La “Mastella”, il bambino e l’acqua sporca

L’ex ministro della giustizia Clemente Mastella è stato assolto dal Tribunale di Napoli, dopo nove anni, da presunti reati commessi nelle nomine alle Asl e in altri settori pubblici. La notizia esige parecchie riflessioni.

La prima concerne la scontata differenza di spazio e attenzione sui media tra le notizie   dell’indagine e dell’incriminazione di allora e dell’assoluzione di oggi. Sul piano giudiziario le sentenze assolutorie hanno effetto ex tunc, vale a dire cancellano tutti i procedimenti avviati e rimettono le cose a posto (in certi casi addirittura con risarcimento del danno arrecato all’imputato), ma sulla stampa hanno sì e no effetto ex nunc, cioè vengono distrattamente annunciate e, mediaticamente parlando, chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato e scordiamoci il passato. Il giustizialismo vale solo per i colpevoli, gli innocenti si arrangino. Il garantismo è scritto sulla carta, ma non esiste effettivamente: l’indagato è già colpevole e nell’opinione pubblica rimane tale anche se successivamente assolto.

La seconda riflessione riguarda il fatto che sono obiettivamente troppe le sentenze che buttano all’aria i castelli indagatori delle procure, tali da giustificare la separazione delle carriere, ma soprattutto tali da imporre maggiore prudenza nei pubblici ministeri: quando un rinviato a giudizio viene assolto, trionfa certamente la giustizia, ma perde di credibilità e autorevolezza la magistratura inquirente.

La terza considerazione è sui tempi della giustizia: nel caso in questione ci sono voluti nove anni per arrivare a sentenza, lungaggini scandalose che dimostrano come le procedure giudiziarie non funzionino. Sarà certamente colpa delle manchevolezze strutturali e funzionali: i poteri legislativo ed esecutivo dovrebbero intervenire a rimuovere i vergognosi macigni dell’inefficienza, una delle principali cause della squalifica del nostro sistema-paese. Credo però che i magistrati non siano esenti da colpe. Sarebbe quindi opportuno che abbassassero la cresta a livello individuale e categoriale, lavorassero di più e meglio. Non si tratta di ledere la loro autonomia o di squalificare il loro operato, si tratta di capire che la professione del magistrato è delicatissima, assimilabile a quella del chirurgo: entrambe incidono sulla carne viva degli individui e gli eventuali errori sono soltanto parzialmente e non sempre sanabili. Si ha l’impressione che medici e giudici siano intoccabili, non paghino mai per i loro errori, sappiano difendersi con le unghie e coi denti.

La quarta delicatissima riflessione è inerente il rapporto tra politica e magistratura. Affermato senza alcun dubbio che per la politica non deve sussistere alcun privilegio o corsia preferenziale, bisogna tuttavia capire che certi interventi della magistratura influiscono o possono impropriamente influire sugli equilibri politici e sul consenso dei cittadini. Tornando al caso concreto di Mastella, ricordiamoci che fu costretto alle dimissioni da ministro e ritirò il suo appoggio (partito dell’Udeur) al governo Prodi, circostanza che contribuì alla   caduta dell’esecutivo e alle elezioni anticipate che videro il successo della coalizione guidata da Berlusconi. La storia, quindi, avrebbe potuto prendere una piega diversa. Cosa voglio dire? Che i magistrati debbano usare due pesi e due misure? No di certo! Che gli inquirenti usino in ogni caso molta prudenza e non cavalchino l’indifferenziata ansia di giustizia della gente: questo sì.

Qualcuno penserà che, tutto sommato, aveva un po’ di ragione Berlusconi ad attaccare la magistratura. Io so soltanto una cosa: è proprio Berlusconi, con i suoi paradossali e sconcertanti comportamenti da uomo e da politico ad avere rovinato il sistema politico portandolo a regime e ad aver quindi legittimato il giustizialismo a cui anche la politica finì col delegare la battaglia contro il berlusconismo dilagante.

Il discorso su giustizia e magistratura vale anche per la ricerca a tutti i costi del capro espiatorio a fronte di eventi tragici riguardanti ambiente e territorio. Siamo proprio sicuri che non esista la fatalità? Siamo certi che l’uomo, come ha recentemente e provocatoriamente affermato papa Francesco, sia piuttosto stupido. Ma è stupido anche pensare che, tutto e sempre, quel che non va sia riconducibile alle omissioni ed agli errori dell’uomo, magari giudizialmente perseguibili. Se è irresponsabile la scappatoia delle cause di forza maggiore, è superba, presuntuosa e fuorviante la pretesa di scovare sempre e comunque uno scandalo da sbattere in prima pagina. L’uomo non è onnipotente, ha dei limiti e non è sempre detto che le sue colpe siano da galera.

