I razzisti in curva e i coccodrilli in tribuna

Mio padre del fascismo mi forniva una lettura di base, tutt’altro che dotta, ma fatta di vita vissuta. Bastava trovarsi a passare in un borgo, dove era stata frettolosamente apposta sul muro una scritta contro il regime, per essere costretti, da un gruppo di camicie nere, a ripulirla con il proprio soprabito (non c’era verso di spiegare la propria estraneità al fatto, la prepotenza voleva così): i graffitari di oggi sarebbero ben serviti, ma se, per tenere puliti i muri, qualcuno fosse mai disposto a cose simili, diventerei graffitaro anch’io. Sì, perché su ordine e pulizia si è intransigenti solo se hanno un fondamento di contestazione politica, diversamente si lascia correre. Era ed è ancora così.

Bisogna quindi fare un discorsetto sulle scritte, sui manifesti, sulle bandiere, etc.: quando sono di stampo fascistoide, con quasi inevitabile punte razzistiche, vengono tollerati, si fanno chiacchiere il giorno dopo, ma sul momento si fa finta di non vedere. Se c’è poi di mezzo il dio-pallone, non si può disturbare il tifo anche se si arriva alla blasfemia nazista contro Anna Frank. È successo a Roma dove gli ultras laziali hanno inscenato una vomitevole kermesse anti-romanista, coinvolgendo l’immagine e la storia di una martire dell’anti-ebraismo.

Nessuno si è sognato di intervenire immediatamente e con le maniere forti, in stile caserma Diaz. Tutti hanno successivamente preso le distanze, hanno condannato, hanno garantito la punizione dei colpevoli, hanno distinto il tifo calcistico dalle manifestazioni di odio razziale, hanno recitato il solito rosario di inutili contumelie.

E se provassimo una buona volta a sottoporre questi giovanotti alle cure che i regimi da essi rimpianti applicavano ai dissidenti, rei di esprimere le loro idee tra l’altro in modo assai più urbano di quanto non facciano oggi i nostalgici nazi-fascisti. Niente violenza, intendiamoci, ma la condanna a certi “umili servigi” verso la collettività non guasterebbe. Invece i facinorosi del tifo razzista vengono spostati da una curva all’altra, magari si inibisce loro l’accesso allo stadio: in fin dei conti sono ragazzate… Andatelo a chiedere alle vittime della macelleria di Genova di parecchi anni or sono…

Quello però che mi disturba di più è la coccodrillesca reazione mediatica: dopo avere vezzeggiato i tifosi, dopo aver soffiato sul fuoco degli eventi calcistici, dopo aver fatto di una partita di calcio una questione di vita o di morte, partono con le solite ramanzine che durano lo spazio di un breve e stucchevole commento al campionato. Poi tutto come prima: questa volta è stato il turno di Anna Frank, la prossima vittima degli insulti razziali chi sarà?

La moviola (adesso si chiama VAR) è passata dai salotti televisivi ai bordi del campo, forse sarebbe il caso di spostarla sugli spalti: ne vedremmo delle belle. Probabilmente non finirebbe nemmeno una partita di calcio: allora meglio sorvolare e far finta di piangere sulle offese ad Anna Frank, che, parafrasando quanto detto da Gesù alle pie donne durante la via Crucis, ci consiglierà di piangere su di noi e sui nostri figli.

 

Il tiro alla fune istituzionale

“Chi fa da sé fa per tre” e poi “L’unione fa la forza”. Mio padre non si rassegnava e si chiedeva con insistenza: «E alóra cme la mètemia?». La stiamo mettendo male, nel senso che di unione non vogliamo più sentirne parlare e puntiamo sull’egoismo a livello personale, sociale ed istituzionale.

La calma è la virtù dei forti. La forza delle idee (democratiche) è inversamente proporzionale al tasso di conflittualità istituzionale. Il miglior attacco è la difesa dei valori (democratici). Oggi non è affatto così.

Se dopo la seconda guerra mondiale, in un Paese distrutto e in una società lacerata, i leader politici non avessero avuto il senso dell’unità nazionale e la seria intenzione di ridisegnare lo Stato, si fossero lasciati andare alla disperata ricerca degli errori nel carniere altrui per il gusto di rinfacciarli, avessero cercato in tutti i modi di portare acqua al proprio mulino, cosa sarebbe successo? Un disastro! Le idee erano divergenti e i valori non combaciavano: si trovò la forza di puntare al compromesso più alto a livello istituzionale.

Si dice “andava meglio quando andava peggio”: è vero anche in politica. Quando i contrasti erano fortissimi, quando la battaglia era feroce, quando la matassa era aggrovigliata si era capaci di trovarne il bandolo per dipanarla nell’interesse comune. Oggi, alle prese con problemi gravi ma comunque assai più piccoli di quelli del dopo-guerra, la buttiamo continuamente in caciara istituzionale, senza accorgerci che così facendo rischiamo di rovinare tutto quanto è stato faticosamente costruito.

