Un obiettore sui generis per (non) celebrare il quattro novembre

Il quattro novembre finisce purtroppo per essere la stucchevole festa delle Forze Armate e l’anacronistico sfogo delle residue nostalgie militaresche. Ritengo opportuno fare riferimento in materia all’esperienza culturale e concreta di mio padre: a lui cedo volentieri la scena.

Aveva fatto il servizio militare con spirito molto utilitaristico ed un po’ goliardico (per mangiare perché a casa sua si faceva fatica), cercando di evitare il più possibile tutto ciò che aveva a che fare con le armi (esercitazioni, guardie, tiri etc…) a costo di scegliere la “carriera” da attendente, valorizzando i rapporti umani con i commilitoni e con i superiori, mettendo a frutto le sue doti di comicità e simpatia, rispettando e pretendendo rispetto aldilà del signorsì   o del signornò. Aveva vissuto quel periodo come una parentesi nella sua vita e come tale l’aveva accettato,   seppure con una certa fatica.

Nonostante fosse un antimilitarista, partire per il servizio militare nel lontano maggio del 1924, il giorno successivo a quello dei funerali di Padre Lino, non fu un dramma, considerata la miseria in cui si viveva e i disordini sociali in cui si era immersi. Sotto le armi fece una scelta dettata dal desiderio di evitare assurde esercitazioni ed inutili sacrifici: diventò attendente di un ufficiale piemontese piuttosto scorbutico, ma, tutto sommato, accettabile.

Raccontava parecchi buffi episodi. Questo tenente si lamentava spesso perché mio padre non gli faceva bene il letto e durante la notte si trovava con i piedi scoperti. «A ca mèjja al lét a m’al fa mè mädra…» così si discolpava provocatoriamente questo strano attendente.

Il tenente si vendicava: spesso si faceva portare una borraccia d’acqua, ne beveva un goccio e il resto lo scaricava in faccia a mio padre con le risate dei soldati presenti alla scena, ai quali magari diceva: «Guardate che faccia da stupido ha il mio attendente…». E loro giù a ridere. Mio padre diceva fra sé: «A pasarà ánca chi méz chì…».

Le cose peggiorarono quando il tenente si sposò e a mio padre vennero richiesti certi servigi da vera e propria donna di servizio: era in chiara difficoltà psicologica, soprattutto nei rapporti con questa moglie autoritaria. «Va bén soportär al tenént, mo ànca so mojéra, no…» così spiegava le situazioni incontrate. Fu richiamato all’ordine a più alto livello, spiegò apertamente il motivo delle difficoltà subentrate e trovò comprensione assieme all’invito a non sgarrare. Il tenente gli aveva affibbiato il soprannome di “rospo” e mio padre dovette mandar giù parecchi rospi.

Raccontava della vicenda del pane che al reggimento arrivava fresco di giornata ma, chissà perché, ai soldati veniva somministrato raffermo. Mio padre osservò questa faccenda e fece una cosa molto semplice: azzerò il quantitativo in dispensa andandolo a vendere, in modo che il vivandiere fu costretto a distribuire il pane fresco. Qualcuno vide e riferì al colonnello, davanti al quale mio padre fu chiamato a rapporto. Conosceva il temperamento di questo superiore e si presentò pertanto con molta franchezza e sincerità, spiegando per filo e per segno tutto l’accaduto. Il colonnello, dopo averlo squadrato da capo a piedi, non lo punì, anzi gli diede apertamente ragione.

Venne Natale e, avendo usufruito di una licenza poco tempo prima, rischiava di doverlo passare in caserma. Natale a casa, un chiodo fisso nella mentalità di mio padre. Non si rassegnava all’idea, si mise a rapporto dal colonnello, entrò si mise sull’attenti e con voce franca e senza tentennamenti espose il suo caso spiegando anche le caratteristiche della sua famiglia. La richiesta fu accolta a condizione che non pregiudicasse i diritti degli altri militari. Riuscì a passare Natale in famiglia: arrivò la sera della Vigilia quando i suoi si erano appena seduti a tavola. Grande festa!