 

 

Scherza coi fanti e lascia stare i santi

Prima e più di pacifista mi sento, a tutti gli effetti, antimilitarista. Sono allergico alla mentalità militare e guardo infatti con senso di compassione coloro che svolgono l’ufficio di Ministro della Difesa. Mi stupisce che una donna accetti di ricoprire un tale incarico, non per sottovalutazione delle doti femminile, ma semmai per sopravvalutazione. Compiango la ministra Pinotti proprio perché mi sembra una donna in gamba, sciupata in mezzo a baionette, sfilate e “presentatarm” .

Figuriamoci con quale gioia io sia venuto a sapere che San Giovanni XXIII è stato nominato, con tanto di bolla pontificia, protettore dell’Esercito italiano. Sulle prime ho pensato a uno scherzo, magari tirato a papa Francesco. Poi mi sono dovuto rassegnare all’evidenza e all’ufficialità della notizia. Meno male che anche il presidente di Pax Christi ha espresso perplessità, constatando lo stridente contrasto tra il papa della “Pacem in terris” e le armi che si troverà sotto la sua giurisdizione patronale.

È vero che Angelo Roncalli è stato uno zelante cappellano militare ed è riuscito a promuovere le virtù cristiane fra i soldati. Non mi sembra tuttavia il modo migliore per indirizzare la sua preferenziale protezione. I Santi patroni di categoria mi hanno sempre fatto sorridere: la santità è una cosa seria da non ridurre a patacca, come se in Paradiso ci fosse un vero e proprio sindacato protettivo.

Qualcuno ha sottolineato, non ho capito se contro o a favore della nomina, come l’Esercito di oggi, formato da militari professionisti e non più di leva, sia molto diverso da quello del passato e che pure il modello di difesa sia cambiato e teso a difendere gli interessi vitali ovunque minacciati o compromessi. E allora?

“Scherza coi fanti e lascia stare i santi” dice il sagrestano nel primo atto di Tosca, quando il pittore Cavarodossi mischia con una certa disinvoltura i visi di donna (ammirata e/o laicamente amata) con il volto di Maria Maddalena da lui dipinto in S. Andrea della Valle. Mi sembra una battuta oltremodo appropriata.

Anche i militari, i soldati, gli ufficiali, i generali, etc. sono popolo di Dio, sono chiamati ad essere buoni cristiani e, perché no, santi: la storia ce ne ha offerto qualche fulgido esempio. Il discorso però è un altro.

Scrive il quotidiano Avvenire: “La ricerca di un patrono per i soldati italiani affonda le proprie radici nel lontano novembre 1996, quando in occasione della consegna della bandiera di guerra dell’Esercito italiano nell’allora ordinario militare, l’arcivescovo Giuseppe Mani, e in moti cappellani militari nacque la domanda sull’individuazione di una figura significativa per questo ruolo. Hanno impiegato 21 anni per arrivare al dunque: deve essere stato un parto piuttosto difficile. Cosa dire? Spero, anzi sono certo che san Giovanni XXIII farà di tutto per evitare ai nostri soldati l’uso delle armi. A proposito della mentalità militare, di cui ogni tanto affiorano episodi disgustosi, basterebbe applicare il Vangelo. A volte, forse sempre, vale la pena fermarsi lì. Il resto potrebbe venire dal maligno, altro che santi protettori…

Lo straripante senno del poi

In occasione di una alluvione in Italia (non ricordo dove e quando, ma non ha molta importanza) mio padre sfoderò una delle sue più belle battute per stile, eloquenza, brillantezza, spontaneità e parmigianità. Di fronte al solito ritornello dei comunisti trinariciuti, quelli col paraocchi, che recitava più o meno “Cozi dal gènnor in Russia in sucédon miga”, mio padre rispose: “ Sät parchè? In Russia i gh’àn j èrzon äd cärta suganta”. Non sopportava infatti la faziosità in generale, detestava la mancanza di obiettività e lanciava questi missili fatti di buon senso più che di analisi politica.

Dopo l’alluvione di Livorno e il solito conseguente rosario della ricerca di facili capri espiatori, me ne sono ricordato e l’ho trovata oltremodo attuale e pertinente. Ai comunisti trinariciuti si sono sostituiti gli ecologisti parolai del giorno dopo.

In tre ore su quella città è caduta la pioggia di un anno: il colore e la tempestività dell’allerta, la perfetta pulizia dei fossi e dell’alveo dei torrenti, il rigoroso rispetto dei vincoli idro-geologici, la costante manutenzione del territorio sarebbero bastati ad evitare i danni di un simile fenomeno catastrofico? Smettiamo quindi i panni del grillo parlante e finiamola con la politicizzazione di questi eventi: il Pd non avrebbe nel suo dna l’ambiente…E chi ce l’ha? Il Papa, come al solito, ci dà una lezione: l’uomo è stupido! Se proprio vogliamo trovare un colpevole su cui scaricare la colpa, siamo tutti colpevoli. Si dirà che i governanti hanno responsabilità. Certamente, ma anche i governati che ne combinano di tutti i colori, anche i cittadini che chiedono tutto e subito, fregandosene altamente del rispetto ambientale e non solo ambientale, persino la difesa del posto di lavoro a volte prescinde dalla salvaguardia della salute pubblica.

