Tutto (non) ha un limite

Viviamo in un periodo in cui nei rapporti interpersonali prevale l’arroganza associata alla maleducazione: siamo all’interno di una società dove tutti si sentono autorizzati a sparare a zero su qualsiasi interlocutore o competitore. La politica non so se dia lezione o la subisca, fatto sta che i politici si comportano in modo inaccettabile, confondendo la critica con l’insulto, cambiando parere come si cambia di camicia, considerando l’avversario come un nemico, sostituendo il confronto delle idee con la guerra delle parole.

I media soffiano su questo fuoco, la gente apprezza i toni forti anche perché ognuno tende purtroppo a comportarsi secondo questi canoni, nei rapporti famigliari, scolastici, professionali, condominiali. Vince chi grida più forte, non importa se urla cazzate, l’importante è che copra la voce altrui.

La protesta è incivile, lo scontro è violento: nelle aule parlamentari come nelle piazze. Lo si è visto durante la discussione sulla legge elettorale: sono volate parole grosse in una pericolosa sovrapposizione tra dibattito parlamentare e tumulti di piazza. Dalla piazza si gridava al golpe fascista in un crescendo anti-democratico da far rabbrividire. Era proprio il fascismo ad usare le piazze per delegittimare le istituzioni: la storica definizione della Camera quale aula sorda e grigia. Non c’è malcontento che tenga, queste manifestazioni non dovrebbero trovare posto in un sistema democratico.

Stupisce (?) che un uomo politico navigato come Massimo D’Alema cada in questa trappola, solo ed esclusivamente per riconquistare un misero spazio politico: «Questa legge è una truffa, frutto di un lungo accordo di potere tra Renzi e Berlusconi, mediato dall’ineffabile senatore Verdini. Il testo ha profili di incostituzionalità, come le due precedenti. A questo punto il cittadino penserà che è meglio che il Parlamento non faccia più leggi». Così ha sentenziato D’Alema con la sua solita supponenza.

Per fortuna gli ha risposto per le rime un suo storico compagno di viaggio e di partito, Piero Fassino: «D’Alema, per il quale ho molto rispetto, dice che Renzi vuole l’alleanza con Berlusconi. Ma dico: la Bicamerale chi l’ha fatta? Se c’è un uomo politico che ha cercato di creare un rapporto con il centro-destra e il suo leader perché fosse funzionale alle riforme, questi è D’Alema».

A chi contestava a D’Alema di aver inciuciato per portare, a suo tempo, Ciampi al Quirinale, veniva risposto dall’interessato: «Meno male che c’è Ciampi…».

Ora io prendo a prestito lo schema di battuta e dico: «Meno male che c’è Fassino…». Sì, perché a D’Alema vengono fatti sconti molto generosi pur di polemizzare col Pd: fa gioco infatti la sua verve anche se basata su incoerenze clamorose. Strizza l’occhio al sindacato colui che contribuì a giubilare Sergio Cofferati, reo di incarnare una impostazione troppo piazzaiola e populista; rispolvera l’identità di sinistra alla Jeremy Corbyn chi aveva teorizzato in passato il riformismo, vagheggiando legami internazionali con Blair e Clinton;   punta al ritorno di una sinistra pauperista e barricadiera colui che ha sempre rappresentato quella elitaria in doppio petto burocratico. Potremmo continuare, ma in politica vince la memoria corta. Meno male che c’è Fassino, che non l’ha persa nella affannosa rincorsa a chi è più di sinistra.

Tutto dovrebbe avere un limite, anche la faccia tosta di D’Alema. Non è l’unica e non è la più deleteria, ma viene da una parte a cui sono particolarmente e severamente attento. Per D’Alema ho sempre avuto stima e rispetto, l’ho sempre considerato un politico di razza. Da un po’ di tempo mi sto ricredendo di brutto.

Purtroppo i limiti sono saltati come birilli. Vuoi vedere che ci troveremo di fronte ad alleanze tra D’Alema e Grillo: sono fuori entrambi dal Parlamento e vogliono comandare lo stesso. Il patto della (s)crostata politica italiana. Mi fermo perché la foga del discorso mi sta portando sul terreno che ho appena stigmatizzato.

La deputata Paola Binetti dell’Udc, durante il dibattito parlamentare sulla legge elettorale, ha dichiarato: «Non sappiamo se la legge è meglio o peggio dell’altra, quello che auspichiamo è che i leader possano favorire candidature che portino a un Parlamento migliore». Obiettivamente non è un granché come intervento politico alla Camera dei Deputati in un momento così delicato e complesso. Sempre meglio (è tutto dire) dell’attuale arroganza dalemiana. Accontentiamoci e speriamo che la politica possa ritrovare almeno quei limiti di decenza che ci hanno insegnato i maestri di democrazia.

