Adésa vag a ca, ansi cag vaga chiätor

Durante la mia bella e stimolante esperienza di componente della commissione teatrale del Regio di Parma, un autorevole e titolato collega mi metteva in crisi con la sua professionalità e mi stupiva per il distacco con cui viveva gli eventi musicali: con i suoi atteggiamenti sembrava sempre ribadire la superiorità della musica nella sua assolutezza artistica rispetto alla relatività delle pur apprezzabili esecuzioni sinfoniche e operistiche.

Sul più bello di infuocate riunioni o di interessanti rappresentazioni, si alzava in piedi, si vestiva di tutto punto (cappello compreso) e sorprendeva tutti con un lapidario “Adésa vag a ca…”. Una volta a richiesta spiegò come il motivo fosse il suo impegno antelucano di studio che gli imponeva di addormentarsi presto per essere appunto in grado di affrontare questo giornaliero preludio alla sua normale attività professionale in campo musicale. Non c’era verso di trattenerlo. Lo ammiravo per questa sua dedizione alla musica vera mentre io mi “distraevo” con la musica in teatro. Nei suoi gesti e nelle sue scelte non c’era niente di presuntuoso o di polemico, non intendeva prendeva le distanze dalle scelte operate dalla commissione ai cui lavori partecipava sempre, né pensava di snobbare gli spettacoli del Regio a cui non mancava mai: si teneva solo questo spazio di autonomia, quasi un ticket da pagare a chi la musica la componeva, rispetto a chi la eseguiva.

Mi è venuto spontaneo fare uno strano parallelismo tra l’autentico purismo di questo musicista e il purismo tattico di certi politici di sinistra, che nei momenti topici del dibattito e dello scontro si alzano in piedi e se ne vanno sbattendo la porta e gridando “Vag a fär un partì”. Il mattino dopo non si alzano presto per studiare, ma brigano per attaccare il gruppo a cui appartengono e per costituirne uno nuovo. Mentre in passato queste storiche frizioni e frazioni della sinistra erano giustificate da questioni ideologiche (massimalismo-riformismo; oriente-occidente; governo-opposizione) oggi sono caratterizzate da calcoli contingenti e strumentali (job’s act sì o no; Renzi sì o no; coalizioni sì o no). Quando uno non è d’accordo si alza, se ne va e fa un nuovo partito: i motivi e una manciata di voti si trovano sempre.

Poi magari di partitini ne fanno tre o quattro, si mettono a litigare fra di loro, dividono e disorientano l’elettorato di sinistra, fanno vincere la destra, ma il loro onore è salvo. Se durante la Resistenza al fascismo e all’indomani della caduta del regime i politici di sinistra fossero stati altrettanto radicali, avremmo ancora la monarchia e la Costituzione sarebbe di là da venire.

La politica è l’arte del compromesso ai più alti livelli possibili e non quella di segnare il proprio territorio come fanno i gatti. Superato definitivamente il bivio vocazionale sinistra di lotta-sinistra di governo, bisogna discutere di contenuti in un partito largo, plurale, aperto e innovativo, senza incaponirsi in questioni identitarie farlocche e senza difendere burocraticamente il passato che non torna più. Nella bagarre dalemian-bersanian-pisapiana vedo questo arroccamento sentimentaloide a parole, di potere nei fatti, che di politico ha ben poco. Il partito democratico è contendibile dall’interno e non sputtanabile dall’esterno. Renzi non sarà quel carismatico leader che occorrerebbe, ma nemmeno un disertore o un traditore. La linea politica può essere ampiamente discussa e migliorata. La classe dirigente può essere tranquillamente riverificata e aggiornata. Tutto ciò non autorizza nessuno ad alzarsi in piedi, a vestirsi di tutto punto (cappello compreso) e a gridare “Adésa vag a ca…”. Anche perché questi signori non vanno mai a casa e vogliono solo mandarci gli altri.

 

 

La violenza è sempre terroristica

Mia madre così come era rigorosa ed implacabile con il comportamento degli anziani -affidava loro una grossa responsabilità a livello educativo – era portata a cercare di comprendere i comportamenti delinquenziali, commentando laconicamente: “Jén dil tésti mati”. Qui mio padre, in un simpatico gioco delle parti, ricopriva il ruolo di intransigente accusatore: “J én miga mat, parchè primma äd där ‘na cortläda i guärdon se ‘l cortél al taja. Sät chi è mat? Col che l’ ätor di l’ à magnè dez scatli äd lustor. Col l’ é mat!”.