Per fare uno straccio di legge elettorale ci sono voluti anni e non siamo ancora arrivati al traguardo. Se discutiamo di banche, siamo solo capaci di rimpallarci responsabilità: cerchiamo di trovare chi ha guidato male la macchina, ma guai a ripassarne costruttivamente il motore o a ipotizzare il cambio del meccanico. Se affrontiamo il problema delle autonomie locali, ci lasciamo prendere dalla smania indipendentista, impostiamo una prova di forza, un tiro alla fune, senza capire che la corda, a tirarla troppo, finisce con lo strapparsi e tutti si va col culo per terra. La scuola richiederebbe profonde riforme, ma guai a chi cerca di cambiare qualcosa: tutti in piazza a difendere ciò che non va bene. Non è successo così anche con le riforme istituzionali: le istituzioni non funzionano, ma non si toccano. La conflittualità è fine a se stessa e, tenuta artificiosamente e strumentalmente alta, diventa l’alimento di un paradossale istinto di conservazione.

Vengo al sodo: i referendum per l’ottenimento di una maggiore autonomia regionale, promossi da Lombardia e Veneto, pur essendo di carattere consultivo, rientrano nella logica di partire all’attacco, di puntare duro, al limite del bluff, per poi giocare da una posizione di forza. In un certo senso hanno fatto così anche in Catalogna e stiamo vedendo il casino che ne è conseguito: non ci saltano più fuori. Discutono a furor di piazze incrociate, gridano al golpe dopo averlo cercato.

O ritroviamo il senso della misura o ci condanniamo a voler cambiare tutto per non cambiare niente. C’è da rabbrividire al pensiero di cosa potrebbe succedere l’indomani delle prossime e ormai vicine elezioni politiche nazionali: se dalle urne non uscirà una maggioranza parlamentare, chi avrà il coraggio di sedersi attorno ad un tavolo per dare un governo al Paese. Si tende già oggi ad escluderlo per la falsa paura di essere reciprocamente contaminati. Se De Gasperi, Togliatti e c. si fossero comportati così, saremmo ancora alla ricerca dell’Italia. Andava meglio quando andava peggio!

 

A proposito di schede e schedine

Non ricordo quale sia il personaggio storico che affermava come la democrazia inizi dal giorno successivo alle elezioni. Teoria provocatoriamente interessante e condivisibile: non è infatti con un voto, seppure liberamente e responsabilmente espresso, che si esaurisce la prassi democratica di un Paese. Altrettanto vero, tuttavia, è che senza il voto non c’è democrazia e che quindi l’esercizio del diritto di voto non deve essere visto come la partecipazione ad un rito vuoto ed insignificante. Se il bello della democrazia viene dopo il voto, mi sembra di poter aggiungere altresì che la partita democratica comincia prima del voto, con la campagna elettorale.

Purtroppo invece si dice “siamo in campagna elettorale” per lasciare intendere che si sta celebrando il funerale della democrazia a suon di parole in libertà, di promesse a vanvera, di argomenti strumentali, di polemiche assurde, di fandonie a go-go. Quando si vuole richiamare alla serietà un politico, gli si dice infatti che la campagna elettorale è finita. Se si vuole svaccare un argomento lo si definisce tout court un tema da campagna elettorale.

Siamo d’accordo che il passare dai programmi alla loro esecuzione è un salto notevole: “dal dire al fare c’è di mezzo il mare” è un detto che vale anche in politica. Di qui a considerare il dibattito pre-elettorale come una farsesca rappresentazione teatrale ci passa una certa differenza. Siamo ormai abituati a vivere la politica come una intrusione fantasiosa rispetto alla realtà dei fatti, a considerare la scheda elettorale alla stregua della schedina del totocalcio.

Stiamo ben attenti a non ridicolizzare il gioco democratico relegandolo su un finto palcoscenico a cui si può tranquillamente voltare le spalle. Da una parte ci sentiamo sempre in campagna elettorale: non appena visti i risultati di una consultazione pensiamo immediatamente a quella successiva, immaginandola anticipata rispetto alla naturale scadenza, quasi a voler auspicare una precarietà liberante e continua. Dall’altra parte ne siamo infastiditi e tendiamo a   viverla con estrema sufficienza: snobbiamo le elezioni. Non è un caso se l’astensionismo aumenta, se la sfiducia serpeggia nella gente, se la protesta si fa globale e anti-sistema, se si parla con insistenza di anti-politica, se trionfano i populismi.

Abbiamo perso il senso della storia, abbiamo dimenticato il prezzo enorme pagato per la conquista della libertà e della democrazia, facciamo gli schizzinosi, irridiamo a chi continua a militare nei partiti politici, a chi si impegna assumendo cariche pubbliche, a chi discute seriamente e costruttivamente, ci vantiamo di essere diventati qualunquisti.

Ricordo di avere ascoltato le giuste rimostranze di un amico, che, di fronte ai fenomeni della corruzione e dell’affarismo infestanti la politica, si chiedeva: “È più qualunquista la gente che è stanca di questo andazzo oppure qualunquisti sono coloro che sporcano la politica facendo i loro interessi?”. Sono perfettamente d’accordo. Ma la rassegnazione, così come la generalizzazione, non aiuta.