Onestamente non so se una diversa politica del territorio possa almeno contenere i danni derivanti da eventi atmosferici straordinari come quello di Livorno e quanto tempo occorrerà prima di averne i benefici effetti. Abbiamo mangiato tutti scriteriatamente ed a crepapelle alla mensa dello sviluppo e del benessere economico; adesso che la tavola si è fortemente impoverita e che su di essa piove a dirotto, “governo ladro”. Non sopporto questo senno del poi di cui sono pieni i fiumi e i torrenti.

Per cui, come si suol dire, calma e gesso. Tra l’altro, non tutto è scientificamente scontato. Non mi riferisco alle farneticazione trumpiane, ma, per fare un esempio, credo che sulla pulizia del greto dei torrenti ci siano due teorie contrapposte: chi la ritiene un obiettivo da perseguire per contenere gli straripamenti e chi la ritiene una spinta ulteriore al precipitare delle acque.   Forse mi sbaglio, ma le questioni non sono così semplici e immediate.

Per il presidente della Repubblica “questa ennesima calamità dovrà sollecitare al più presto nel mondo politico una riflessione seria e approfondita sugli effetti dei cambiamenti climatici e su come difendere efficacemente il nostro territorio”. Non si può che essere d’accordo. Ma attenzione: una diversa politica del territorio imporrà sacrifici, scelte dolorose, conversioni cruente, cambiamenti di mentalità e di aspettative. Non sarà una passeggiata nel bosco. Il risanamento ambientale dovrebbe passare da un contenimento dei tassi di inquinamento atmosferico. Le energie pulite dovrebbero prendere il posto del petrolio e dei suoi derivati. Pensiamo a quali mutazioni comporterà una simile scelta, dai rapporti economici internazionali alle abitudini personali. Partire dal dna del partito democratico, fa sinceramente ridere, come illudersi che i grillini con un tratto di web possano cambiare il mondo. Con tutto il rispetto per gli ambientalisti che chiedono udienza alla sinistra politica e per i cinque stelle che chiedono voti agli italiani scontenti.

 

Gli stupri multicolori

È arrivata la risposta: ai nostalgici che rispolverano immagini fasciste, nel caso si trattava di un uomo di colore che aggredisce una donna bianca con tanto di invito a difenderla dai nuovi invasori, è giunta la peggiore ma eloquente risposta, le donne bianche si devono guardare dai carabinieri italiani. Non è giusto, ma se vale generalizzare verso gli immigrati, deve valere anche per gli uomini in divisa, oltretutto proprio coloro che dovrebbero difendere le donne come del resto tutti dalle aggressioni di ogni tipo.

Questa forzata contrapposizione ci deve insegnare parecchie cose. Non si può e non si deve criminalizzare nessuna categoria di persone, i fatti vanno esaminati oggettivamente e singolarmente, lasciando a chi di dovere l’adozione dei provvedimenti del caso. La violenza sulle donne non è monopolio dei neri e degli immigrati: è un oligopolio assai diffuso ed articolato, che coinvolge persino le donne contro le donne, se è vero, come è purtroppo vero, che le donne nell’esercizio del potere, non solo politico, sono cattive come gli uomini.

La violenza sessuale è un’aberrazione culturale che affonda le proprie radici anche e soprattutto nelle filosofie razziste, xenofobe, oppressive, discriminatorie, quelle che vorrebbero insegnarci come difendere le nostre madri, mogli, sorelle e figlie; essa trova il suo sfogo in tutte le circostanze violente in cui si presenta l’occasione propizia: guerre, torture, regimi dittatoriali, scontri sociali. Laddove c’è una situazione di debolezza per la donna, c’è chi è pronto a sfruttarla, spostandola sul piano sessuale, magari presentandola subdolamente come iniziale difesa e proseguendola come paradossale intesa.

Quando la violenza viene da chi dovrebbe combatterla, quando si fa scudo di una divisa o comunque di un potere affidato o di un ruolo esercitato, diventa la più grave delle anomalie umane e sociali: può trattarsi di un poliziotto, di un carabiniere, di un magistrato, di un politico, di un manager, di un padre, di un fratello maggiore, di un fidanzato, di un marito, di un amico. È perfettamente inutile, ingannatore e illusorio spostare la sporcizia della nostra casa sotto il tappeto dell’immigrazione. Guardiamo nelle nostre case, nelle nostre caserme, nelle nostre aziende, nelle nostre famiglie, troveremo sgradite sorprese.