Mia madre opterebbe per la pazzia dell’autore della strage di Las Vegas (una sessantina di morti e oltre cinquecento feriti tra i partecipanti ad un evento musicale), mentre sono sicuro che mio padre insisterebbe sulla sua teoria del “lucido da scarpe”. La gratuità del gesto e l’epilogo suicida fanno effettivamente propendere per un episodio di pura follia, mentre l’enorme dotazione bellica, la   meticolosa organizzazione e la precisione di mira spingono ad ipotizzare un atto di criminalità.

Se è pazzia, gli americani devono fare i conti con la loro follia di consentire a un folle il possesso di un vero e proprio arsenale militare: la storia degli Stati Uniti è ricca di episodi di questo genere anche se questa volta si è battuto ogni macabro record. È vero che il proibizionismo delle armi non garantirebbe la società da questi episodi di violenza, ma consentire un facile accesso alle armi non è comunque il miglior antidoto alla violenza di qualsiasi tipo essa possa essere. Finora, lo sanno tutti, hanno prevalso gli interessi di un’industria fiorente, quella delle armi: è così negli Stati Uniti ed è purtroppo così in tutto il mondo. La fabbricazione, il commercio, l’uso delle armi sono l’indiscutibile presupposto di ogni forma di guerra.

La follia quand’è che diventa vera e propria criminalità? Quando risponde ad un disegno interessato di eliminazione del proprio simile. Il disegno può riguardare il potere, il denaro, il sesso, la vendetta, la politica, la religione, la razza. In questa fase storica siamo portati a ricondurre ogni e qualsiasi violenza al terrorismo e segnatamente al terrorismo islamico. Dopo qualsiasi fatto di sangue a valenza sociale ci poniamo lo stucchevole ed esorcizzante quesito: sarà terrorismo islamico? E anche questo è un risultato a cui punta la strategia dell’Isis e c.

Tornando all’episodio sconvolgente e choccante di Las Vegas, è sicuramente un atto fondato sul terrore: terrorismo psicologico e/o politico-religioso? Forse, tutto sommato, sono le due facce di una stessa medaglia: la violenza fatta sistema che coinvolge tutti gli aspetti della nostra vita.

Alla base di qualsiasi atto delinquenziale c’è sempre qualcosa di folle (aveva pienamente ragione mia madre), ma è altrettanto vero che la violenza è sempre criminale (quindi, in un certo senso, aveva ragione anche mio padre). Da riconoscente figlio tendo a sintetizzare ed attualizzare gli insegnamenti famigliari.

L’unica paradossale risposta è la non-violenza, senza se e senza ma. Difficilissimo attuarla a tutti i livelli. Fin dove può spingersi infatti la legittima difesa a livello individuale e collettivo? Quando la difesa diventa armata tendo a considerarla illegittima. L’uso delle armi anche da parte delle forze di polizia non risolve i conflitti, ma li accende ed oltre tutto espone i poliziotti a rischi enormi.

Di fronte ai continui attacchi tendiamo a pensare che sia risolutivo controllare, schedare, infiltrare, bloccare, sparare, bombardare, etc. etc. Sì, in teoria tutto può fare brodo. Ma non ne usciamo. Gli Usa di Trump ci stanno trascinando in una deriva guerrafondaia spaventosa: non è certo colpa di Trump la carneficina di Las Vegas, ma non è certo con le sue politiche che si combatte la violenza. Vale per Trump e vale per ognuno di noi.

 

 

 

Il naso della Catalogna

Devo confessare che faccio fatica, in un mondo globalizzato come l’attuale, a comprendere le ragioni dei separatisti della Catalogna e, in generale, di tutti i separatisti. Solo dove l’indipendenza riguarda la lotta alla discriminazione e alla mancanza dei diritti fondamentali, civili, religiosi e politici, capisco e condivido queste spinte (è il caso dei Curdi e di altre popolazioni represse).

Dove la democrazia garantisce il rispetto delle minoranze, dove addirittura vigono sistemi piuttosto avanzati di autonomia regionale, temo che sulle pulsioni separatiste soffi il vento della protesta generale e l’illusione di risolvere meglio i propri problemi chiudendosi, egoisticamente e irrazionalmente, nel particolare.

Certo sarebbe più che auspicabile che questi conflitti fossero affrontati e risolti nella ragionevolezza diplomatica piuttosto che con la forza della polizia, anche perché, reprimendo questi moti indipendentisti, si alimenta ulteriormente la smania di queste popolazioni e si lascia covare sotto la cenere un fuoco che prima o poi sprigionerà fiamme ancor più alte e pericolose.

Mi fermo qui, non ho infatti conoscenze sufficienti per approfondire storia e cultura che possono sottendere a questi fenomeni, anche se vale il discorso di fondo, forse un poo’ semplicistico, che sia molto meglio unire le forze piuttosto che separare le debolezze.

Voglio invece soffermarmi un attimo sulle reazioni politiche italiane agli scontri della Catalogna.