Durante il lungo conclave per l’elezione del papa che sfociò nell’elezione di Roncalli quale Giovanni XXIII, in caffè dal televisore si poteva assistere al susseguirsi di fumate nere e qualche furbetto non trovò di meglio che chiedere provocatoriamente a mio padre, di cui era noto il legame, parentale e non, con il mondo clericale (un cognato sacerdote, una cognata suora, amici e conoscenti preti etc….): “Ti ch’a te t’ intend s’ in gh’la cävon miga a mèttros d’acordi cme vala a fnir “. Ci sarebbe stato da rispondere con un trattato di diritto canonico, ma mio padre molto astutamente preferi’ rispondere alla sua maniera e la buttò clamorosamente in politica: “I fan cme in Russia, igh dan la scheda dal sì e basta!“.

 

 

 

I leader di plastica

Quando ci accostiamo ad un qualsiasi professionista – sia medico, commercialista, fiscalista, etc. – da una parte vorremmo che il suo stile fosse improntato alla semplicità ed all’accoglienza, dall’altra, se ciò comporta un’aria dimessa, un’apparenza di normalità, ci sorgono seri dubbi sull’attendibilità di questo soggetto, reo di essere troppo scialbo per essere bravo e competente. Cerchiamo cioè l’abito che non fa il monaco. Siamo soddisfatti quando incontriamo persone che non si danno importanza, che non la fanno cadere dall’alto della loro cultura o posizione sociale, ma poi cominciamo a dubitare che la semplicità nasconda impreparazione, che la immediatezza copra l’insicurezza. Non è tanto e solo questione di phisique du rôle, ma di immagine di cui siamo tutti schiavi attivi e passivi.

La recente querelle sulla Banca d’Italia dimostra la masochistica incapacità, a livello di media e di pubblica opinione, di affrontare i nodi politico-istituzionali senza vedervi necessariamente scontri personali: Renzi critica la Banca centrale per mettere un suo uomo sul seggiolone di governatore; Renzi sfida a duello Ignazio Visco per creare problemi a Paolo Gentiloni; Maria Elena Boschi ha ispirato il documento della diaspora banchitaliota per coprire i suoi conflitti d’interesse; Mario Draghi si è seduto ad ascoltare la relazione di Visco per sponsorizzarne la riconferma; Sergio Mattarella non ne può più di Renzi e della sua imprevedibile vis polemica; Giorgio Napolitano briga nell’ombra per togliere il Pd dalle grinfie renziane. E la Banca d’Italia? Non c’entra! E la politica? Roba da gossip!

Non lamentiamoci quindi se chi ci governa tende ad illuderci somministrandoci, con dosi da cavallo, un’immagine rassicurante e convincente, un vestito al di sotto del quale non c’è niente. La personalizzazione della politica non è da confondersi con il desiderio e la ricerca di leader. Il leader infatti, proprio perché è dotato di un carisma che gli deriva da preparazione, coerenza e capacità dialettica, non ha bisogno dei mezzucci d’immagine, non deve incantare nessuno per farsi ascoltare ed apprezzare.

Prendo quattro personaggi politici del passato per rendere l’idea, li scelgo volutamente dalle due aree popolari, che, volenti o nolenti, hanno fatto la storia del nostro Paese: Palmiro Togliatti ed Enrico Berlinguer del Partito Comunista, Alcide De Gasperi e Aldo Moro per la Democrazia Cristiana. Non avevano bisogno di alzare i toni, di incantare i serpenti, di atteggiarsi a primi della classe. Erano addirittura piuttosto schivi ed austeri nei loro atteggiamenti. Eppure…

La svolta storica, a mio giudizio estremamente negativa, è avvenuta con Bettino Craxi e Silvio Berlusconi: mentre il primo aveva a sua relativa giustificazione lo sdoganamento della politica italiana da un ideologismo datato e superato, il secondo ha teorizzato e incarnato freddamente   la politica come ricerca mediatica del consenso a prescindere dai reali contenuti. Intendiamoci bene: il progredire della cosiddetta società dell’immagine ha contribuito ad accogliere questi messaggi. Si dice che Silvio Berlusconi, prima di scendere in politica, abbia convocato fisicamente un largo campione popolare per testare i messaggi con cui approcciare l’elettorato: ne uscirono ben noti discorsi. Gli esperti però gli avrebbero francamente detto che la sbornia sarebbe durata sei mesi, dopo di che le persone si sarebbero svegliate e il discorso si sarebbe complicato. Purtroppo quegli esperti hanno sbagliato di grosso, perché la sbornia non è ancora stata smaltita, anzi il metodo ha trovato larga risonanza magnetica in tutto la vita politica.

Il dibattito è falsato da questa spasmodica ricerca di un leader a tutti i costi: tutto è personalizzato e chi combatte o finge di combattere il sistema cavalca ancor più la personalizzazione della politica, associandola al populismo in un rapporto diretto e fuorviante per la democrazia. Sembrerebbe non esserci alternativa.