Sul piano sociale lo sfruttamento e la violenza sulle donne trovano una sorta di istituzionalizzazione nella prostituzione, soprattutto a danno di ragazze immigrate, ingannate e imprigionate nei gangli di un fenomeno ben noto, ma che nessuno attacca con il giusto piglio: tutto ciò fa sorgere non pochi dubbi. Le forze dell’ordine sanno tutto, ma intervengono sporadicamente con qualche risibile retata. Perché? Me lo sono chiesto spesso ed ho trovato due risposte: la paura verso mondi in cui si rischia la vita e l’omertà per non dire la complicità. Se grattiamo la scorza di perbenismo con cui vogliamo difenderci dalle ondate migratorie, non finiamo più di trovare le nostre gravissime colpe e le nostre code di paglia.

Spero che i carabinieri di Firenze paghino per quanto di grave hanno fatto, giudicati senza processi sommari ma con la dovuta severità,   ma non ripieghiamo sul discorso delle mele marce, il marcio è molto diffuso e profondo e bisogna scovarlo e toglierlo, non certo con la scopa sporca, logora e fascista di Forza Nuova.

 

 

Il gioco dell’oca dell’immigrato

Non era difficile immaginare che una certa politica di contenimento dell’immigrazione avrebbe avuto il triste contraccolpo dell’ammassamento dei profughi nei lager libici. Questi disperati, che vengono fermati dalla guardia costiera libica, ritornano all’inferno, anzi sono partiti dall’inferno dei loro luoghi di origine, hanno attraversato l’inferno dei trafficanti e approdano all’inferno dei campi di concentramento: una sorta di macabro gioco dell’oca dell’immigrato.

In questo momento l’Europa sta facendo la politica dello struzzo, mette la testa sotto la sabbia e riconsegna indirettamente i profughi ai loro carcerieri sperando così di risolvere il problema, facendo calare sì gli arrivi, evitando le morti in mare, ma sottoponendo questi disgraziati a torture, violenze, maltrattamenti e umiliazioni.

Non faccio fatica a credere al rapporto e alle accuse di “Medici senza frontiere”. Un paese come la Libia, dilaniato da lotte tribali, diviso in due tronconi, senza uno straccio di classe dirigente, non è in grado di gestire l’emergenza immigrazione. Anche gli eventuali aiuti economici rischiano di essere ininfluenti e di non creare alcun sollievo ai migranti accatastati nei centri di detenzione in attesa di un impossibile ritorno nei loro Paesi.

Penso, spero di sbagliare, che anche in Turchia la situazione non sia molto diversa. Tramite Turchia e Libia stiamo riuscendo a bloccare i traffici, ma non stiamo affatto risolvendo o avviando a soluzione il problema.   Agli annosi ritardi accumulati nella politica verso i Paesi sottosviluppati, aggiungiamo la pretesa di recuperare gli errori e le situazioni drammatiche, allontanando dalle nostre coste la pressione, ributtando indietro i fuggitivi e spostando il tutto in campo neutro.

Come minimo bisognerebbe avere il coraggio di controllare veramente quanto succede in questi luoghi di decantazione del problema e non limitarsi a prendere atto con soddisfazione dei risultati ottenuti in mare. Il problema è enorme e nessuno ha la ricetta in tasca. Però l’Europa deve trovare una politica comune che ripartisca equamente i sacrifici, deve stanziare le risorse materiali e umane necessarie, deve “intromettersi” in questi Stati per favorirne un minimo di responsabilizzazione democratica, deve guardare meno alle urne elettorali e più alla gente che soffre e muore, deve riuscire a rasserenare il clima tranquillizzando i “poveri nostrani” e togliendoli dall’inganno della contrapposizione ai ”poveri stranieri”, deve cessare di rincorrere i fantasmi populistici per battere i populismi, deve parlare chiaro ai cittadini senza nascondere i problemi e la verità.

Se sapessimo riflettere di fronte all’orrore dei morti in mare, dei profughi sfruttati dai trafficanti, delle torture inferte ai migranti intercettati e riportati indietro, se alla sera, prima di addormentarci, avessimo il coraggio di pensare a come (non) dormiranno gli ospiti (?) dei campi di concentramento in Libia e forse anche nei centri di accoglienza in Italia, i Salvini di turno dovrebbero cambiare mestiere, gli imprenditori della paura dovrebbero rischiare sulla propria pelle e non speculare su quella degli altri, i politici tutti dovrebbero aprire la mente e il cuore e fare fino in fondo il proprio dovere.

Non parto però dai politici, ma dai singoli cittadini che devono smetterla di mentire spudoratamente a loro stessi criminalizzando un fenomeno che, se di criminale ha qualcosa, dipende in tutto e per tutto anche dal nostro passato e dal nostro presente. È comodo scandalizzarsi se delinque un immigrato e sorvolare sulla delinquenza nostrana a tutti i livelli; è scorretto pensare che chi ha fame voglia rubarci il pane; è inaccettabile far finta di credere che i migranti siano terroristi camuffati da poveracci. Sconfiggiamo questi vergognosi luoghi comuni. Poi potremo discutere seriamente e pretendere che la politica faccia la sua parte, che è anche la nostra parte.