I cinque stelle naturalmente dove sentono odore di protesta si buttano a pesce e quindi che i grillini sostengano i separatisti catalani è quasi scontato. Anche il Pd ha assunto un atteggiamento in linea con la sua impostazione politica: una morbida ricerca di compromesso etico-storico tra Spagna e Catalogna, tra unità nazionale e autonomia regionale con la benedizione europea e le polizie possibilmente relegate in caserma.

Fa invece scalpore la divergenza clamorosa all’interno del centro-destra. Mentre Fratelli d’Italia diventa, nel caso, Fratelli di Spagna e non ammette alcuna discussione sull’unità nazionale spagnola, la Lega di Salvini – peraltro senza esagerare e nascondendosi dietro i referendum promossi dalle regioni Lombardia e Veneto per rafforzare la loro autonomia (separatismo da operetta) – chiede il rispetto della volontà popolare e quindi delle aspirazioni indipendentiste dei Catalani (una sorta di revival bossiano e di ritorno ai bei tempi della Lega Nord). Forza Italia tenta di mediare “l’immediabile” e questo non costituisce una novità rilevante.

Non so tuttavia come si possa stare con la difesa oltranzistica spagnola strizzando l’occhio all’indipendentismo catalano: mistero della fede destrorsa. Se la vedranno gli elettori orientati in tal senso. Resta la pochezza tattica della politica nostrana. Ogni occasione è buona per non guardare oltre il proprio naso.

 

Papa Francesco tra fischi teologici e finti applausi

L’unico personaggio sulla scena italiana e mondiale che fa vera notizia e tendenza è papa Francesco. Non manca giorno in cui i suoi pronunciamenti non tocchino nel vivo della carne politica oltre che religiosa, soprattutto sulle tre questioni che dominano la scena, vale a dire la buona politica, la buona accoglienza e il buon lavoro.

Durante i suoi ultimi viaggi a Cesena e Bologna ha fatto affermazioni rilevanti sulla politica che non deve essere asservita alle ambizioni individuali o alla prepotenza di fazioni o centri di interesse e che non deve essere né serva né padrona, ma amica e collaboratrice, non paurosa o avventata, ma responsabile e quindi coraggiosa e prudente allo stesso tempo, che deve far crescere il coinvolgimento delle persone, la loro progressiva inclusione e partecipazione, che non lasci ai margini alcune categorie e non saccheggi e inquini le risorse naturali. Ha tracciato un vero e proprio identikit etico dell’uomo politico: un “martire” del servizio, perché lascia   le proprie idee, per metterle al servizio del bene comune.

Sul discorso economico ha chiesto la relativizzazione del profitto ed ha richiamato il “Patto per il Lavoro” sottolineando l’importanza del dialogo e l’indispensabilità del welfare.

Ha insistito poi sulla necessità che un numero maggiore di Paesi, con acuta visione e grande determinazione, adotti programmi di sostegno privato e comunitario all’accoglienza e apra corridoi umanitari per i rifugiati, per i migranti definiti “lottatori di speranza”, che devono aprirsi alla cultura e alle leggi dei Paesi ospitanti.

Sarebbe interessante aprire il dibattito sui contenuti dell’azione pastorale di Francesco, non per fare da cassa di risonanza ai reazionari (cercano la rissa teologica), non per solidarizzare col papa (ha ben altri ed autorevoli avvocati difensori che siedono alla destra del Padre), ma per scendere dalla superficialità dell’applauso facile alla concretezza dell’adesione difficile. Non mi interessa più di tanto cosa scrive Avvenire, arrivo a sottovalutare persino le pur importanti posizioni episcopali, sarei curioso invece di capire cosa ne pensa la periferia cristiana. Non so nelle altre diocesi, ma a Parma, come al solito, tutto tace. Vige un regime di piatto e silenzioso conformismo. A cosa? Non sarà il momento, prima che sia troppo tardi, di   prendere posizione a parole e soprattutto in opere? Non chiedo un referendum con un sì o un no a papa Francesco. Peraltro mi sembra sbagliato far dipendere la Chiesa dalle labbra del pontefice. Tuttavia i suoi pressanti inviti non possono lasciare indifferenti, così come non si possono passare sotto silenzio certe cazzate teologiche a lui ostili, non si possono tenere atteggiamenti ambigui del tipo “il papa ha ragione, ma gli immigrati…” e nemmeno applaudire asetticamente con adesioni teoriche che lasciano il tempo che trovano.

Lasciamo stare un attimo le questioni sessuali che oltretutto da sempre fanno da paravento alla conservazione sociale: oggi è il turno degli immigrati. Il papa li difende troppo e dà fastidio. Lo ius soli sta diventando un banco di prova anche per il Vaticano e sta finalmente scoprendo gli altarini di certe strumentali vicinanze politiche. Credo che la popolarità di Francesco sia a rischio in tutti i sensi, ma lui non deve mollare. Va benissimo pregare per lui, ma aiutiamolo anche con i fatti: della serie “aiutati che papa Francesco ti aiuta”.

