mosca cieca

La fluidità degli schieramenti politici trova un assurdo riscontro nell’anomalia siciliana. In vista delle imminenti elezioni regionali si è scatenata una corsa alle combinazioni più strane da presentare agli elettori: una vera e propria esercitazione in preparazione del compito in classe delle elezioni politiche. Si sovrappongono però problemi di governo (la manovra economica per il 2018), problemi legislativi a livello parlamentare (Ius soli), tattiche elettorali (dove e con chi sta Alfano), (dis)accordi a sinistra (con chi sta Pisapia) ed altro ancora.

In questa bagarre i temi siciliani vengono bellamente ignorati e quelli nazionali restano sullo sfondo ben coperti dalle tattiche improvvisate nella penombra, sarebbe meglio dire nel buio, della legge elettorale. Restano cioè fuori campo i motivi del contendere e le regole di tale contesa. Si vedono e si sentono i contendenti che menano colpi a destra e manca in una gara che assomiglia alla mosca cieca o alle pignatte della politica.

In realtà al di sotto di questa confusa diatriba esiste una triste realtà che accomuna destra e sinistra, vale a dire il prevalere di finte questioni identitarie, per non dire ideologiche (che diventano soprattutto personalistiche), sui veri nodi programmatici. In una situazione del genere è inevitabile che prevalgano le spinte populiste e qualunquiste interpretate dai cinque stelle e dalla Lega. Se a un commensale affamato presenti un menù dietetico, non gli rimarrà altro che buttarsi a capofitto sul cestino del pane, buono o balordo che sia.

Come voteranno i siciliani? Non ne ho la più pallida idea. Certo non staranno molto a sottilizzare sulle mosse di Tizio o Caio e andranno al sodo. E in cosa consiste il sodo? Lo sanno tutti e tutti fanno finta di niente. Mi preoccupa questo assordante silenzio programmatico della politica che potrebbe essere disgraziatamente colmato da chi è maestro a prendere il toro per le corna e questo “chi” non è certo Beppe Grillo, il quale pregusta una sonora e inconcludente vittoria.

Il dibattito mediatico si riduce a discussioni minimaliste e furvianti: sul fatto se nella prossima manovra economica debbano prevalere gli interessi dei giovani o dei pensionati, se lo Ius soli sia compatibile o meno con le paure della criminalità e del terrorismo, se per la legge elettorale si debba scegliere il Consultellum del Senato o quello della Camera.

A proposito di Senato e Camera mi viene alla mente un episodio di rara valenza qualunquista, accaduto a margine dei lavori in un seggio elettorale. Si ripeteva insistentemente che i giovani votavano solo per la Camera. Dillo una volta, dillo due, ad un certo punto uno scrutatore affermò maliziosamente: «Sì i giovani votano per la Camera, la

camera da letto…». Forse non è più vero anche perché non hanno la possibilità di allestirla. Quel che voglio dire è questo: o la politica si riappropria del suo ruolo o c’è da temere seriamente una deriva qualunquista che può portare a sbattere…

 

 

Burlesconi bis

Indro Montanelli sosteneva che il berlusconismo fosse una brutta malattia da smaltire, un virus da sconfiggere dopo aver fatto, col tempo, gli anticorpi necessari, un male passeggero da non sottovalutare al fine di evitare pericolosissime ricadute. Abbiamo sofferto i danni notevoli della malattia, gli anticorpi non si sono ancora formati e le ricadute non le abbiamo sapute evitare.

Lo spettro di un ritorno del berlusconismo riveduto e scorretto si sta profilando, anche se sembrano più attenti a questo rischio i mercati finanziari e la stampa internazionale che non gli italiani, deviati dal referendum continuo su Matteo Renzi da una parte e Beppe Grillo dall’altra. In mezzo sta forse riprendendo piede l’ex cavaliere capace di riscaldare i cuori che battono a destra, di raccogliere la sua armata brancaleone   non più con lo spauracchio del comunismo ma con la pura dell’immigrato.

Berlusconi la sta prendendo sù larga, parte dall’Europa e dalla sua moneta, con una notevole faccia tosta, dopo essersi faticosamente rialzato dopo il colpo fatale infertogli da quella famosa risatina franco-tedesca che lo mise ko. Oggi, più bello e più superbo che pria, pontifica sulla moneta parallela da affiancare in Italia all’euro. Non si capisce di cosa si tratti, sembra una ipotesi giocosa e fantasiosa pensata solo per buttare fumo negli occhi o una solenne bluffata per recuperare audience in un contesto internazionale piuttosto scettico sulla sua settima vita.