Chi contesta la leadership di Renzi, ritenendola inadeguata e soverchiante, gironzola penosamente alla ricerca di leader logorati dalla storia passata e recente; coloro che si ribellano a Berlusconi mettono in campo delle ridicole seconde o terze file; coloro che dovrebbero sostituire Grillo non sanno fare neanche una “o” con il bicchiere. E allora al momento teniamoci i leader che ci passa il convento: più pragmatico di così… E pensare che qualcuno mi ritiene un radical-chic. L’unico esempio in contro-tendenza ce lo offre il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Non è un caso se alla sua elezione arrivai a commuovermi e se mi viene spontaneo fare continuo riferimento a lui nella forma e nella sostanza della vicenda politica italiana. L’ultimo dei giusti. Chissà che non riesca a invertire la tendenza…

Essere o non essere…populisti

Se populismo vuol dire filo diretto con le pulsioni della gente senza alcuna mediazione politica, per battere il populismo non si devono ignorare aprioristicamente tali pulsioni per arroccarsi a difesa oltranzistica del sistema politico-istituzionale. Questo è il miglior assist al populismo stesso.

Non è sempre vero che il più bel tacer non sia mai stato scritto, a volte bisogna parlare anche a rischio di portare acqua al mulino della protesta fine a se stessa: occultare od ovattare la verità non aiuta a contrastare coloro che vogliono sempre andare oltre la verità apparente.

Sono le spontanee riflessioni maturate a latere della diatriba sulla Banca d’Italia ed il suo Governatore: chi osa criticare è immediatamente considerato un populista, autentico (M5S) oppure scimmiottante (Pd di Matteo Renzi). Qualcuno, all’indomani dello “sgarbato” documento di analisi critica sul ruolo della Banca d’Italia, ha ipotizzato l’esistenza in Italia di tre populismi: quello leghista di stampo squisitamente razzista, quello movimentista di contestazione globale al sistema, quello renziano di pura rincorsa ai due precedenti. Tutti o quasi tutti populisti.

Voglio fare un’imbarazzante confessione: di fronte alla superflua e stucchevole difesa d’ufficio nei confronti di Ignazio Visco (Santo quasi subito in risposta a chi vorrebbe demonizzarlo), mi sono detto che, se andiamo avanti così, per esprimere una posizione critica (il sale della democrazia) sarò costretto a votare Beppe Grillo. Se la critica a ciò che non funziona la lasciamo ai populisti per il timore di essere considerati tali, rischiamo di legittimarli quale unica forza di cambiamento: da una parte lega e cinque stelle all’attacco, dall’altra i benpensanti in difesa.

Il partito democratico viene messo su una snervante graticola alimentata dal fuoco purificatore del sinistrismo di lotta e smorzata dalle secchiate di acqua gelida del moralismo istituzionale. Paradossalmente c’è persino chi recita alternativamente le due parti in commedia: un giorno con il sindacato in piazza, l’altro con la Banca d’Italia nel palazzo.

Mio padre, con la sua abituale verve ironica, così sintetizzava lo scontro fra generazioni: «Quand j’éra giovvon a säve i véc’, adésa ch’a són véc’ a sa i giovvon…». Intendeva sdrammatizzare gli insopportabili schemi sociologici, che ci assillano con le loro sistematiche elaborazioni dell’ovvio. D’altra parte è come nella vita di coppia. Quando in una famiglia regna un clima di tensione, chi ha il coraggio di parlare si espone per ciò stesso al rischio di sbagliare: qualsiasi cosa dica si troverà contro un po’ tutti. Quando non c’è un fondamento di rispetto reciproco, qualsiasi parola è fuori luogo. Meglio tacere e non fare nulla. È quanto, in fin dei conti, molti “falsi criticoni” desiderano ardentemente. Mi sembra la migliore similitudine applicabile al dubbio amletico piddino.

 

 

I sindaci fanno anticamera in procura

Che i sindaci in Italia abbiano troppi poteri è innegabile, che siano degli incompetenti è spesso vero, sul fatto che commettano reati a raffica mi permetto di avere qualche serio dubbio. Le incertezze di cui sopra valgono a prescindere dall’appartenenza partitica dei sindaci stessi.

Effettivamente i primi cittadini provenienti dalle fila del movimento cinque stelle stanno facendo incetta di avvisi di reato (l’abuso d’ufficio è il più gettonato), ultima Chiara Appendino, sindaco di Torino. Non mi iscrivo però alla schiera di coloro che vogliono “smerdare” tutto e tutti, compresi i grillini o grilloparlantini come dir si voglia.

Sono sostanzialmente tre, a mio avviso, i motivi relativi a questa continuativa valanga che sommerge i sindaci italiani. Innanzitutto l’eccesso di competenze e poteri che li costringe ad essere improbabili tuttologi, esposti al rischio di commettere errori di carattere contabile, amministrativo, burocratico, che possono facilmente sconfinare nel reato. Dovrebbero vivere sotto scorta legale per radiografare preventivamente ogni e qualsiasi atto compiuto nell’adempimento della loro funzione.