Cinque stelle e cinquanta voti

Volenti o nolenti le prospettive della politica italiana passano anche dal movimento cinque stelle: parecchi Italiani, disperati e schifati, sarebbero propensi a dare fiducia a questo movimento in vista delle prossime elezioni per il Parlamento. I pentastellati sfruttano una serie di contingenze a loro favorevoli, direi soprattutto tre fattori: la crisi economica che inasprisce gli animi, la corruzione che squalifica i partiti, gli immigrati che mettono a repentaglio gli equilibri sociali.

Su questi punti i grillini (continuo a chiamarli così nonostante Di Maio) non hanno proposte, si fermano alla protesta, e, se le hanno, esse si limitano ad aspetti marginali che fanno solo scalpore. Sull’economia puntano sul reddito di cittadinanza, che è un atto di sostanziale impotenza: garantiamo a tutti un minimo vitale, cioè fermiamo l’alluvione a valle, una non soluzione del problema che però ha il suo populistico effetto.

Per quanto concerne la lotta alla corruzione vogliono imporre la cura dimagrante ai partiti ed ai loro rappresentanti: un po’ come combattere un conclamato tumore con una dieta ferrea. Non è indebolendo la politica che si allontana la tentazione della corruzione, anzi solo una politica forte ed autonoma riuscirà a recidere i legami con le mafie e l’affarismo. Abbattere gli stipendi e le pensioni dei parlamentari crea tuttavia un certo superficiale consenso elettorale.

Venendo agli immigrati le cose si complicano. Su tale complessa problematica i cinque stelle ondeggiano e strizzano l’occhio ora agli uni ora agli altri: sono passati dall’eliminazione del reato di clandestinità al suo mantenimento; sullo ius soli fanno gli apertoni mentre sulle ong fanno i rigoristi, il privato sociale non sanno nemmeno cosa sia, si limitano a censurare quel che fanno gli altri e dimostrano di non avere nessuna visuale complessiva e di dare un colpo al cerchio ed una alla botte. Questa tattica consente loro di rincorrere le proteste del momento e di catturare episodici consensi.

Prima o dopo la gente passerà dalla pura protesta al bisogno di soluzioni concrete e allora il risveglio grillino sarà piuttosto sgradevole. Sì, perché si è già capito perfettamente che alla prova dei fatti concreti amministrativi il movimento 5 stelle si rivela totalmente incapace di gestire e di innovare. Roma ne è un esempio sempre più clamoroso: Virginia Raggi è la finale prova del nove che non torna.

Di fronte ai flop comunali ci si rifugia nelle cantine del web, dove si illude la gente di contare qualche cosa. Trentamila voti su trentasettemila votanti hanno incoronato candidato premier Luigi Di Maio. Quando mi candidai a consigliere comunale di Parma, nel lontano 1975, occorrevano migliaia di preferenze per sedersi sui banchi municipali. Allora si faceva incetta di preferenze con metodi non sempre cristallini, ma non si vorrà dimostrare che sia vera democrazia quella dell’odierno metodo adottato per la scelta del leader pentastellato.

Il loro acerrimo nemico Pd ha eletto il suo segretario con quasi due milioni di votanti. Qualcuno diceva che i voti non si contano, ma si pesano. Ebbene allora bisogna ritenere che i voti per Di Maio siano molto pesanti, ogni voto ne varrebbe oltre cinquanta: questo sarebbe il moltiplicatore grillino, il fattore G come Grillo.

Se fossi giovane e un tantino spregiudicato, potrei provarci. Nel 1975 ottenni 720 preferenze: applicando il suddetto calcolo arriverei a 36.000 voti e batterei Di Maio. Ho sbagliato epoca per fare carriera politica. Sempre meglio che sbagliare politica per fare epoca.

 

Mi a ca mèja e ti…a ca tòvva

Un bambino, quando ha paura, cosa fa? Se non è cambiata anche la psicologia infantile, si nasconde dietro la gonna della mamma perché lì si sente sicuro e protetto. Non capisce infatti che si tratta di un nascondiglio precario e illusorio, gli basta restare attaccato alle proprie origini e rifiuta i pericoli del futuro. Ci vorranno tempo e pianti per affrancarsi da questa comoda ed egoistica sudditanza.