Invece i mercati finanziari hanno reagito con una certa preoccupazione (lo spread si è alzato) e la stampa internazionale ha cominciato ad evocare un triste passato. Il ragionamento sembra questo: siamo poi così sicuri che l’Italia non cerchi del freddo per il letto e che nel bailamme politico non finisca ancora   con lo scommettere su un cavallo bolso, zoppo, dopato, ma sempre capace di miracolosi recuperi?

Più che di moneta parallela sembra trattarsi di politica riscaldata. Sull’insuccesso di queste tattiche berlusconiane non metterei comunque la mano sul fuoco. Gli sbruffoni dell’odierno leghismo e del riciclato fascismo sanno benissimo di non poter prescindere da Berlusconi e dai suoi soldi: se non hanno saputo resistergli Umberto Bossi e Gianfranco Fini, figuriamoci Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Uno straccio di alleanza o di lista unica riusciranno a farla e l’uomo di Arcore, pur non potendo ricoprire cariche pubbliche, si siederà al tavolo e ricomincerà a giocare come se niente fudesse, facendo magari la parte dell’uomo equilibrato e affidabile capace di zittire Grillo e di condizionare Renzi.

Della moneta parallela non si farà nulla, sarà la solita barzelletta dei prossimi anni. I casi comunque sono tre: o i giornali degli altri Paesi non sanno di cosa parlare, o vogliono buttarla in ridere ancor prima del tempo, o la sanno più lunga di noi.

L’indomani della prima salita al governo del cavaliere, l’Economist uscì con una copertina intitolata “Burlesconi”. Non vorrei che tra qualche mese uscisse con una copertina simile intitolata “Burlesconi bis”. Meditate gente, meditate…In Italia ci sarà ancora qualcuno in Vaticano disposto a contestualizzargli le bestemmie? Putin e Trump lo tireranno subito in torta. L’Europa riderà ancora? Angela Merkel non sarà più una culona intrombabile, ma una vecchietta tacitabile. E Macron? Magari lo chiamerà all’Eliseo   per spiegargli che è meglio avere attorno una moglie attempata e seria che uno stuolo di ragazzotte giovani e poco serie. Lui reagirà e definirà Macron il solito stronzone francese in vena di moralismo.

Viva Trump, viva Putin, viva Silvio Berlusconi!

Il branco mondiale contro il protagonismo femminile

Mi convinco sempre più che i continui episodi di violenza sulle donne non siano da considerare, combattere e prevenire quali puri atti di machismo, ma debbano essere visti come gesti rientranti in una precisa, anche se talora inconsapevole, strategia: mortificando, maltrattando, umiliando, uccidendo le donne si pregiudica il progresso della società, da tutti i punti di vista, quindi umanamente, economicamente, socialmente, religiosamente, politicamente.

Tutte le religioni, in primis l’Islam, vivono di rendita sul ruolo subordinato della donna. Le prime pagine della Bibbia sono eloquenti: la demonizzazione della donna è tutto un programma e prelude a millenni e secoli di oppressioni, torture, maltrattamenti. Il concetto del ruolo della donna è sempre stato ed è la cartina di tornasole, la prova del nove per misurare l’oscurantismo e il conservatorismo di ideologie, filosofie, dottrine, regimi, movimenti.

Se una donna viene violentata è perché la si vuole ridurre a mero strumento di piacere, a oggetto usa e getta, ad essere inferiore. Il messaggio è chiaro: stai al tuo posto, subisci, taci, sopporta, non alzare la testa, non accampare diritti, il mondo non ti appartiene, è dei maschi.

Fintanto che permarrà, più o meno apertamente, questa mentalità, non faremo passi avanti, resteremo bloccati. La tattica è anche subdola perché da l’impressione al mondo femminile di emanciparsi sul piano meramente erotico, mentre così facendo si incallisce ancor più la mentalità “della bambola gonfiabile”. Il facile guadagno legato all’erotismo (dalla prostituzione all’uso commerciale del proprio corpo) illude e confonde le idee. Le carriere fulminanti a forza di battaglie di letto orientano in modo fuorviante le giuste ansie e aspirazioni femminili.