La bile della glocalizzazione

In questo periodo si fa un gran parlare, peraltro in modo assai superficiale e giocherellone, di Catalogna, la regione che vorrebbe ottenere piena indipendenza dalla Spagna. Sapendo che Catalogna è anche il nome di un’erba commestibile, mi sono preso la briga di verificare su internet le sue caratteristiche: è una varietà di cicoria e, come erba amara, aiuta il lavoro del fegato ed in particolare stimola l’eliminazione della bile ed essendo ricca di fibre aiuta il benessere intestinale con effetto lassativo, tiene bassa la glicemia e contrasta l’assorbimento del colesterolo.

Un toccasana per me alle prese con problemi di smaltimento della bile. Non mi resta che farne largo consumo per verificarne le proprietà curative. Non so se ci sia un nesso fra questa erba quasi miracolosa e la regione della Catalogna: sembra uno scherzo del destino, probabilmente è solo una semplice ma strana coincidenza.

Fatto sta che la Catalogna, al contrario dell’omonima erba, sta creando seri problemi di bile al governo spagnolo e non solo. Non so come ne usciranno: probabilmente tutti indeboliti da una precipitosa e velleitaria vicenda, che parte dalla storia, ma va contro la storia.

Questa del separatismo catalano è una questione che si giustifica come reazione all’immanente globalizzazione in ricerca della cosiddetta glocalizzazzione. È pur vero che la storia viene dettata anche dai sognatori, i quali a distanza di tempo si trovano ad avere ragione delle loro fughe in avanti. Sarà il regionalismo associato al federalismo (due termini apparentemente contrastanti) a segnare il futuro europeo? La Scozia e la Catalogna vogliono l’indipendenza, rispettivamente dalla Gran Bretagna e dalla Spagna, ma desiderano ardentemente rimanere a pieno titolo ed a tutti gli effetti nella Unione Europea.

Il sistema economico vive con grande preoccupazione queste spinte e reagisce piuttosto male: fuga di aziende e di capitali. Il sistema politico si difende un po’ troppo burocraticamente, legge e costituzione alla mano. L’Europa sta a guardare non potendo e non volendo intromettersi nelle faccende interne di uno Stato membro. I media hanno trovato uno spazio in cui sbizzarrirsi nelle solite e superficiali scorribande. La popolazione sembra partecipare a livello di contrapposte tifoserie, che si alternano con oceaniche manifestazioni di piazza. Il Parlamento catalano fa più pena che simpatia, il governo spagnolo crea più perplessità che solidarietà.

Non ha senso disinteressarsi di queste vicende ritenendole un fatto localistico, insignificante e folcloristico. Oltre che essere globale il nostro mondo è molto interdipendente. La Catalogna si è spinta troppo avanti, anche se dimostra di non avere il coraggio di andarci fino in fondo: ha dichiarato l’indipendenza e contemporaneamente l’ha sospesa. Una mezza commedia che speriamo non si trasformi in tragedia. Certo il dittatore Franco avrebbe già risolto il problema: solo i dittatori riescono a tenere coperchiate le pentole del separatismo. Si pensi a Tito in Iugoslavia, all’Urss, ai regimi dell’Est europeo. La democrazia a volte resta vittima delle libertà che ripristina: le pentole si scoperchiano, ma rischiano di debordare…

Nell’opera lirica Bohème di Giacomo Puccini, l’attempato ed occasionale accompagnatore di Musetta, una ragazza ribelle e disinvolta, non sopporta il provocatorio e sensuale valzer cantato dalla stessa. «Quel canto scurrile mi muove la bile» dice con malcelato imbarazzo.

Quella pazza e scriteriata Catalogna sta muovendo la bile un po’ a tutti e ci vorranno caterve di (democratica) erba catalogna per scaricarla.

La penicillina cinematografica

Il potente produttore cinematografico di Hollywood Harvey Weinstein è caduto in disgrazia per le accuse di molestie sessuali rivoltegli da numerose e note star. Sta emergendo un quadro disgustoso di un ambiente da sempre caratterizzato da meccanismi di selezione legati al sesso. Non sono sorpreso di quanto sta emergendo, anche se non sono sicuro che si tratti di stupri in senso stretto. È un po’ come con la mafia: tutti sanno, molti si adeguano, la magistratura scoperchia la pentola quando deborda.

Può ritenersi stuprata un’attrice che per fare carriera si piega ai ricatti sessuali di un produttore? In un certo senso sì. Certamente le donne (e non solo le donne…) subiscono, direttamente o indirettamente, pressioni psicologiche che possono sconfinare in veri e propri ricatti. Per battere questi vomitevoli andazzi bisogna però avere il coraggio di resistere a monte e non limitarsi ad accusare a valle. Capisco benissimo che se si entra in certi meccanismi sia difficile non cadere nel tritacarne sessuale, sia problematico non pagare il “pizzo sessuale” pena l’espulsione dalla graduatoria. Tuttavia il male si combatte a priori, perché dopo è sempre troppo tardi.

Non sono in grado di valutare se Harvey Weinstein sia un vero e proprio maniaco che ha sfruttato la sua posizione dominante per dare libero sfogo ai propri impulsi: lo appurerà la magistratura tentando di dipanare uno scandalo, che imperverserà a livello mediatico vista la notorietà dei personaggi coinvolti. Barak e Michelle Obama si sono detti “disgustati” e lo sono anch’io. La politica americana, di cui questo personaggio era probabilmente un benefattore, sarà imbarazzata (discorso sempre delicato quello dei rapporti tra politica ed affari).