La marcia dell’antistoria

L’Italia è il più bel paese del mondo, non la cambierei con nessun altro, ma diamoci una regolata: dove vogliamo andare? Stiamo ben attenti perché qualcuno ci convoca per rifare la marcia su Roma il 28 ottobre prossimo. A Parma, qualche anziano cade ancora, in buona fede, nell’errore di chiamare piazza 28 ottobre l’attuale piazza Giacomo Matteotti. Fare casino su tutto e su tutti porta anche a queste assurdità: non quella di sbagliare il nome di una piazza, ma quella di sbagliare il verso della storia. Non ci manca più che rimettere in discussione l’articolo uno della Costituzione in nome della libertà di essere fascisti o nazi-fascisti. Un movimento lo si trova sempre, anzi c’è già e si chiama Forza nuova. Qualche imbecille disposto ad andare in strada a sbraitare slogan mussoliniani ed a fare saluti romani c’è, eccome. Parecchi soggetti violenti, dipendenti visceralmente dai propri impulsi incontrollati, non aspettano che l’occasione per sfogarsi.

Se fossero episodi marginali, particolari e isolati, ci sarebbe da ridere o piangere a seconda dei gusti. Se invece li contestualizziamo c’è di che preoccuparsi. La deriva razzista parte in quarta dagli Usa di Donald Trump, dove si sta spegnendo il sogno di 800 mila figli di clandestini regolarizzati provvisoriamente, che rischiano di essere mandati paradossalmente nei Paesi di origine dei loro genitori, a loro (quasi) totalmente sconosciuti; dove si vogliono alzare veri e propri muri verso il Messico; dove si vuole bloccare l’ingresso di persone provenienti da Paesi in odore di terrorismo. Negli Stati Uniti un tempo non entravano i comunisti, oggi il comunista più potente e vomitevole del mondo, Vladimir Putin, gioca a scacchi con Trump e non entrano, addirittura escono i poveri diavoli. Come cambia il mondo!

I Paesi dell’Est europeo, facenti parte un tempo del blocco comunista, dove la gente scappava verso ovest per sottrarsi al gioco totalitario, oggi, dopo essere stati accolti fin troppo rapidamente nella Ue e goderne gli aiuti, si permettono il lusso di chiudere le porte ai disgraziati africani e non c’è verso di farli ragionare, perché non retrocedono nemmeno di fronte alle sentenze della Corte Ue, che impone a tutti gli Stati membri il rispetto dei patti in materia di ripartizione dei migranti.

In Francia si insiste nell’assurda e inapplicabile distinzione tra profughi e migranti economici, come se chi scappa dalla guerra fosse da considerare un uomo di serie A, mentre chi fugge dalla miseria e dalla fame fosse una persona di serie B.

In Germania dopo avere svenduto con i soldi europei una buona fetta di immigrati alla Turchia, si balla nel manico e si rivedono le precedenti aperture fin troppo spinte. La Gran Bretagna è scappata dalla Ue soprattutto a causa del problema migranti ed è tutto dire.

L’Italia, che fino ad ora si era distinta per l’atteggiamento aperto e disponibile, in mezzo ad un’azione seriamente impegnata, sta tuttavia spostando i discorsi sotto il tappeto libico e balbetta persino sullo Ius soli, un provvedimento di civiltà molto simile a quanto fece, seppure non in via definitiva, Barak Obama con una direttiva a favore dei baby migranti (oggi in via di revoca da parte dell’amministrazione Trump).

Questo è, più o meno, il contesto sostanzialmente razzista in cui ci troviamo. Ebbene qualcuno si alza un bel mattino e convoca una marcia su Roma in nome del fascismo, che aveva nel razzismo uno dei suoi connotati principali. Il conto purtroppo si chiude in “nero”. È possibile ricadere all’indietro fino al punto di rimpiangere la dittatura fascista? Sembrerebbe proprio di sì. Non credo si tratti di intervenire legislativamente e/o per fare rispettare le leggi esistenti: anche questo serve. Mi sembra una questione culturale, che richiede discorsi molto più impegnativi. Forse si tratta di rivedere il concetto di democrazia, non più inteso solo nella difesa delle libertà individuali e collettive, ma aperto sugli scenari mondiali del progresso dei popoli e delle genti tutte.

Interroghiamoci seriamente, non giochiamo con le paure, non andiamo al ballo mascherato della storia passata. Vogliamo ragionare o ci stiamo bevendo il cervello?

 

Se il diluvio è universale, globalizziamo la solidarietà

Tra un diluvio e un terremoto, tra un uragano e uno tsunami, tra un ciclone e un’alluvione, tra piogge distruttive e siccità: ogni giorno ha la sua immensa pena atmosferica. Resto, come tutti, impressionato e paralizzato di fronte a questa successione di eventi che ci colpiscono. Poi mi faccio qualche domanda e azzardo qualche risposta.