L’eccesso di responsabilità si associa spesso alla carenza di preparazione ed esperienza: si candidano a sindaco persone inadeguate per curriculum politico e professionale. Ci cascano fior di personaggi, immaginiamoci sindaci improvvisati e frettolosamente selezionati. Forse c’è anche un po’ di faciloneria associata alla necessità di lanciare segnali immediati ad un elettorato che aspetta il miracolo dal sindaco eletto, il quale a sua volta, prima di essere eletto, ha magari promesso miracoli.

Il terzo motivo dipende dalla complessità e farraginosità delle procedure amministrative: un autentico ginepraio in cui si perderebbe qualunque essere umano, anche il più ferrato degli amministrativisti. I legacci burocratici condizionano tutti, cittadini e loro amministratori. Mentre i cittadini fanno anticamera in comune, i sindaci la fanno in procura.

Parlare di riforma burocratica è tempo perso. Auspicare meccanismi selettivi più seri per la classe dirigente politica impegnata nell’amministrazione degli enti locali è doveroso, anche se ormai candidarsi a sindaco è diventato un trampolino di lancio o un contentino di ripiego per la carriera politica. Temo che parecchi non si rendano conto delle difficoltà cui vanno incontro e si lascino affascinare dall’immagine di sindaco eletto dal popolo e personaggio potente e prestigioso. Rivedere gli assetti amministrativi mi pare impossibile, vista l’enfasi con la quale si sbandiera la funzionalità comunale associata al meccanismo elettorale tanto osannato.

C’è però un quarto motivo ascrivibile alla invadenza della magistratura, troppo rigida e pignola nel valutare e buttare nel tritacarne i comportamenti dei sindaci. Il buon senso, merce sempre più rara e che non si compra dal bottegaio, fa difetto anche nelle Procure della Repubblica: una maggiore prudenza ed una certa cautela potrebbero evitare di sbattere in prima pagina i sindaci ed i loro comportamenti dettati dalla buona fede. Se continuiamo così, dovremo mettere un magistrato a ricoprire le cariche politiche a tutti i livelli. Nella storia del popolo ebreo, come viene riportata nella Bibbia, c’è stato un periodo in cui il potere era esercitato dai giudici: ci pensino loro, sperando che poi non si mettano a litigare ed a farsi le pulci a vicenda.

 

Chi tocca la Banca d’Italia muore

Rivado con la mente a Roma, all’EUR, ai lavori di un lontano congresso della Democrazia Cristiana a cui ho assistito come semplice ma interessatissimo invitato. Durante l’intervento dell’allora ministro del Tesoro, Emilio Colombo, si alzò un isolato, ma forte e netto, attacco verbale all’azzimato esponente democristiano ed al suo intervento lungo e tecnicamente pesante: «Te lo ha scritto Carli?» gli chiesero provocatoriamente. Guido Carli era all’epoca il potente governatore della Banca d’Italia. Scaramucce che segnavano la vivacità, ma anche la profondità del dibattito. Allora come ora ci si chiedeva se l’economia dovesse essere indirizzata dal potere delle banche centrali o dalla politica.

Discorso vecchio ritornato d’attualità in questi giorni per il tanto discusso pronunciamento della Camera dei Deputati su iniziativa del Pd, reo di aver presentato un ordine del giorno critico verso l’operato della Banca d’Italia e contenente un sibillino auspicio a riportare l’Istituto ad un più attento ed efficace operato in difesa dei risparmiatori ed in attuazione dei suoi poteri di controllo sul sistema bancario.

È scoppiato un mezzo finimondo politico-mediatico: sarebbe infatti stata lesa la maestà della Banca d’Italia, attaccata la sua autonomia, invaso il campo governativo e quirinalizio relativamente all’ormai prossimo rinnovo del Governatore, attaccato il comportamento di Visco fatto capro espiatorio relativamente alle note, confuse e gravi vicende bancarie.

Ho letto e riletto i passaggi cruciali del documento, quelli che hanno fatto gridare allo scandalo. Non vi ho trovato nulla di scorretto e di inopportuno. Anzi. Da tempo si facevano risalire le disavventure di certe banche alle carenze a livello di vigilanza, non capisco perché, se il discorso approda in Parlamento (tra l’altro è al lavoro anche una commissione d’inchiesta), ci sia da stracciarsi le vesti.

È vero che il discorso avviene a ridosso della nomina del Governatore e che quindi, in teoria e col solito istinto retroscenista, può essere inteso come un’interferenza sui poteri dell’esecutivo e della Presidenza della Repubblica cui spetta tale designazione, ma non vedo sinceramente pericoli di conflitti istituzionali se il Parlamento indirizza raccomandazioni più che giustificate al Governo in questa e altre materie.