Se devo essere sincero al limite del cinismo, mi sento però molto più sconvolto dalle violenze sessuali a cui sono sottoposte le giovani migranti costrette a prostituirsi pena la loro incolumità e integrità fisica, rispetto alle attricette che cedono ai ricatti sessuali per fare carriera. C’è una certa differenza tra i due fenomeni: da una parte, se una donna si ribella rischia la tortura, se non la morte, per sé e per la propria famiglia; dall’altra, se scappa, rischia di non fare carriera come attrice.

Discorso capovolto per gli sfruttatori del sesso: se possibile, mi fa ancora più orrore il “magnaccia” in guanti bianchi rispetto a quello da strada, anche se ormai, probabilmente le due fattispecie tendono mafiosamente ad integrarsi.

Ripulire l’ambiente dello spettacolo da queste ed altre sozzure sarà molto difficile: si tratta di un mondo che racchiude in sé tutte le peggiori contraddizioni del sistema capitalistico. Quando vedo la gente entusiasmarsi davanti alle passerelle dei festival cinematografici, mi prende un senso di pena per chi sfila (ancor maggiore se penso ai “prezzi” talvolta loro estorti per la carriera) e per chi applaude.

Mio padre, che era un dissacratore nato, prevedeva, ai suoi tempi, che il popolino avrebbe facilmente osannato un divo dello spettacolo e probabilmente snobbato, se non pernacchiato, uno scienziato. Diceva testualmente: «Se a Pärma ven Sofia Loren, i fan i pugn pr’andärla a veddor; sa vén Alexander Fleming i ghh scorezon adrè’…». Sofia Loren veniva tirata in ballo in senso figurato, solo come simbolo. Tutte le morti scampate per merito dell’inventore della penicillina non sono niente di fronte alla fama di un’attrice “sessocchieggiata”, magari dopo essere stata vittima a suo tempo di molestie sessuali.

 

La legge elettorale a rischio Penelope

Sono anni che sul tavolo politico e istituzionale langue la pratica delle legge elettorale. Quando si  fatica ad affrontare un problema, la relativa carpetta istruttoria resta sulla scrivania e non ci si decide ad aprirla. È successo così: prima le riforme istituzionali a cui la legge elettorale avrebbe dovuto adeguarsi; poi la Corte Costituzionale che ha emendato la legislazione vigente creando una sostanziale discrasia tra sistemi elettorali di Camera e Senato; poi diversi tentativi parlamentari di trovare la quadra, falliti sul nascere per il prevalere di interessi di parte.

Più si avvicina la scadenza elettorale e più difficile risulta il tentativo di trovare un compromesso. La Presidenza della Repubblica   ha più volte chiesto al Parlamento di provvedere almeno ad omogeneizzare i meccanismi di votazione per le due Camere in modo da non trovarsi con un Parlamento frastagliato e contraddittorio. La dottrina si è esercitata in un asettico ed inutile dibattito che ha solo aggiunto confusione alla confusione.

Finalmente sembra profilarsi una legge che sulla carta dovrebbe godere di un ampio consenso e che, a scanso di imboscate parlamentari, è stata blindata dal governo con l’apposizione del voto di fiducia, atto a sveltire la manovra e ad evitare numerose votazioni segrete sugli emendamenti vari.

Apriti cielo: attentato alla democrazia, emergenza democratica, proteste di piazza, gazzarre parlamentari, etc. La democrazia non è perfetta e, a maggior ragione, non può esserlo una legge elettorale, che inevitabilmente risente degli interessi di parte. Si tratta di cercare un compromesso, che difficilmente sarà di alto profilo, ma servirà a uscire dall’incertezza e dalla confusione. Tutto qui. Chi si scandalizza non ha capito niente dei meccanismi democratici o tenta di strumentalizzare populisticamente la situazione. La storia insegna che il mettere mano alla legge elettorale ha sempre scatenato un allarmistico putiferio di polemiche: chi vuol cambiare le regole si trova immediatamente imputato di “truffa”.

Due sono attualmente gli attori impegnati nel disfattismo: l’immancabile movimento cinque stelle e l’inquieto fronte delle sinistre. Una forza anti-sistema non può che essere contraria a qualsiasi legge che regolamenti l’elezione del sistema. Una sinistra che ritorna alla tentazione della lotta piazzaiola non può che temere ogni e qualsiasi accordo partitico come un attentato alla democrazia. Sono reazioni scontate.

Ciò che non è scontato è invece il sotterraneo mugugno pronto a trasformarsi in imboscata con la protezione del voto segreto. Il dato preoccupante che emerge è questo: l’inaffidabilità di molti parlamentari che, per svariati motivi, nascondono la mano dopo aver tirato il sasso.