In alcuni casi la furia degli eventi è complicata e aggravata dall’opera dell’uomo che ha fatto e fa un uso scriteriato della natura. Al di là del comportamento umano c’è l’ineluttabile forza della natura che ci dona tutto, ma in un attimo ce lo può togliere.

Tutto ciò, se lo vogliamo capire, ci fa sentire piccoli, ridimensiona le nostre assurde certezze e sicurezze, precarizza la nostra esistenza, rimette le cose in un certo (dis)ordine, può addirittura creare un senso di colpa nelle vittime dei cataclismi.

Gesù, interrogato al riguardo, si limitò ad escludere categoricamente un interpretazione disciplinare delle catastrofi e invitò tutti alla conversione pena il vero disastro, quello dell’uomo.

Se vogliamo quindi metterla sul piano religioso, i disastri ambientali non sono castighi divini; se vogliamo rimanere rigorosamente coi piedi in terra, non possono essere spiegati solo come autoflagellazioni dell’uomo egoista e distruttivo. Non ci troviamo in presenza di un diluvio universale a rate, né di una paradossale e squilibrata guerra continua tra l’uomo e la natura.

Qualcosa però questi eventi devono dirci, non è possibile accettarli supinamente o rimuoverli comodamente. Le reazioni spontanee vanno dalla rassegnazione alla maledizione, dal fregarsene bellamente fino al prossimo cataclisma che ci tocchi direttamente al lasciare che ognuno si gratti il proprio disastro.

Innanzitutto è ora che interrompiamo ogni e qualsiasi comportamento, che possa, direttamente o indirettamente, a breve o a lungo termine, compromettere i meccanismi della natura, la quale, se non viene rispettata, trova il modo di farsi rispettare.

In secondo luogo la scienza anziché essere orientata al mero sfruttamento speculativo della natura dovrebbe occuparsi anche e soprattutto della salvaguardia dell’ambiente naturale: siamo capacissimi di costruire armamenti sempre più sofisticati, ma difettiamo nella ricerca finalizzata al bene comune.

In terzo luogo dobbiamo globalizzare la solidarietà, condividere le difficoltà, prevedere una sorta di protezione civile internazionale che soccorra quanti restano vittime degli eventi calamitosi.

L’economia aziendale prevede che quando le cose vanno bene si accantonino utili nei fondi di riserva a copertura di perdite future e da reinvestire per migliorare e sviluppare l’attività. Se globalizziamo questo elementare concetto faremo qualcosa di serio a livello planetario, della serie “aiutati che il ciel ti aiuta”.

Nella mia notevole frequentazione, a livello professionale, con gli agricoltori sono sempre rimasto colpito dal loro atteggiamento di fronte agli andamenti stagionali sfavorevoli se non addirittura disastrosi. Niente imprecazioni, niente “piove governo ladro”, niente rassegnazione, solo rimboccarsi le maniche e guardare il tutto con occhio lungo e largo.

A tale proposito ricordo quanto diceva un caro amico, appartenente appunto alla categoria degli imprenditori agricoli, di fronte alla siccità e ad altri fenomeni naturali anomali: «Un tempo, quando succedevano simili eventi, voleva dire patire la fame, oggi ce la possiamo cavare guadagnando un po’ meno o compensando le perdite attuali con gli utili pregressi». Una magistrale e completa sintesi di quanto suddetto.

Ci vorrebbe un vaccino contro la demagogia

Ho un ricordo abbastanza preciso della mia vaccinazione antivaiolosa: non ricordo l’età (eravamo comunque all’inizio degli anni cinquanta), rammento lo stile arcigno dell’anziana dottoressa incaricata, la mia normale paura aumentata dagli strilli degli altri bambini vaccinati prima di me, le perplessità di alcune mamme molto simili a quelle odierne nei confronti dei vaccini, che nel frattempo sono fortunatamente cresciuti di numero e di efficacia.

Devo dire la verità: anche se non sono un credente assoluto nella scienza medica (la mia fede totale la ripongo, a fatica, solo in Dio), ritengo che il discorso dei vaccini non possa essere messo in discussione e che, quindi, il movimento no vax non abbia ragioni sostanziali e motivazioni plausibili. Puzza molto di strumentale la contrapposizione fra lo Stato che determina l’obbligo per i vaccini e alcune regioni (Veneto e Lombardia), che menano il can per l’aia e si schierano più o meno contro la coercizione e a favore del metodo del dialogo e del convincimento.

Mi sembra che la legge fissi un obbligo, oserei dire scontato, e preveda le eccezioni in casi particolari e motivati di incompatibilità, allergie e contro-indicazioni precise (al riguardo ne so qualcosa essendo un soggetto portatore di numerose allergie verso farmaci ed antibiotici). Non sono un costituzionalista, ma ritengo che queste possibili contrapposizioni legislative tra Stato e Regioni vadano eliminate: non è possibile che in Emilia le vaccinazioni siano obbligatorie mentre in Veneto no. Non si tratta di autonomia regionale, si tratta di demenziale governo della salute pubblica.