Poi si è detto che il Pd vuole scaricare sulla Banca d’Italia le sue colpe, che Renzi vuole distogliere l’attenzione dalle banche in cui sono invischiati certi personaggi, che la politica è alla ricerca di un governatore manovrabile e condizionabile, che tutto rientra ormai nella campagna elettorale e risente di strumentalizzazioni, che l’immagine dell’Italia ne esce compromessa a livello europeo. Se devo essere sincero, le reazioni stizzite in difesa di Banca d’Italia e Visco (di cui peraltro nessuno ha chiesto la testa) più insopportabili le ho riscontrate in Pierluigi Bersani e financo in Walter Veltroni: pensassero alle code di paglia politiche del Pci e successive modificazioni e integrazioni nel caso della malagestione e del dissesto del Monte Paschi Siena (non facciano pertanto i furbi tentando di recuperare la verginità con lo schierarsi in difesa ad oltranza della Banca d’Italia).

Essere autonomi non vuol dire essere intoccabili, essere nominati dal Governo non significa che il Parlamento se ne debba totalmente disinteressare, essere “bollinati” dal Presidente della Repubblica non comporta essere chiusi in una sorta di inattaccabile torre d’avorio bancaria. Non trovo niente di scandaloso anche nel fatto che il Governo abbia chiesto di “alleggerire” il contenuto critico del documento, togliendone i punti direttamente ricollegabili al giudizio su Ignazio Visco: richiesta legittima che rientra nella dialettica fra esecutivo e legislativo.

Le banche ne combinano di tutti i colori, non godono di buona fama presso la pubblica opinione, dei risparmiatori se ne fanno un baffo. La Banca d’Italia non dovrebbe vigilare? Lo faccia e chi la richiama a questo delicato e importante compito non sbaglia. Uno strano Paese l’Italia, dove tutti vomitano accuse ed offese a destra e manca, dove tutti dubitano della correttezza di tutti, dove va di moda lo sport del lancio del fango, dove esistono partiti e movimenti politici che fanno dell’insulto e della insinuazione la loro prassi quotidiana; poi se un partito politico (nel caso il Pd) presenta un documento in Parlamento, alla luce del sole, per criticare la Banca d’Italia ed auspicarne un comportamento più garantista e rassicurante, si crea un caso nazionale ed internazionale.

Parecchio tempo fa mi raccontavano di un incontro informale tra amministratori pubblici della provincia di Parma: un pianto cinese sulle difficoltà finanziarie dei comuni e sulle ristrettezze delle loro comunità. Ad un certo punto uno dei partecipanti sbottò e cominciò ad esprimersi in dialetto, adottando uno spontaneo e simpatico intercalare, scaricando colpe a più non posso sul sistema bancario reo di compromettere sul nascere ogni e qualsiasi intento di ripresa: «Parchè il banchi, ät capi…» diceva a raffica e giù accuse agli istituti di credito. Questo per dire che a volte la politica tende a scaricare sue responsabilità su altri soggetti, ma è pur vero che i detentori del potere finanziario tendono a condizionare scorrettamente la politica, a sentirsi al di sopra di ogni sospetto, magari dopo avere creato disastri (gli esempi sono numerosi a tutti i livelli). Succede in Europa e in Italia.

L’aria politica tira verso destra

I risultati delle elezioni in Austria e in Bassa Sassonia, pur non essendo istituzionalmente omogenei e politicamente analoghi, si prestano a qualche considerazione sugli schieramenti partitici che si vanno delineando in Europa ed anche in Italia.

Il primo dato emergente è lo spessore elettorale piuttosto consistente delle forze di estrema destra, che, sulle ali di assurde nostalgie, riescono a creare l’illusione di risolvere quello che molta parte della gente vive come il problema dei problemi: l’immigrazione.

Il dato preoccupante non è però il forte appeal di queste formazioni politiche estremiste, ma la loro capacità di influenzare tutto lo scenario politico, condizionando gli atteggiamenti e i programmi dei partiti di centro, costretti a rincorrere gli elettori sul terreno semplicistico dell’anti-immigrazione e dell’anti-europeismo ed a valutare eventuali alleanze su tali basi. Fino a qualche tempo fa le destre estreme esistevano, ma erano fuori gioco, confinate in un recinto reazionario, nello sfogatoio dell’anti-storia, nello spurgo delle rabbie etniche; oggi in buona parte conducono le danze.

Se in Francia è stata evitata la caduta nel precipizio lepeniano, se in Germania il centro democratico mantiene una forza tale da consentire alleanze al di fuori della destra neo-nazista, in Austria i popolari, dopo una campagna elettorale sbilanciata a destra, si trovano a valutare con molta plausibilità un’alleanza di governo con la destra estrema. Anche prescindendo dalle combinazioni post-elettorali, resta il forte condizionamento verso i partiti di centro, costretti a sopravvivere sposando politiche di destra. In buona sostanza, se proprio non si vogliono direttamente sdoganare i moderni fascismi, se ne viene comunque influenzati e trascinati: dato di una gravità eccezionale. Per il centro non esistono più i due forni di andreottiana memoria, ne è rimasto solo uno.