Staremo a vedere. Certamente le leggi elettorali che ci hanno guidato al voto nel recente passato non erano equilibrate e razionali. La bagarre legislativa scatenatasi dopo il fallimento della riforma costituzionale ha complicato il quadro. Si tratta di ritrovare un minimo di serietà istituzionale che consenta la maggior corrispondenza possibile tra la libera espressione del voto,la rappresentanza parlamentare e la governabilità del sistema. Non è facile, ma ci si deve riuscire, senza gridare al golpe, senza scatenare la piazza e, possibilmente, senza inqualificabili giochini parlamentari.

Credenti e clericali a confronto

Condivido l’attenzione alle problematiche famigliari, ma non capisco l’accanimento terapeutico auspicato politicamente e continuamente dalla Chiesa nei confronti della famiglia: non si può isolare la famiglia dal contesto socio-economico in cui è inserita e quindi aiutare la famiglia vuol dire né più né meno governare bene l’intera società. Ho il timore che questa enfatica insistenza nasconda l’intenzione di limitare i discorsi alla famiglia tradizionale per emarginare le unioni che non rispondono ai canoni clericali. Quando la Chiesa dialoga con la politica il pericolo del clericalismo è sempre in agguato.

Si racconta che papa Francesco, a ruota libera, abbia così risposto ad un suo interlocutore che gli confessava di essere anticlericale: «Lo sono anch’io!». Nel recente libro “La profezia del don” scritto da Loris Mazzetti in ricordo di don Andrea Gallo, una persona di nome Patrizia ricorda così il suo primo incontro con questo prete: «Conobbi don Gallo in un periodo difficile della mia vita e le sue parole mi furono di conforto; io gli confessai di essere atea, ma soprattutto anticlericale, lui sempre con il toscano in bocca, mi rispose: “E fai bene!”».

Personalmente ho avuto uno zio sacerdote e una zia suora collocati paradossalmente in una famiglia piuttosto anticlericale, che mi hanno insegnato come si può far parte del clero senza essere clericali. Su di essi ho scritto tante cose contenute nel sito e quindi non mi dilungo e rimando ad esse. Dal momento che i ricordi elaborati sulla zia sono più limitati, posso dire che   era suora fin nel midollo delle ossa, ma non era estranea al mondo dei suoi affetti familiari, manteneva un collegamento costante con il suo ambiente di nascita, partecipava alle vicende dei “suoi”, non mancava mai agli appuntamenti. Non è cosa facile ma lei ci riusciva. Aveva una venerazione per suo fratello Ennio sacerdote, ma, come lui, non era clericale. Bellissimo! Mai ho ascoltato da lei un giudizio moralistico, mai ho sentito scaricare sugli altri il primato di chi sceglie la religione a tempo pieno, parlava della sua vita in convento con estrema naturalezza, era più propensa all’ascolto che a descrivere le sue movimentate peregrinazioni da un convento all’altro dell’Italia.

Ritorno a don Andrea Gallo (sempre dal libro ”La profezia del don”) che diceva: «Sto seguendo un giovane, trentenne, molto buono, che ha scelto di diventare prete e dopo tre anni ha messo incinta una ragazza. Lei ha dato alla luce una bambina bellissima, lui è un padre molto premuroso. Hanno grosse difficoltà economiche e la Curia non gli dà un centesimo. Una delle ultime volte che l’ho incontrato mi ha raccontato che due suore gli hanno detto che avendo tradito la Chiesa ha messo a rischio la salvezza eterna. Questo lo ha molto turbato. “Devi dire a quelle suore che la smettano di dire cazzate”, è stata la mia risposta, poi ho aggiunto: “Gesù è risorto e ti è vicino”. Io sono contro il celibato obbligatorio e all’educazione sessuale che danno in seminario. Le parole della suora lo hanno fatto entrare in un ingranaggio di morte e non di Resurrezione. Gesù prima affronta la passione, la crocifissione e la morte, ma poi risorge. L’anima non può essere uccisa».

È storica la battuta che fissa la differenza tra De Gasperi e Andreotti: il primo andava in chiesa per pregare, il secondo per confabulare con i preti. Questa è in fin dei conti la differenza tra credente e clericale, tra fede e religione.

Ho voluto soffermarmi brevemente e pittorescamente su questi concetti dal momento che ci stiamo avvicinando alle elezioni politiche ed è già partita la gara alla conquista del consenso in chiave clericale: nessuno è escluso da questa storica tentazione, persino i cinque stelle con Beppe Grillo (lo hanno fatto in modo furbesco) e con Luigi Di Maio (lo faranno in modo penoso) cercano appoggi cattolici. La laicità della politica vale fino a mezzogiorno. Ci sono infatti anche gli atei devoti. Leggendo il quotidiano Avvenire, che ospita varie opinioni politiche, non riesco a capire fin dove il giornale cattolico sia intento a raccogliere appoggi dai politici sulle posizioni della Chiesa, ma soprattutto a difesa delle istituzione ecclesiali, e fin dove i politici bussino alla porta clericale per avere qualche endorsement elettorale. Il discorso vale a destra (difesa dei principi cattolici contro il pericolo islamico) e a sinistra (accoglienza e integrazione degli immigrati). Per tutti vale la difesa a parole della famiglia: tutti la vogliono sostenere, tutti la mettono in priorità. Sarà per quello che la famiglia va a rotoli?