Tutti vogliono fare i primi della classe. Mi sembra che si debba portare almeno rispetto ai percorsi scientifici e agli scienziati che ci hanno messo a disposizione questi strumenti, senza voler invertire il progresso scientifico. Ma “il bello” viene quando ci scandalizziamo per la morte di una bambina a causa della malaria, buttiamo la croce addosso a chi non l’ha saputa difendere, analizzare e curare e poi, quando abbiamo gli strumenti per immunizzarci rispetto a certe malattie facciamo gli schizzinosi, gridiamo al golpe scientifico, agli sporchi interessi dell’industri farmaceutica, alla violazione della libertà.

Abbiamo il gusto della polemica fine a se stessa, vogliamo la botte piena e la moglie ubriaca, politicizziamo tutto, persino i vaccini, e poi ci lamentiamo della politica invadente; vagheggiamo un governo di tecnici e poi ai tecnici non crediamo nemmeno se trattasi di autorevolissimi esponenti della comunità scientifica; ci lamentiamo dei ministri inconcludenti e fannulloni e poi se osano intervenire su questioni di primaria importanza ci appelliamo all’autonomia regionale e alla libertà personale; non ci rassegniamo (giustamente) a morire di malattia e poi non vogliamo prevenire le malattie stesse, temendo i rischi di vaccini e farmaci di cui peraltro facciamo un uso personale spropositato e ingiustificato; vogliamo sempre trovare un colpevole (il sistema sanitario ha indubbiamente parecchie colpe), poi, quando si vogliono mettere in atto barriere contro i rischi di infezioni pericolose o letali, arricciamo il naso e tiriamo in ballo l’impurità dei vaccini (chi deve controllare lo faccia, ma è tutto un altro discorso: sarebbe come rifiutarsi di mangiare la carne perché in certi casi è stata trovata inquinata.

C’è però anche uno strano link fra i due discorsi, quello dei vaccini e quello della malaria: qualcuno infatti è arrivato al punto da lasciare intendere che la morte della bambina per malaria possa essere in qualche modo conseguenza deleteria della vaccinazione a cui era stata sottoposta. Non capisco quale possa essere il collegamento, forse lo scombussolamento del sistema immunitario potrebbe avere esposto la piccola a questa contaminazione? Siamo ad un passo dal fanatismo, dall’isteria. Sotto sotto ci puzza di politica, infatti qualcun altro non esita a colpevolizzare i migranti rei di esportare malattie in cambio della nostra accoglienza. Cosa importa se la malaria si contrae dagli insetti? Le zanzare killer sarebbero al seguito dei profughi. Siamo a metà strada fra la follia e la demagogia. Di questo passo moriremo tutti di fame, di malattie e di paure. E ce lo saremo ampiamente meritato.

Tra l’Onu e niént da sén’na…

Non so se capita solo a me, ma, quando nei telegiornali sento parlare di Onu e di riunione del suo Consiglio di sicurezza, mi viene spontaneo cambiare canale. Se non si vuole   risolvere un problema si costituisce una commissione ad hoc, se non si vuole risolvere un problema internazionale si fa una riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Questo organismo, a cui dovrebbero essere delegate le questioni più spinose relative ai rapporti fra le nazioni del mondo, si riduce infatti a una palestra di inconcludente diplomazia, in cui si esercitano le grandi potenze con abbondanti schermaglie, che lasciano le cose come stanno o addirittura rischiano di peggiorarle.

Se aspettiamo che i grandi seduti attorno al tavolo, ovale, rotondo o quadrato che sia, risolvano i problemi mondiali, stiamo proprio freschi. A parte l’anacronistico e paralizzante diritto di veto, quelle riunioni assomigliano in tutto a una infinita partita a scacchi dove non si sa chi sia il Re e la Regina, ma forse si capisce molto bene chi sono le semplici pedine. Tra queste ultime metto certamente la Corea del Nord col suo ineffabile e paffuto Kim Jong-un: se Russia, Cina e Stati Uniti avessero fra di loro un minimo di spirito collaborativo, questo assurdo leader potrebbe andare tranquillamente a giocare a flipper anziché divertirsi con i missili e le bombe nucleari. Ma fa comodo, ora alla Cina per dimostrare che è diventata a tutti gli effetti una superpotenza competitiva e decisiva, alla Russia per significare che senza Putin non si combina nulla, agli Usa per fornire l’alibi alla mostra dei muscoli gonfiati di Donald Trump.

Le sanzioni sono da sempre una misura inutile e dannosa per la convivenza pacifica: fanno scontare ai sudditi le colpe dei loro capi, rinsaldano al potere i dittatori sparsi per il mondo, danneggiano tutto e tutti, creano solo confusione e ingiustizie, vengono platealmente violate soprattutto a livello di rifornimento di armi.