Questo percorso vale anche a livello sociale: l’apertura di mercati, frontiere, confini, scambi, viaggi e sistemi ci sbatte in faccia una realtà che tendiamo a rifiutare. Ci difendiamo dalle provocazioni della globalizzazione chiudendoci a riccio nel nostro particolare, si chiami razza, nazione, regione, rione, casa, fabbrica; alle drammatiche e provocatorie sfide dell’egoismo globalizzato rispondiamo con l’egoismo parcellizzato; alle ingiustizie del mondo preferiamo quelle di casa nostra.

Pretendiamo di risolvere l’enorme problema dell’immigrazione accogliendo le persone, alla disperata ricerca di uno spazio vitale, intimando loro un assurdo prima che ingiusto “fatti più in là”. Ma che ospitalità è quella di aprire la propria porta di casa a patto di rispondere ai bisogni dell’altro in modo rigorosamente secondario rispetto ai nostri?

Nelle comunità religiose, quando arriva un ospite inatteso, non si dà la minestra agli stanziali e poi, se ce ne rimane,   ai nuovi arrivati. Non si sottopone l’ospite alla gogna dell’essere un indesiderato elemento d’ingombro e di peso, si allunga il brodo e tutti mangiano un po’ meno bene, ma mangiano.

Se le cose non vanno bene all’interno di un gruppo o di una comunità, è comodo fare gruppo nel gruppo per strappare qualche beneficio a danno della generalità dei componenti. Dividersi è facile, ma non risolve i problemi, li sposta, li avvicina, ma li ingigantisce.

Sto parlando indirettamente di chiusura e separatismo quali risposte sbagliate all’immigrazione e alla crisi economica. La tanto chiacchierata Brexit altre non è che la sbagliata e malaugurata sintesi metodologica ai problemi della nostra epoca. Il “tu non entri in casa mia” o il “non mi sento a casa mia e me ne vado” sono le due facce della medaglia divisiva e violenta con cui vogliamo pagare li dazio della nostra storia.

Viviamo purtroppo un periodo di grave carenza valoriale e ideale, la nostra è probabilmente l’epoca del pragmatismo politico e sociale: non è facile affrontare i problemi a prescindere dalla spinta etica che dovrebbe guidarci. Sformiamoci almeno di essere razionalmente impegnati in una convivenza aperta e di vivere guardandoci intorno, non accontentandoci di difendere il nostro misero orticello.

Quando sento persone in buona fede fare il ragionamento del prima pensiamo alle nostre povertà, oppure quando vedo acide battaglie indipendentiste a livello regionale, penso a mia madre, che mi spiegava come nella casa della mia famiglia (io non ero ancora nato) trionfasse la povertà e alla porta bussassero continuamente parenti e amici in cerca di aiuto ed a tutti si riusciva a rispondere positivamente. Miracolo? No. Eroismo? No. Solo buona volontà, quella che fa i miracoli ed è capace persino di gesti (quasi) eroici.

Un mio simpatico e indimenticabile zio, al momento dei saluti, rivolto all’amico di turno, dopo avergli dato una pacca sulla spalla e/o avergli stretto calorosamente la mano, diceva: «Veh, arcòrdot bén, quand at me vól gnir a catär…sta a ca tòvva». Lui scherzava, noi facciamo sul serio.

 

Prima si vota, poi si (s)ragiona

Sono due i modi per arrivare a decisioni sbagliate: affrettare i tempi e scegliere sull’onda emotiva del momento oppure allungare i tempi e lasciare che gli eventi decidano al posto nostro. Nella mia vita, per indole ansiogena e carattere scrupoloso, sono stato portato ad attendere troppo e quindi a lasciarmi condizionare da timori e paure, arrivando spesso a scegliere fuori tempo massimo. Mia sorella infatti mi definiva bonariamente come l’eterno preoccupato: di non farcela, di fallire, di non essere all’altezza, perdendo i treni che passano una sola volta e mancando le occasioni che non si ripresentano più. Così facendo, da una parte, in senso negativo, si rischia di rimanere paralizzati dall’assurda ricerca di un impossibile   perfezionismo, dall’altra, in senso positivo, si è spinti a migliorare le proprie prestazioni senza mai accontentarsi dei risultati raggiunti.

Ho introdotto questa digressione psicologica con evidenti cenni autoreferenziali al fine di analizzare un fenomeno che si sta verificando: la superficialità pre-elettorale, l’emotività elettorale e il pentimento post-elettorale. Detta in parole povere: si discute di politica dando aria ai denti, si vota con la pancia e quel che segue, poi, finalmente ma tardivamente, si comincia a ragionare con la testa. Dei due suddetti schemi decisionali si tende quindi ad utilizzare il primo, quello dell’emotività, quasi per fare dispetto alla razionalità. Si vota di getto e alla carlona, si consuma la scheda, bastano pochi giorni per tornare in se stessi e capire di avere sbagliato, ma è tardi e la frittata è fatta.