Gli amanti di giornata

Mio padre era solito esprimere il suo scetticismo verso il “nuovo a tutti i costi”: sceneggiava plasticamente la fuga di una donna con l’amante che l’aveva appena riscattata dalle grinfie del marito e “rapita” al nido coniugale. Ipotizzava che avrebbero cominciato a litigare scendendo le scale. «Adésa indò andemja?». «A ca méjja!». «Mo gnanca p’r insònni…». Già finito l’idillio…

Come non pensare a questo aneddoto di invenzione paterna di fronte al precario idillio tra Mdp e Campo progressista, meglio dire tra i fuorusciti del Pd capitanati (?) dal livoroso Massimo D’Alema e gli eterni insoddisfatti raggruppati e condotti da Giuliano Pisapia.

Dopo avere progettato la fuga, avvicinandosi il redde rationem, si sono immediatamente messi a litigare di brutto: prima ancora di cominciare a convivere si starebbero separando (il condizionale è d’obbligo vista la liquidità strategica della sinistra).

Qualcuno sostiene malignamente che l’ex sindaco di Milano, messo alle strette, tra la prospettiva di fare da stampella pseudo-culturale e movimentista all’ennesimo partitino di sinistra sventolato nell’aria fritta dalemiana e la possibilità di fare il ministro di un eventuale governo di centro-sinistra guidato da Matteo Renzi, stia propendendo nettamente per la seconda ipotesi. Non credo che tutto possa essere ridotto a questi minimi termini, anche se la suddetta semplificazione in chiave dorotea può essere emblematica di una scelta ben più di fondo tra il riformismo della sinistra di governo e il velleitarismo della sinistra identitaria e di   testimonianza.

Concessa a tutti la buona fede, si intravedono due diverse scappatoie. Per il movimento dei democratici progressisti fin che c’è Speranza c’è vita, nel reparto di rianimazione della sinistra vecchia e sclerotica ; per Campo progressista il discorso è diverso: fin che c’è Pisapia c’è possibilità di contare qualcosa per i movimentisti vedovi della lotte e delle masse.

I soliti osservatori qualunquisti propendono per una lettura in chiave prettamente personalistica: D’Alema odia, forse non solo politicamente, Renzi e lo vuole distruggere; Pisapia si accontenta di condizionarlo pesantemente. Un po’ di verità c’è anche in questa banale ricostruzione.

Cosa ne penserà il potenziale elettorato di sinistra di cui peraltro faccio parte? Ho seri dubbi che si entusiasmi di fronte a queste vicende e temo possa allontanarsi sdegnato e infastidito da queste irresponsabili diatribe. L’elettore di sinistra non vota più in base al richiamo della foresta, vuole vedere una prospettiva politica seria e percorribile. Lo stanno disturbando e confondendo. Possibile che i protagonisti di queste scorribande non lo capiscano? Mettendo in seria difficoltà il Pd contribuiscono a mettere in crisi l’intero sistema politico. Cosa rimane? Vota Grillo (anzi Di Maio) e poi muori.

 

 

Il crumiraggio della fame

Non mi stupisce affatto che nelle battaglie politiche, soprattutto quelle relativi ai diritti civili, venga adottato lo strumento di pressione dello sciopero della fame: dovrebbe essere l’estremo tentativo non violento per ottenere attenzione da parte dei pubblici poteri. Lasciamo stare il fatto che a questa iniziativa pacifica sia stato fatto eccessivo ricorso: i radicali, maestri in queste forme di lotta, hanno talvolta esagerato, ma sempre meglio esagerare nella protesta non violenta che (s)cadere nelle iniziative violente o nel silenzio qualunquistico.

Niente da ridire quindi che il digiuno sia entrato nell’acceso dibattito sulla concessione del diritto di cittadinanza per nascita in Italia da genitori di origine straniera, ma radicati nel nostro Paese, e per assimilazione oggettivamente comprovata della nostra cultura.

Ciò che stupisce è che lo sciopero della fame venga adottato anche da membri del Parlamento per ottenere che questo argomento venga posto in discussione e votato. Viene cioè in un certo senso capovolto il discorso: non è più solo la società civile che chiede al potere politico, ma è il potere politico che chiede a se stesso. Qualcosa non và.

È vero che nelle aule parlamentari si è visto e si vede di tutto: si mangiava a si beveva per festeggiare la caduta del governo Prodi e quindi non c’è assolutamente nulla di scandaloso se qualcuno non mangia per richiamare il parlamento ai propri compiti. La preoccupazione però si sposta a monte. Un Parlamento che non riesce ad affrontare temi riguardanti i diritti fondamentali dei cittadini , meglio dire nel caso specifico un Parlamento che non riesce a decidere chi sono i cittadini italiani, suscita non poche perplessità. In teoria potrebbe essere un motivo di scioglimento anticipato delle Camere da parte del Presidente della Repubblica: non sarebbero in grado di svolgere il loro ruolo costituzionale, imprigionate nei veti reciproci e nelle strumentalizzazioni partitiche.   Anche i Presidenti dei due rami del Parlamento non ci fanno una gran bella figura.