Il suo servizio militare si può riassumere così: della disciplina accettava le regole igieniche e comunitarie; non poteva sopportare le umiliazioni e le angherie: «An m’interesäva miga se ne s’ podäva miga andär fora ‘d sìra, mo al lavàg’ dal sarvel no, il stupidàgini no, i schèrs stùppid gnanca».

Se la cavò anche se continuò per tutta la sua vita ad essere estraneo alla mentalità militare: ne rifiutava la rigida disciplina, era allergico a tutte le divise, non sopportava le sfilate, le parate etc., era visceralmente contrario ai conflitti armati.

Di ritorno dalla toccante visita al sacrario di Redipuglia si illudeva di convertire tutti al pacifismo, portando in quel luogo soprattutto quanti osavano scherzare con nuovi impulsi bellicisti. «A chi gh’à vója ‘d fär dil guéri, bizògnariss portärol a Redipuglia: agh va via la vója sùbbit…». Pensava che ne sarebbero usciti purificati per sempre.

Ogni volta che sentiva notizie sullo scoppio di qualche focolaio di guerra reagiva auspicando una obiezione di coscienza totalizzante: «Mo s’ pól där ch’a gh’sia ancòrra quälchidón ch’a pärla äd fär dil guèri?».

E con questo interrogativo molto più profondo di quanto possa sembrare avrei terminato la mia irriverente e originale celebrazione della festa del quattro novembre.

 

Erotismo fra pubblico e privato

Tutti gli uomini (e le donne) dovrebbero tenere un comportamento eticamente e moralmente corretto, a maggior ragione coloro che sono investiti di cariche pubbliche. Tutto il mondo è paese e in tutto il mondo c’è chi approfitta della propria rilevante posizione per fare i propri comodi. Succede sul piano degli interessi economici e capita anche a livello sessuale. Non mi scandalizzo, anche se essere rappresentati e governati da personaggi censurabili non è il massimo della soddisfazione democratica. Forse la Gran Bretagna si distingue per un alto tasso di scorrettezze sessuali da parte degli appartenenti alla classe politica, almeno così può superficialmente apparire.

Una cosa però balza all’occhio ed è la immediatezza con cui i politici inglesi chiacchierati hanno il buongusto di fare un passo indietro. In parte ciò è dovuto ad una cultura anglosassone tutto sommato bacchettona che esige la facciata pulita, ma forse anche ad una dignità personale che deve essere difesa con una certa franchezza. Fatto sta che parlamentari e ministri si dimettono con relativa facilità, dopo essere stati coinvolti in questioni sessuali piccanti e imbarazzanti.

Il ministro della difesa britannico Fallon (ogni riferimento di carattere sessuale è puramente casuale) è stato travolto, assieme ad altri esponenti politici e membri del governo, dalle accuse di molestie sessuali e comportamenti impropri: si è prontamente dimesso ammettendo che il suo comportamento è stato in passato “inferiore alle aspettative” richieste ad un uomo nella sua posizione. Si è parlato del fatto che il ministro, durante un convegno, avrebbe palpeggiato il ginocchio scoperto di una giornalista o di una segretaria: se è tutto lì, il peccato appare veniale, ma non mi interessano le mani “passerine” dei ministri inglesi né le ginocchia più o meno pudiche di segretarie e giornaliste. Il discorso è un altro e riguarda i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche, i quali hanno il dovere, come recita la nostra Costituzione, di adempierle con disciplina ed onore.

Non si tratta di essere moralisti: ognuno infatti è libero di adottare le regole che vuole, salvo risponderne alla propria coscienza ed alle leggi dello Stato, ma se riveste una carica pubblica, il discorso cambia, perché nasce il fondato dubbio che abbia approfittato della sua posizione per molestare altre persone e perché dà indubbiamente un pessimo esempio ai cittadini che lo hanno direttamente o indirettamente responsabilizzato.