Anche in Italia, tutto sommato sta avvenendo questa pericolosa competizione destrorsa: un debole e frazionato centro alla rincorsa dell’avventurismo leghista e del nazionalismo meloniano. Silvio Berlusconi si sta inesorabilmente adeguando a queste derive estremiste anche se a parole dice di voler dettare l’agenda politica del centro-destra.

Se il centro va a destra, la sinistra riformista (i socialdemocratici e simili) resta paralizzata, abbandonata dalle ali estreme totalmente incapaci di mettersi in gioco, abbarbicata in vuote questioni identitarie, inadeguata ad elaborare proposte politiche convincenti e moderne. Succede clamorosamente in Francia, un po’ meno clamorosamente in Germania, ancor meno in Austria, speriamo per niente in Italia, anche se i presupposti si intravedono distintamente.

Le grandi coalizioni non risolvono i problemi, perché finiscono con l’alimentare ulteriormente la presa elettorale estremista, senza risolvere i problemi reali del Paese. In Francia l’esperimento Macron, ancora tutto da valutare, ha consentito di uscire da questo impasse. In Germania tutto dipende da Angela Merkel. In Austria la partita è molto compromessa. La Spagna è in altre faccende affaccendata.

E in Italia? I partitini della sinistra dura e pura giocano col fuoco e mirano ad indebolire il partito democratico, reo di essere guidato da Matteo Renzi e di voler qualificare in senso fortemente riformista la proposta di governo. Si grida allo scandalo dell’inciucio con Berlusconi, ben sapendo che i problemi sono altri e ben più complessi. A rendere ancor più confusa la situazione c’è la variabile impazzita del movimento cinque stelle, sempre più malauguratamente e sostanzialmente vicino alle strategie della destra estrema.

L’Europa sta alla finestra ad osservare quel che succede in Spagna e a mirare l’orizzonte degli altri Stati-membro, a fiutare l’aria che tira. Temporeggiare serve a poco, perché la situazione slitta automaticamente verso destra.

Dal momento che la politica in Europa, e non solo nel nostro continente, è condizionata da due fenomeni epocali, quali la crisi economica e l’immigrazione, bisognerebbe avere la capacità e la lungimiranza di affrontare seriamente queste partite per riportare il quadro politico alla realtà, lontano dalle illusioni e dalle paure. Ma l’Europa è fatta dagli Stati e quindi tutto ritorna da capo.

 

Arroccati nelle nuvole

Mio padre lasciava volentieri a mia madre il compito di tenere i rapporti con la maestra, poi il maestro, poi i diversi professori della scuola media inferiore e dell’istituto tecnico commerciale. Non se ne disinteressava, ma riteneva che mia madre fosse più adatta a svolgere questo ruolo, per il suo tratto elegante, per il suo carattere molto controllato e per la spiccata virtù di sapere stare al proprio posto. Si era imposto infatti una regola e l’ha sempre rigorosamente applicata: “Mo vót che mi digga quél a un profesór, par poch ch’al nin sapia al nin sarà sempor pu che mi”.

Verso il mondo della scuola vige invece e purtroppo l’inversa regola dell’intromissione: tutti criticano, tutti hanno la ricetta giusta, tutti si sentono protagonisti indiscussi e indiscutibili. È il motivo per cui ritengo “impossibile” riformare la scuola: si sbaglia sempre. Ci hanno provato in tanti. Possibile fossero e siano tutti degli incapaci. Non sarà piuttosto che gli attori cercano di scansare le indicazioni del regista?

Gli insegnanti si sentono intoccabili anche perché si devono difendere dall’invadenza delle famiglie che scaricano sistematicamente su di essi le colpe degli insuccessi dei loro figli.

Gli studenti si ribellano a tutto, sempre e comunque, in tutto vedono lo scavalcamento dei loro diritti e reagiscono scompostamente. È successo nelle piazze italiane contro i progetti scuola-lavoro. Non ho capito la sostanza di queste proteste al di là dei soliti slogan triti e ritriti. Sono stato studente anch’io e come tale ho partecipato a tante proteste miranti a svecchiare il sistema scolastico ed a renderlo aperto e partecipato.

Se rimane qualcosa di superato e di chiuso nell’impostazione scolastica, sicuramente un modo per aprire le porte può essere quello di istituire rapporti di collaborazione tra il mondo della scuola e quello del lavoro: la scuola dovrebbe preparare alla vita e quindi soprattutto ad una professione; il lavoro dovrebbe rappresentare un riferimento imprescindibile anche per lo svolgimento del percorso scolastico. Non capisco quindi questa sorta di ostilità preconcetta, questo comodo scetticismo studentesco, come se le esperienze lavorative fossero una distrazione o una oppressione nelle libere scelte degli indirizzi scolastici. Dovrebbe essere esattamente il contrario.

Certo, si potranno correre rischi di confusione o di sovrapposizione, si potranno creare disfunzioni e illusioni. Si tratta però di una strada da perseguire, checché ne sbraitino gli studenti, che vedo sempre più passivamente arroccati nel loro mondo nuvoloso, tra bamboccionismo, menefreghismo, illusionismo e ribellismo.   Gli studenti possono avere mille ragioni di protesta per le prospettive assai incerte che li aspettano, per le difficoltà di sbocco professionale al termine del loro percorso didattico, ma proprio per questo dovrebbero salutare positivamente i tentativi di collegamento in itinere tra studio e lavoro.