Non si può pretendere che questa legge venga approvata, si può però pretendere che venga discussa e votata: ognuno si prenderà le proprie responsabilità, senza nascondersi dietro motivazioni risibili o addirittura (quasi) razziste. Il vero sciopero è quello in atto da tempo con il tentativo ostruzionistico di giubilare un discorso imprescindibile di civiltà. Quindi si rischia di non capire chi fa sciopero: forse più che di sciopero si dovrebbe parlare di “crumiraggio della fame”.

È inutile e scorretto legare questo provvedimento di legge alla tenuta del governo e della maggioranza che lo sostiene: tutto è politica, ma in questo caso c’è ben più della politica.

Per cominciare quindi bisognerebbe garantire che il governo possa continuare la sua azione a prescindere dall’esito dell’esame parlamentare sul cosiddetto ius soli.

Mi sembra che questa vicenda oltre la cecità riguardante il merito dimostri la inadeguatezza di metodo e soprattutto una grave carenza a livello istituzionale. I tatticismi non dovrebbero prevalere sulla sostanza di tale questione. Chi non condivide l’allargamento del diritto di cittadinanza esca dall’equivoco della inopportunità legata al momento storico e/o la smetta di fare confusione tra diritto di cittadinanza e incoraggiamento all’immigrazione. Chi condivide questo provvedimento non lo agiti come una clava polemica verso il governo e il Pd, ma lo appoggi convintamente senza farlo rientrare nella gara per verificare chi è più o meno di sinistra.

Attenzione quindi. Se lo sciopero della fame potesse servire a sgombrare il campo dagli equivoci, sarebbe il benvenuto; se invece serve solo a fare propaganda e finisce col dare alla controparte pretesti per irridere alla battaglia politica o, ancor peggio, per “svaccare” indirettamente il problema, meglio lasciar perdere.

 

 

Angeli e demoni

Nemo propheta in patria. Vale sempre e comunque. Basti pensare che in questi giorni il disegnatore satirico non credente Sergio Staino ha iniziato a pubblicare sue strisce intitolate “Hello Jesus” su Avvenire, il quotidiano cattolico per eccellenza. Presentando questa sua decisione ha dichiarato: «Sono stato sessantottino, figlio dei fiori, contro la famiglia: ma non mi toccate Gesù…». Di papa Francesco dice: «Trovo che quest’uomo sia per il mondo una boccata di ossigeno».

Ma non è finita qui: il giornale comunista “Il manifesto”offre ai suoi lettori un volume inedito con tre discorsi di papa Francesco. La direttrice di questo quotidiano, commentando l’iniziativa, afferma di voler portare ai lettori la semplicità delle parole del Papa col quale riscontra una forte sintonia sulle politiche migratorie e per le cui parole ammette di nutrire forte interesse soprattutto in materia di rapporti fra etica e politica.

Non c’è alcun dubbio che papa Bergoglio abbia sparigliato i giochi tradizionali e sappia portare la Chiesa a dialogare a trecentosessanta gradi. Vorrà dire che, stanco della supponenza culturale e della smania tuttologa ed egemonica de “La repubblica”, proverò a leggere criticamente “Avvenire” (lo sto facendo da tempo) e “Il manifesto” (l’ho fatto solo qualche volta).

Questi superamenti incrociati di tabù avvengono in nome di una sensibilità comune su temi come la giustizia sociale, l’ambiente, il diritto alla casa, il diritto a un lavoro dignitoso, l’accoglienza agli immigrati.

D’altra parte racconta Staino come quando incontrava padre Ernesto Balducci, un autorevole teologo, suo amico e conterraneo, si sentisse dire: «Guarda, Sergio, che tu in fondo sei più credente di me».

Norma Rangeri, direttrice del Manifesto, aggiunge a commento delle aperture verso il pensiero di Bergoglio: «Il Papa parla di incontro fra le persone. In una fase post-ideologica come questa mi sembra la strada giusta per ridisegnare una convivenza diversa».

I radicali offrono al Papa la loro tessera: quelli che venivano considerati dei mangiapreti vogliono dialogare ed incontrarsi con una Chiesa sdoganata e sdogmatizzata. Credo sia un bel segno dei tempi.

Alcuni storcono il naso, esprimono perplessità, imbarazzo verso certi atei critici e collocati politicamente a sinistra, mentre   gli atei cosiddetti devoti, vale a dire proni alla Chiesa istituzione e collocati politicamente a destra vanno benone e vengono da tempo ospitati persino nei templi ad illustrare le loro teorie. Una storia vecchia come il cucco.