La parità e la dignità della persona, la libertà religiosa, la solidarietà, il bene comune, la giustizia, la pace dipendono dall’apporto della donna. Ogni volta quindi che viene violata una donna, non solo si commette un reato contro la persona, ma si compromette l’evoluzione positiva della società. Anche il fenomeno dell’immigrazione è inquinato a questo livello: c’è in atto una vera e propria tratta delle ragazze di colore costrette a prostituirsi, minacciate, torturate, seviziate. Ho letto parecchie volte cronache e storie agghiaccianti al riguardo: roba da brividi. Siamo capaci di usare gli idranti contro i profughi, ma non abbiamo il buongusto di intervenire a gamba tesa sugli sfruttatori peraltro ben noti alle forze dell’ordine.

Il branco non è solo un fenomeno di giovani esaltati, è lo strumento di persecuzione al fine di evitare lo squarcio al femminile delle nubi che oscurano il mondo. Non penso di esagerare. Tutto dipenderà dalla forza d’animo delle donne, dalla loro capacità di lotta. Non illudiamoci di vincere questa battaglia con qualche legge pur necessaria, con una repressione che rimane sempre piuttosto debole: si tratta di un cambio di mentalità, in cui peraltro le religioni sono di ostacolo e non di aiuto.

Ho letto le anticipazioni di un libro-guida al vangelo di Giovanni che offre spunti interpretativi interessanti sul protagonismo femminile: Gesù era un vero femminista, i suoi discepoli no. Anche la Chiesa cattolica deve fare ancora molta strada.

Il gioco sporco delle spie

Quando sento parlare e leggo di servizi segreti (dovremmo prima di tutto avere il coraggio e il realismo di chiamarli per quel che sono, vale a dire “spie”), sono tentato di circoscrivere l’argomento aiutandomi con quanto sostenevano due personaggi del secolo scorso: Guglielmo Zucconi, un giornalista sagace e brillante prestato per un certo periodo alla politica; Aldo Moro, uno statista prestato alla Democrazia Cristiana.

Il primo osservava argutamente come in Italia si pretenderebbero i servizi segreti pubblici: vorremmo cioè che l’intelligence operasse alla luce del sole, senza sotterfugi, con tutti i crismi della legalità. Il modo di essere dei servizi segreti è l’esatto contrario, la deviazione non è l’eccezione ma la regola, il tradimento è all’ordine del giorno in entrata e in uscita, le matasse vengono ingarbugliate ad arte e si finisce inevitabilmente per rimanere prigionieri nel labirinto dello spionaggio e del contro-spionaggio.

D’altra parte non è forse vero che persino i film in questa pur affascinante materia finiscono con l’essere incomprensibili: più sono incasinati è più sono belli e probabilmente rispondenti alla realtà. C’è una differenza sostanziale fra la realtà romanzata e quella vera: da una parte abbondano vicende di sesso, dall’altra questioni di terrorismo e guerre di potere.

Aldo Moro, mi risulta da fonti attendibili anche se non ufficiali, affrontava questo argomento con distacco e scetticismo e osservava con estremo disincanto: «Da che mondo è mondo le spie sono sempre state le peggiori persone esistenti…». La filastrocca infantile la dice lunga al riguardo: “Chi fa la spia non è figlio di Maria, non è figlio di Gesù, quando muore va laggiù, va laggiù da quell’ometto che si chiama diavoletto”.

E noi vorremmo difendere la nostra democrazia utilizzando soggetti che storicamente non hanno fatto altro che tramarle contro; vorremmo controllare l’operato di personaggi che dell’imprevedibilità e del trasformismo fanno il loro stile di comportamento; desidereremmo eliminare lo sporco usando pulitori che sguazzano nel “rudo”.

Ci riempiamo la bocca di anti-terrorismo basato sull’operato delle spie e della loro collaborazione. Diciamo la verità: questa gente è più pericolosa dei terroristi, è totalmente inaffidabile, si confonde col nemico e diventa essa stessa uno sgusciante e occulto avversario. Sull’auspicio che le intelligence possano addirittura lavorare assieme con un obiettivo comune, scambiarsi informazioni, tessere una tela avvolgente e protettiva, dobbiamo ammettere di essere dei visionari, gente che non sa quel che dice. Se pensiamo di contrastare il terrorismo con le armi dello spionaggio, stiamo freschi…lo spionaggio ha coperto e alimentato il terrorismo nero, rosso, giallo e verde, trasformando addirittura, a volte, il terrorismo in stragi di stato.