Sulla scuola si gioca una partita fondamentale e decisiva per il futuro della società. Bisogna che tutti si aprano alle novità, agli esperimenti, alle riforme. La politica faccia il suo dovere senza rincorrere i consensi a tutti i costi, i sindacati la smettano di corporativizzare gli insegnanti, le famiglie abbiano l’umiltà e la disponibilità a collaborare con i dirigenti e i docenti della scuola di ogni ordine e grado, gli studenti impieghino al meglio il tempo sfruttando tutte le occasioni che vengono loro offerte. Il tempo della conflittualità è finito, è inutile cercare il nemico che non c’è, è assurdo scendere in piazza solo per fare un po’ di casino in un nauseante mix tra goliardia e politica.

 

 

Ti ritiri tu?

Sarà perché un dato caratteristico della mia personalità è l’essere rinunciatario e quindi sento in me quasi una innata vocazione alle dimissioni, sarà perché la storia, dall’arte allo sport, insegna che quando è ora di ritirarsi occorre farlo senza tentennamenti pena la rovina di tutto quanto di buono si è potuto fare in precedenza, non capisco l’attaccamento alla poltrona dei politici di lungo corso. Non faccio distinzioni di parte, ma certamente Silvio Berlusconi è il campione della resistenza, giustificata in tanti modi, ma sostanzialmente riferibile alla sua smania incomprimibile di protagonismo.

Quando il grande tenore Francesco Merli, dopo aver mietuto allori e successi anche a Parma,   ritornò alla ribalta del Regio, piuttosto anziano e non più in grande forma vocale, non venne trattato con i guanti. In modo pesante ed inaccettabile, dettato più da cattiveria che da inesorabile atteggiamento critico, il loggione nei suoi confronti ruggì di brutto. Si era presentato sul palcoscenico del Regio, nei panni di Manrico nel Trovatore di Verdi, con voce ormai piuttosto traballante, e al suo indirizzo venne gridata la pesantissima espressione: “va’ al canäl” (era l’inutile mestiere che a Parma i tedeschi durante l’occupazione del nostro territorio, per tenere occupata la gente e distoglierla dalla resistenza al nazifascismo, imponevano agli uomini nel greto del torrente, fingendo la realizzazione di opere utili che alla fine venivano regolarmente eliminate con le ruspe).

Mio padre raccontava questo disgustoso episodio per bollare l’esagerata ed esibizionistica verve loggionista, ma anche per significare come qualsiasi persona, quando si accorge di non essere più in grado di svolgere al meglio il proprio compito, sarebbe opportuno che si ritirasse, prima che qualcuno glielo faccia capire in malo modo.

Ho ripensato a questo episodio quando ho letto che Berlusconi, se alle prossime elezioni non otterrà una maggioranza per governare, si ritirerà dalla vita politica attiva (lo ha fatto con la chiara intenzione di dare peso alla riproposizione di un centro-destra politicamente inesistente e strategicamente sfilacciato). Non ho certo tenuto il conto, ma è senza dubbio l’ennesima dichiarazione di questo tipo. Quando una persona vuole rinunciare a qualcosa, lo fa e basta così. Se comincia a dettare dei tempi, delle condizioni, delle previsioni etc., vuol dire che non ha alcuna intenzione di farlo, ma, al contrario, sta cercando disperatamente un ancoraggio per rimanere a galla.

Per l’Italia e per il centro-destra la presenza sulla scena politica di Silvio Berlusconi è stata ed è una pietra d’inciampo: ci ha trascinato tutti nel ridicolo senza che molti di noi se ne accorgessero. Ora sta facendo proprio come Francesco Merli, vuol cantare la stessa opera con voce traballante, intende ripetere l’operazione del 1994 con Lega e Fratelli d’Italia, finirà col fare la brutta copia di se stesso. Non so però se gli Italiani avranno la sufficiente lucidità per capirlo.

Mia madre, in base al sostanziale rigore con cui impartiva i suoi pragmatici ma “dogmatici” insegnamenti, perdonava molto, quasi tutto, ai giovani, mentre era inflessibile con le persone attempate cui assegnava un compito educativo imprescindibile. Mio padre sentenziava: “Con to mädra se un vciot al tira su ‘na gamba le bélle ruvinè” . Ma aggiungeva un consiglio per le persone anziane: avrebbero dovuto appartarsi in “un secatoj da castagni”. Miglior consiglio non si potrebbe dare a Berlusconi.

Parecchi anni or sono andava forte una battuta-scioglilingua di Raimondo Vianello (se non vado errato): “ti ritiri tu?”. La risposta la lasciamo a tutti coloro che sarebbe ora se ne andassero a casa e non si decidono a togliere il disturbo, pena sentirsi urlare dietro in modo pragmaticamente offensivo: “mo va’ al canäl” .