Fin qui il rapporto con i non credenti, che da sempre divide i cattolici. Ma si è aperta una polemica anche in casa, vale a dire sull’uso improprio delle chiese, dopo che a Bologna in San Petronio il papa ha pranzato con una folta rappresentanza di persone in difficoltà economiche e sociali. Qualcuno ha gridato alla profanazione del tempio, allo sgarbo fatto all’Eucaristia e roba del genere. Se il Papa trova insperata attenzione dai non credenti, sta incontrando ostilità e critiche da parte dei credenti. Ci può anche stare: nemo propheta in patria… Alcuni sono andati a scomodare i sacri canoni: la religione delle regole, della forma, del quieto vivere.

Sergio Staino dice ironicamente riguardo alla sua fanciullezza: «Ero un bambino che si voltava di scatto, sperando di vedere l’angelo custode…». Ebbene ci sono molti adulti che si voltano di scatto e sono convinti di vedere il demonio…

Non studio, governo ladro

Dopo essermi brillantemente diplomato in ragioneria, per cogliere l’acqua in tanto che correva e per rispondere alle esigenze economiche familiari, decisi di provare ad iniziare l’attività lavorativa cercando di combinarla con la prosecuzione degli studi a livello universitario. Ci provai con tutte le più buone intenzioni, agevolato dall’orario di lavoro continuato che mi consentiva di frequentare le lezioni mattutine o pomeridiane all’università.

Così feci anche quel mattino del febbraio 1969: verso mezzogiorno dovetti abbandonare l’aula di gran fretta per tornare a casa, mangiare un boccone in solitario e recarmi nel centro elaborazione dati della Barilla Spa dove assolvere al mio turno di lavoro pomeridiano (dalle tredici alle ventuno). Durante il breve e frugale pasto scoppiai a piangere: ero stressato da alcuni mesi di attività frenetica, avevo sommato il noviziato sul lavoro a quello universitario, ero stato costretto ad abbandonare le amicizie scolastiche, ero decisamente teso e cominciavo a dubitare seriamente di poter sostenere tali ritmi col rischio di interrompere gli studi o di allungarli in un interminabile e stiracchiato curriculum.

Mia madre, che mi aveva preparato il pasto, rimase abbastanza sorpresa, ma mi tranquillizzò sdrammatizzando la situazione pur capendo perfettamente le difficoltà del momento.

Non azzardò giudizi o consigli, riuscì con molta dolcezza a calmarmi, non approfondì le questioni, lasciandomi intuire di non voler interferire in decisioni che mi spettavano e per le quali ero in grado di vagliare tutti gli elementi in mio possesso, da quelli economici a quelli professionali, da quelli umani a quelli culturali.

Come mio solito optai per una decisione rapida, radicale, coraggiosa al limite dell’irresponsabile. Mi recai in ufficio, mi sedetti nell’anticamera del capo-centro, fui ricevuto da lui e rassegnai le dimissioni.

Ne parlai con mia madre che la accettò magari senza condividerla, la comunicò a mio padre che si rassegnò a lavorare alacremente per altri quattro anni, fece da cuscinetto rispettando la mia autonomia decisionale. Ricordo che non ritornò mai sull’argomento, non recriminò, non mi fece mai pesare il sacrificio conseguente alla decisione, continuò a contenere l’atteggiamento di mio padre, da quel giorno più intransigente, ebbe fiducia in me, senza se e senza ma. Per fortuna tutto andò per il meglio ed arrivai lestamente alla laurea anche per merito di mia madre, meravigliosa nella sua semplicità e riservatezza.

Perché ho ripreso questo raccontino ( vedi libro La tela di Lavinia in ricordo della vita di mia madre)? In esso credo vi sia la risposta al gran parlare sulle poche lauree e sul loro scarso livello qualitativo relativamente ai giovani italiani: in estrema sintesi, in pochi raggiungono la laurea, spesso sbagliano laurea rispetto alle loro capacità e alle aspettative del mercato del lavoro, altrettanto spesso alla laurea non corrisponde il giusto livello di preparazione.

Nella vita i risultati si ottengono con impegno e sofferenza: molti giovani prendono sotto gamba la scuola, in questo malauguratamente supportati dalle famiglie che tendono a difenderli anche in caso di profitto deficitario (gli insegnanti hanno sempre torto, le colpe sono sempre della scuola che non aiuta); la scelta a livello universitario viene fatta alla leggera, sovente sulla scia dei miraggi mediatici, prescindendo magari dalle proprie attitudini e soprattutto ignorando gli andamenti occupazionali (psicologi, sociologi, giornalisti etc., tutte facoltà inflazionate in conseguenza dell’appeal televisivo di queste professioni); l’impegno studentesco a livello di corsi di laurea è più goliardico che serio e le famiglie sopportano sacrifici non adeguatamente corrisposti (se avessi studiato con i ritmi e l’intensità di molti giovani odierni, mio padre non avrebbe esitato a tagliarmi i fondi e a mettermi di fronte alle mie responsabilità) .