Mi sto chiedendo se Kim Jong-un stia sfuggendo di mano ai suoi alterni burattinai. La differenza infatti tra gli equilibri del terrore passati e quelli presenti sta tutta nell’autorevolezza e nella ragionevolezza dei contendenti. Fino ad ora avevo la sensazione che sapessero almeno quando era ora di smetterla di giocare alla guerra e di fare sul serio. Sul senso di responsabilità di Putin, Trump e Xi Jinping non scommetto neanche un euro; i Brics li ritengo dei bric-à-brac e poi di bricchi preferisco quelli del latte.

Si parla di attacchi preventivi, roba da far accapponare la pelle. Il più è cominciare poi… anche l’Iran è un’altra Corea dietro l’angolo del trumpismo, gli Hezbollah del Libano rompono i coglioni a Israele…

L’Europa conta come il due di coppe e sta a guardare tutta compresa nei casini delle proprie porte girevoli, nelle chiacchiere sul problema migranti e sulle perpetue tornate elettorali dei suoi Stati-membro. Il Giappone trema, la Corea del Sud nicchia etc. etc.

L’unica speranza è che la crescente pluralità di protagonisti significativi possa in qualche modo abbassare la posta in palio e spiazzare la Corea del Nord. Come quando in una famiglia si litiga talmente tanto e tutti contro tutti da finire col prenderci l’abitudine, riuscendo a convivere e frenando indirettamente le intemperanze dei più scalmanati. Certo che ridurre la politica internazionale a rissa da cortile è molto rischioso oltre che vergognoso. Altro che realpolitik…

Tornando all’Onu, questo organismo pletorico e inconcludente, mi viene da concludere con un’amara battuta parmigiana: “tra l’Onu e niént da sén’na…”.

 

 

La disintossicazione dalla politica politicante

La lingua batte dove il dente duole…Continua la riflessione sulla politica ciarlatana e sul rischio della fuga qualunquista. Non so se sia colpa del caldo (soffro anche se ammetto che non ci sia niente di straordinario se d’estate si suda), ma faccio una fatica enorme a seguire la politica sui giornali e sulle televisioni: un senso di sazietà che rischia di portarmi progressivamente e pericolosamente al rifiuto. Sto diventando un qualunquista? Dal momento che il torto e la ragione non stanno sempre e solo da una parte, sicuramente io avrò le mie colpe, ma anche i politici e i politicanti hanno le loro.

Comincio onestamente dalla mia sponda per ammettere che col passare degli anni sono portato a un po’ di pigrizia mescolata a presunzione: la stanchezza di affrontare gli enormi problemi della nostra società, obiettivamente oltre la mia portata,   la presunzione di affrontare argomenti e discorsi già sentiti e risentiti. Queste sensazioni dovrebbero essere convertite in saggezza, ma non è facile e allora rischiano di afflosciare la volontà e la combattività per lasciare posto alla superba rassegnazione.

Lascio da parte la psicologia e vengo all’altra sponda: il dibattito politico. Chi scrive, molto spesso lo fa per mera routine giornalistica o editorialistica. Chi parla, lo fa per spettacolarizzare il proprio operato e le proprie idee. Il tutto crea un clima insopportabile e inagibile. Parlando con amici e conoscenti raccolgo adesioni convinte in tal senso. Qualcuno da parecchio tempo mi ha autorevolmente consigliato di ridurre allo stretto necessario la lettura dei giornali per privilegiare quella a livello di saggistica storica di alto bordo e di narrativa. Finora però la tentazione di rimanere al passo con la cronaca mi ha frenato e incollato ai giornali.

Nella mia vita, purtroppo, ho assunto le decisioni importanti sull’onda (meglio dire sotto l’onda) traboccante degli eventi: forse sta succedendo così anche per la politica. Sono tanti e tali le cazzate che girano da indurmi ad un significativo passo indietro. Faccio un esempio per spiegarmi meglio. È opportuno piegarsi a leggere le strategie del centro destra italiano, tra personaggi squallidi o improvvisati che pontificano sul nulla, oppure è meglio approfondire il ruolo storico della destra fra liberalismo, conservatorismo e estremismo? Lo stesso discorso, fatte le debite differenze, può valere per il centro-sinistra. È inutile perdersi dietro le stramberie di Beppe Grillo: meglio studiare i rapporti storici fra democrazia, partecipazione, popolarismo e populismo. Poi magari, solo per rilassarsi e sorridere, si può anche leggere di Berlusconi, Salvini, Grillo; per incazzarsi meglio Bersani e D’Alema; per stordirsi pensare a Renzi.

Proposito post-ferragostano: una terapia sperimentale a scalare. Non mancherò di tenere informati i miei scarsi ma carissimi lettori sugli effetti. Ogni cura ne ha di collaterali: speriamo che, nel mio caso, non si scateni una vera e propria reazione allergica alla politica. Per uno come me sarebbe un autentico disastro culturale ed un fallimento qualunquista. Ho avuto educatori esemplari al riguardo: mi sapranno salvare?!