È successo in Gran Bretagna con la Brexit: se oggi si rivotasse sono convintissimo che il risultato verrebbe ribaldato. Stanno infatti venendo a galla tutti gli equivoci e le falsità sulle quali ha incespicato l’elettorato inglese. Analogo discorso si sta verificando negli Stati Uniti: ogni giorno emerge clamorosamente la colossale gaffe commessa dagli americani nel dare fiducia a un personaggio che non la meritava. Loro stessi si stanno accorgendo del bluff colossale di Donald Trump. Qualcosa di simile sta succedendo anche in Francia dove l’indice di popolarità di Emmanuel Macron è in caduta libera. Può darsi succeda anche in Germania: la perdita di consensi dei cristiano democratici e sociali nonché soprattutto dei socialdemocratici porterà solo un po’ di ingovernabilità e un pizzico di antieuropeismo e i tedeschi capiranno, ma in ritardo, di avere votato a vanvera.

Questa volatilità nei consensi, che spesso rende inaffidabili i sondaggi, dipende dalla leggerezza con cui si sceglie. Più che di populismo (vale a dire lisciare il pelo all’elettore) si può parlare di qualunquismo (sfruttare la volubilità e la superficialità dell’elettore).

I motivi per cui si sta cadendo in questa pericolosa trappola, sostanzialmente anti-democratica, sono tanti, riconducibili ad una sempre più striminzita idea di democrazia quale scelta una tantum per banalizzare la politica. Siamo su questa strada anche in Italia, basti verificare l’assurdo e paradossale credito concesso a personaggi inconsistenti e inqualificabili. Ne prendo due a caso (?), riconducibili alla deriva irrazionale in corso. Luigi Di Maio: basterebbe poco per capire che si tratta di un sacchetto pieno di niente, che magari si presenta bene, ma evidenzia immediatamente un vuoto politico pneumatico. Eppure va per la maggiore o almeno così sembra… Matteo Salvini: un triviale arruffapopolo, che recita a soggetto frusti copioni di sconvolgente memoria, che usa un linguaggio inaccettabile per dire cose ancor più inaccettabili. Eppure miete consensi o almeno così sembra…

Al solo pensiero di consegnare il Paese in mano a simili esponenti politici mi tremano le vene ai polsi. Se dovesse succedere, la realtà impiegherà poco a venire a galla, ma sarà tardi e in politica, come in certe strade, non è ammessa l’inversione di marcia. Bisogna aspettare la prima deviazione possibile, nel frattempo non so cosa sarà successo.

La chiamano terza repubblica: la prima basata sul dualismo tra democristiani e comunisti con l’intromissione devastante dei socialisti; la seconda fondata sul conflitto tra berlusconiani e antiberlusconiani con l’influenza artificiosa dei media; la terza costruita sullo scontro tra politica debole e antipolitica forte. La prima repubblica si basava sulle ideologie, la seconda sugli affari, la terza vive di sondaggi. Di male in peggio. Tornerei volentieri indietro.

 

Una repubblica di sana costituzione

Ho rivisto con interesse e piacere una trasmissione di Rai storia sulla Costituzione italiana: sono queste le iniziative che giustificano, distinguono e qualificano la televisione pubblica. È stata l’occasione che mi ha aiutato a dipanare l’apparente contrasto   tra legalità e solidarietà anche relativamente all’atteggiamento da tenere nei confronti degli immigrati. Nella nostra Costituzione si va ben oltre il concetto di uguaglianza, perché l’articolo 3 al secondo comma recita in un crescendo programmatico più unico che raro: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Mentre all’articolo 2 vengono riconosciuti i diritti inviolabili dell’uomo, l’articolo 3 non si accontenta, al primo comma, di togliere ogni distinzione di razza e religione, ma, al secondo, introduce il criterio della promozione umana. Oserei dire quindi che gli immigrati vanno accolti in quanto uomini a cui garantire il diritto all’esistenza, alla salute, alla libertà, al rispetto (vale per chi viene torturato, per chi rischia la pelle, ma anche per chi non ha di che vivere dignitosamente: Macron ripassi la rivoluzione francese e noi rileggiamo la nostra Costituzione). Dopo averli accolti devono però essere integrati senza discriminazione alcuna e promuovendo la loro crescita economica e sociale.

Qualcuno penserà che questi concetti valgano per i cittadini italiani (di qui l’ostilità, culturale o tattica fa poca differenza, verso l’allargamento del diritto di cittadinanza a soggetti che, per nascita o percorso formativo, sono di fatto italiani) e non per gli immigrati: di fronte a tale interpretazione restrittiva i costituenti si rivolterebbero nelle loro tombe e griderebbero tutta la loro indignazione per una simile chiusura umana e culturale.