Per onestà intellettuale bisogna ammettere che solo dopo aver confessato questi limiti e difetti si può parlare di carenze nella struttura scolastica e nella società, pur presenti e da rimuovere con adeguate riforme: non tutte le famiglie si possono infatti permettere di sostenere gli studi avanzati dei loro figli e l’università evidenzia parecchie lacune a livello didattico, scientifico ed organizzativo.

Poi in fondo al percorso arriva la doccia fredda della scarsa domanda di lavoro da parte delle imprese o della domanda che non trova riscontro nella preparazione degli studenti: insomma il lavoro scarseggia e dove c’è non si è in grado di svolgerlo.

Non si può chiudere il discorso con la solita lamentazione: manca il lavoro per i giovani, governo ladro. Bisogna che tutti i protagonisti facciano bene la loro parte e la soffrano sulla propria pelle. A cominciare dagli studenti e dalle loro famiglie.   A casa mia funzionò così. Altri tempi, si dirà. Altro spirito di sacrificio, aggiungo io.

 

Ubi Di Maio, democrazia cessat

Mio padre, dall’alto del suo sano e genuino scetticismo politico, raccontava spesso la barzelletta del comizio onnicomprensivo: «Faremo questo, vi daremo quest’altro…». «E l’afta epizootica?» chiede un preoccupato agricoltore. «Vi daremo anche quella!».

I politici, in vena di campagna elettorale scoordinata e continuativa, cadono spesso e volentieri in questo approccio, che, oltretutto, ormai non incanta più nessuno. Luigi Di Maio, rappresentante ufficiale dell’anti-politica, dopo essersi insediato nella candidatura pentastellata a premier, non ha resistito alla tentazione ed ha cominciato a girare in lungo e in largo la penisola promettendo novità a destra e manca, ultima la riforma del sindacato dei lavoratori. Forse farebbe meglio a dichiarare una volta per tutte che vuole cambiare “tutto”: otterrebbe ancor più attenzione e consenso. Ci sarebbe però un allarmato cittadino che potrebbe chiedere: «E la democrazia?». «Cambieremo anche quella!».

In effetti tra una sparata populistica e l’altra, fra una consultazione informatica e l’altra, la democrazia nel disegno grillino sta cambiando (perdendo) la faccia. Il Parlamento serve solo quale cassa di risonanza delle proteste, il governo sarà il trampolino di lancio dei personaggi vicini al movimento, la magistratura indosserà il grembiule della “donna di servizio” per pulire la nazione e via discorrendo. Il Presidente della Repubblica andrà a lezione di democrazia da Di Maio (la scuola è già cominciata). E il sindacato? O si auto-riforma o lo riformiamo noi!

Intendiamoci bene, non voglio dire che i lavoratori siano rappresentati e guidati al meglio: il sindacato continua ad essere combattuto tra la tentazione dell’invasione del campo politico e quella del corporativismo o meglio della mera difesa dei diritti conquistati. L’autonomia dalla politica mostra le sue contraddizioni e la spinta riformista nel disegnare il ruolo del lavoro nella società moderna lascia alquanto a desiderare. In democrazia nessuno è intoccabile, ma risulta molto pericoloso un disegno che, dopo aver bypassato i partiti, sottovaluta le cosiddette forze intermedie per privilegiare il rapporto diretto fra governanti e governati, sostituendo o integrando la piazza col web. Ed ecco fatta la riforma costituzionale. Se non è populismo questo…

Non credo che il disegno grillino, se esiste, possa camminare sulle gambe di Luigi Di Maio, ma picchia oggi, picchia domani, la confusione aumenta e il bambino può finire nella fogna assieme all’acqua sporca.

Ho inizialmente riconosciuto al movimento cinque stelle e al suo vero leader il merito di avere incanalato e rappresentato una protesta che poteva degenerare ed assumere toni eversivi. Strada facendo il discorso tende però a capovolgersi e ad alimentare la protesta fine a se stessa.

Ricordo un colorito episodio della mia modesta vita politica. Partecipavo ad un convegno ed il relativo dibattito era fastidiosamente appiattito sulla conservazione dello status quo. Ero seduto vicino ad un caro e battagliero amico e lo istigai ad intervenire sfoderando la sua vis polemica: «Vai e tira giù» gli continuavo a dire. Ad un certo punto si convinse, chiese la parola e fece un intervento pazzesco, al punto che mi trovai costretto ad urlargli dietro ed a contestarlo apertamente dalla platea. Lui mi guardava esterrefatto, non capiva cosa fosse successo, io gridavo contro di lui perché stava dicendo cose inaccettabili. Lo stesso presidente dell’assemblea fu costretto ad intervenire, invitandolo alla calma ed a tenere un linguaggio corretto: «Chi conosce la tua spinta protestataria può anche capire, ma chi non ti conosce penserà che siamo una manica di ladri da abbattere senza pietà…».

Sta succedendo più o meno così con i grillini. Forse Grillo lo ha capito e si è in parte defilato. Sta aizzando Di Maio? Non vorrei che ad un certo punto si mettesse a sbraitare contro di lui. Sarebbe il massimo: l’auto-populismo all’attacco della democrazia.