A sconfiggere le brigate rosse non sono state le infiltrazioni degli agenti segreti, ma la legge sul pentitismo agganciata alla tenuta delle istituzioni democratiche, dei partiti e dei sindacati. Per analogia a vincere il terrorismo cosiddetto islamico non saranno le spie europee o americane o israeliane o addirittura di certi paesi arabi, vinceremo se la nostra democrazia saprà tenere botta, cambiando l’approccio a molti problemi internazionali e nutrendosi con l’accoglienza e l’integrazione dei musulmani. Delle spie non c’è da fidarsi, perché uno se le ritrova sempre e comunque contro: giocano in proprio, non sono figli di nessuno e ci portano all’inferno.

La Forza nuova del vecchio fascismo

Non mi considero un clericale, anzi, pur essendo un cattolico, come si suol dire, praticante, e pur annoverando nella mia famiglia uno zio prete (porto indegnamente il suo nome e lo considero a ragion veduta il mio santo protettore) ed una zia suora (una dolce e coerente esemplificazione della vocazione religiosa femminile), ho una concezione laica della vita, una impostazione anti-dogmatica, evangelica e cristocentrica della fede, una visione anticlericale della Chiesa, uno spirito fortemente critico che non riesco (sotto sotto non voglio) reprimere.

Non sono mai stato e non sarò mai un leccapreti, anche se mi onoro di avere molte e stupende amicizie in questo parterre e soprattutto riconosco di avere incassato fondamentali spunti educativi da un fior fiore di sacerdoti.

Di fronte alla stupida e presuntuosa censura rivolta ad un sacerdote, don Biancalani, parroco di un paese toscano della diocesi di Pistoia, reo di dedicarsi all’integrazione dei migranti e quindi di avere dato a persone di colore, ospiti della sua parrocchia nell’ambito di un progetto che li occupa a livello lavorativo (almeno così ho capito dai soliti superficiali reportage), la soddisfazione di potere farsi un ristoratore bagno in piscina, resto sinceramente e letteralmente basito. Queste critiche arrivano a minacciare una sorta di inquisizione strisciante nei confronti di questo prete e della “sua dottrina”: andranno ad ascoltare le sue omelie e vigileranno sulle sue presunte eresie.

E chi sono questi assurdi defensor fidei? Per fortuna non si tratta di esponenti del Sant’Uffizio, sì quelli che fanno il mestiere di rompere i coglioni a chi vuole buttare la fede oltre l’ostacolo dell’egoismo, della ricchezza e del potere. Non si tratta nemmeno dei soliti nostalgici bigottoni, che si scandalizzano di tutto meno che dei propri intoccabili interessi condensati nel loro gonfio portafogli.

Non si tratta neanche del vescovo di Pistoia territorialmente competente, che ha espresso, in modo un tantino equivoco, la sua vicinanza e consonanza a questo prete di frontiera: manderà il suo vicario generale (chissà perché non trova il tempo di andarci lui personalmente) a concelebrare la messa festiva con questo prete nella parrocchia di Vicofaro. Penso che, in buona fede, intendesse così solidarizzare al massimo livello con il suo confratello, ma qualcuno ha intravisto in questa iniziativa la subdola volontà di controllare e supervisionare le messe e il comportamento di questo scomodo presbitero. A scanso di equivoci mi permetto di consigliare al vescovo di schierarsi apertamente e di condividere concretamente la testimonianza in mezzo ai profughi: a quel punto nessuno potrà ricamare illazioni.

Insomma da dove vengono queste critiche? Da Forza Nuova, vale a dire da un agguerrito, riciclato e strutturato covo di fascisti, in vena di coniugare Dio con Benito Mussolini, sfrontatamente capaci di nascondere il loro vomitevole razzismo dietro una fantomatica difesa della fede   cattolica. Roba da matti! Eppure c’è qualcuno (?) che va dietro questi imbecilli e li ritiene un avamposto della battaglia contro l’immigrazione clandestina e per la difesa dei nostri valori umani.

Intendiamoci bene: se Matteo Salvini, il leghista tutto d’un pezzo, il più bel populista del bigoncio tutto razza, patria e Chiesa, può permettersi di insolentire il Papa per le sue posizioni sullo Ius soli, ai militanti di Forza Nuova è lecito censurare un semplice prete di periferia, che se ne frega (giustamente) delle lungaggini e delle titubanze parlamentari   e mette in pratica tout court il dettato evangelico: “ero forestiero e mi avete accolto”.

Qual è comunque il filo che lega questi atteggiamenti insofferenti verso i preti che stanno dalla parte degli ultimi? Molto semplice, si tratta di autentico fascismo. Di fronte a queste dilaganti nostalgie mi sento di rispolverare un motto molto in voga nei cortei sessantottini: “fascisti carogne, tornate nelle fogne”. Quando ci vuole, ci vuole…