Altri si nasconderanno dietro il solito paravento degli scarsi diritti riconosciuti agli italiani o del timore che i diritti degli italiani possano essere compressi da quelli degli extra comunitari: o si cresce insieme o si dimagrisce comunque tutti, non fosse altro per il fatto che gli immigrati espulsi dalla porta rientreranno prima o poi dalla finestra.

Giuliano Amato, introducendo da par suo il commento al dettato costituzionale ed alla sua gestazione, citando un personaggio che non ricordo, ha plasticamente valorizzato la nostra Costituzione indicandola come una sorta di arma legale difensiva contro chiunque tenti di ledere i diritti e attenti alle libertà. Ai migranti, si dice giustamente, bisognerebbe insegnare subito la lingua italiana; forse bisognerebbe anche spiegare la Costituzione. Si rischierebbe di far credere a queste persone che esistano solo i diritti? Nossignori, perché in essa ci sono anche i doveri, c’è tutto quel che serve per una buona convivenza civile. Potremmo rischiare di vedere gli stranieri sventolare sotto il nostro naso il libretto costituzionale. Questo sì, ma sarebbe un bene, perché noi non la conosciamo o facciamo finta di non conoscerla e qualcuno ce la ricorderà.

Il populismo dei lupi e degli agnelli

Era da mesi che si aspettavano le elezioni politiche tedesche e adesso che ci sono state siamo più ignoranti e sprovveduti di prima. Un tempo alle elezioni vincevano tutti, oggi perdono tutti, ma è esattamente la stessa cosa: la grande fatica del sistema dei partiti a rappresentare democraticamente le istanze popolari, che trova nel populismo la rischiosissima scorciatoia, vale a dire la sfrontatezza della politica nel cavalcare tout court gli umori se non addirittura gli istinti della gente.

I partiti tradizionali non riescono a fronteggiare questa ondata populista, al massimo tentano di arginarne le scalate al potere; finora nei Paesi europei facenti parte dell’area occidentale, bene o male, le formazioni politiche nazionaliste, xenofobe e razziste, pur raggiungendo significativi e preoccupanti livelli di consenso elettorale, non hanno avuto accesso alle stanze dei bottoni. È successo anche in Germania laddove gli estremisti di destra entrano in Parlamento con una notevole pattuglia di eletti, ma dove vige nei loro confronti una conventio ad excludendum rispetto all’area governativa.

In Italia la situazione non è così chiara e rassicurante. Due sono i motivi inquietanti che lasciano temere uno spericolato approccio dei populisti al governo del Paese. Innanzitutto abbiamo la camaleontica abilità di queste formazioni politiche estremiste, che riescono a coniugare la strumentalizzazione delle proteste verso la politica con la rassicurazione di un rinnovatore sistema democratico di potere. La Lega di Salvini, i Fratelli d’Italia e i Cinque stelle hanno l’abilità di offrire il volto più buono ed accettabile del populismo e riescono a intercettare e catturare lo scontento verso le forze politiche tradizionali, forse proprio perché essi non sono totalmente anti-tradizionali e quindi finiscono col fornire una proposta eversiva ma non troppo in cui è facile rimanere intrappolati.

Mentre il movimento pentastellato rifiuta sdegnosamente ogni e qualsiasi intesa politica con i partiti, la Lega aspira ad integrarsi, seppure da posizioni di forza, nell’area di destra che si candida a governare il Paese. Il ragionamento è questo: tutti siamo un po’ antieuropeisti, ebbene per chi lo vuole essere di pancia c’è la Lega, per chi lo vuole fare con nostalgia c’è FdI, per chi vuole soprattutto minacciare di esserlo c’è Forza Italia. Tutti siamo un po’ razzisti, ebbene per chi intende chiudere le frontiere c’è Salvini che sparla bene, per chi teme l’annacquamento dei principi nazionali c’è Giorgia Meloni che parla romanesco, per chi vuole regolare i flussi c’è Tajani che sa tenere i piedi in tante scarpe.

Il secondo motivo inquietante che rischia di portare l’estremismo di destra nell’area di governo è quindi la possibilità di patti compromissori scellerati sulla pelle degli Italiani, degli Europei e degli immigrati. Prima o poi questa tentazione, che finora ha solo sfiorato i grillini, finirà col coinvolgere anche loro in una sorta di inciucio dell’anti-inciucio.

Sbaglia di grosso chi ritiene moderati i nostri populisti e tende a sdoganarli: attenti, perché non si tratta di moderazione ma di finzione dietro cui si nasconde una proposta politica traumatica. Personalmente preferisco sempre chi combatte a viso aperto e dichiara apertamente di volermelo mettere in quel posto, un estremista che si rivela per quello che è piuttosto che un moderato capace di mettermelo in quel posto con tanto di vaselina, un lupo travestito da agnello.

Follie, follie, delirio vano è questo…

Ero partito con l’intenzione di leggere attentamente e senza pregiudizio alcuno il documento di impeachment emesso contro papa Francesco da oltre sessanta personaggi (non so chi siano, ma dal tono non credo si tratti di “cattolici di fila”): secondo questa dotta relazione il papa sarebbe reo di ben sette proposizioni eretiche in materia di morale sessuale e matrimoniale (vedi esortazione apostolica Amoris laetitia e altre parole, atti ed omissioni: un vero e proprio “confiteor” da far ingoiare a Francesco). Il mio intendimento partiva dalla convinzione che il diritto di critica debba esistere anche all’interno della Chiesa e quindi che non debba scandalizzare il fatto che un gruppo di persone segni il proprio dissenso rispetto a certi insegnamenti papali. Mi sono detto: se rivolgevo critiche ai papi precedenti e davo ascolto ai dissensi emergenti rispetto alle loro linee dottrinali e pastorali, perché dovrei rifiutare a scatola chiusa gli appunti rivolti a papa Francesco?

Mi sono messo pertanto a leggere e ad un certo punto però ho interrotto la lettura, non tanto perché il documento sia insopportabilmente pedante e ostentatamente forbito (forse anche questo, lo ammetto), ma in quanto dettato solo dal cervello a prescindere dal cuore (dalla coscienza). Lo sforzo papale, peraltro ancora ben lontano dal raggiungimento di obiettivi assai significativi e innovativi in materia di morale, era ed è proprio quello di concedere il primato alla coscienza di chi deve giudicare e di chi è giudicato: il primo deve giudicare (discernere) col cuore misericordioso e comprensivo di Gesù (Donna chi ti ha condannato? Nessuno Signore! E neanche io ti condanno…), il secondo deve mettersi nello stato d’animo del pubblicano (O Dio abbi pietà di me peccatore), entrambi non devono scimmiottare il fariseo della parabola evangelica (Ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri…). Questo sempre, ma nel caso in questione, in materia di comunione ai divorziati.

Sta (finalmente) venendo a galla il livore che da tempo cova dentro certi personaggi preoccupati non di difendere il tradizionale rigore, ma il permissivismo economico-sociale e il meccanismo di potere. Squalificare in senso eretico l’atteggiamento aperturista in campo sessuale serve, come sempre, a coprire bigottamente la disonesta ricchezza e l’impropria influenza sulle coscienze.

In parole povere questa manovra, dietro le dissertazioni pseudo-teologiche, nasconde una precisa volontà conservatrice nei rapporti istituzionali della Chiesa, messi in discussione dalla nuova impostazione pastorale. In fin dei conti papa Francesco, come ha più volte acutamente osservato Eugenio Scalfari, ha invertito l’ordine dei fattori, privilegiando la Chiesa comunità (amore e misericordia) rispetto alla Chiesa istituzione (gerarchia e potere); quando ci si è accorti che questa inversione dei fattori poteva andare contro le regole matematiche, vale a dire cambiare il prodotto, ecco allora alzarsi gli scudi per difendere non la dottrina di cui non frega niente a nessuno (pensate quanto interesserà a questi personaggi dissidenti che i divorziati possano o meno comunicarsi), ma il potere di condizionare le coscienze e quindi le altre istituzioni. Sono in gioco due visioni: non è questione di eresia, è solo un problema difensivo del modo di essere della Chiesa e del suo potere. Il resto è fuffa, che non mi interessa. Ecco perché ho interrotto la lettura dell’atto di accusa: tempo perso e, se proprio devo essere sincero, ho preferito leggere il brano evangelico della liturgia del giorno, che, manco a farlo apposta, parlava di un padrone anomalo, che pretende poco e dona molto a chi lavora nella sua vigna e non sopporta chi si maschera con la nobile veste della giustizia per nascondere il demone dell’invidia (non si vuole che Dio sia buono, non si sopporta che capisca gli errori e li perdoni).

Quando Violetta, nella Traviata di Giuseppe Verdi, si accorge di essere sul punto di innamorarsi, senza bisogno di essere pagata per fingersi tale, confessa a se stessa di vaneggiare, non lo crede possibile: “Follie, follie, delirio vano è questo…”. Invece succede. Poi arriva l’ipocrita di turno, quello che tira fuori le regole, il benpensante del cavolo, che rovina tutto. Manovra di disturbo, che nel caso di Violetta crea un disastro umano. Nel caso degli odierni benpensanti cattolici, non si creerà alcun problema. Scrivano, sbraitino, si lamentino, ma la mia coscienza e quella dei divorziati, dei separati, dei conviventi, non la possono toccare. E ancor meno quella di papa Francesco.