In parole povere se uno non fa il ministro può tentare di toccare tutte le ginocchia che vuole, salvo incorrere negli eventuali conseguenti reati ed esporsi alle denunce delle persone “toccate”; se invece lo fa da ministro, ne deve rispondere al di là dei risvolti puramente giudiziari.

È quanto, ad esempio, fingono di non capire Silvio Berlusconi e coloro che lo difendevano e lo difendono sostenendo che fosse libero di organizzare i festini a luci rosse e che chi lo censurava lo facesse per invidia o per falso moralismo. Sono d’accordo sul fatto che sia ben più grave incassare una tangente che sfogare pulsioni erotiche a destra e manca, ma quale affidabilità complessiva mi offre un politico che mescola cariche pubbliche e sesso trasgressivo.

Se il fatto non esiste, il politico ha tutto il diritto di difendere la propria immagine e rimanere al proprio posto, ma, se il fatto esiste, non ci si può nascondere dietro il dito della impossibile distinzione tra sfera pubblica e privata.

Negli Stati Uniti i mafiosi, in passato, sono stati incastrati perché non pagavano le tasse; nel mondo anglosassone i politici vengono messi sul banco degli imputati soprattutto per le loro scorribande erotiche: è frutto di un rigore molto parziale e relativo, da non prendere per oro colato, ma nemmeno da sottovalutare con supponenza.

Resta il titolo di merito dei politici, che, colti in fallo (ogni riferimento di carattere sessuale continua ad essere puramente casuale), hanno la “onorevole” prontezza di riflessi di farsi da parte. Questione di stile, almeno a posteriori.

I zbragacatalògna

Se la Catalogna avesse mai avuto bisogno di eroi per conquistare la propria indipendenza, non li ha certamente trovati in Puigdemont e c. La vicenda catalana si sta trasformando in una farsa con tanto di frettolosa fuga all’estero di fronte alla normale reazione del governo centrale, che ha messo i capi secessionisti nel mirino della magistratura.

Mi sono chiesto più volte: dove vogliono andare i Catalani al di là della goliardica e velleitaria smania autonomista? Hanno contro tutto il mondo, il loro fallimento economico è dietro l’angolo, il rischio isolamento è clamoroso, non hanno classi dirigenti all’altezza della situazione. È bastato che il governo madrileno abbaiasse e lo spavento è stato grande. Armiamoci e partite!

Puigdemont, il leader catalano in esilio, si atteggia a perseguitato politico, ma sta facendo la figura del rivoluzionario a parole, del bambinone che scappa col pallone in mano. Non ho idea come abbia reagito il popolo separatista di fronte a questa fuga: probabilmente si smorzeranno gli entusiasmi. La causa catalana mi è sembrata piuttosto inconsistente, molto piazzaiola e poco politica, molto improvvisata e poco strutturata. Sta diventando un monito per quanti si improvvisano disegnatori di nuovi assetti geo-politici: fanno baccano, ma non concludono niente.

Ce ne sono parecchi in giro per il mondo, per l’Europa e per l’Italia. Sfruttano l’aria che tira, ma, quando il gioco si fa duro, mostrano la corda. Il rischio non è tanto quello di stravolgere gli equilibri, ma quello di creare confusione, di deviare l’attenzione puntandola su obiettivi irrazionali e irraggiungibili.

Facciamo alcuni riferimenti al nostro Paese. I separatisti catalani assomigliano un po’ ai leghisti e un po’ ai grillini. Dei primi hanno la demagogica spinta a semplificare e risolvere i problemi, dividendo la torta a fette, pensando che la propria fetta sia la più gustosa e nutriente. Dei secondi hanno la velleitaria convinzione di rivoltare il tessuto politico come un calzino senza pensare che l’abbigliamento da rinnovare è assai più complesso. Siamo nella categoria politica degli avventurieri: possono anche incantare, ma poi…

Vogliono salvare la patria cambiandola, dividendola, mettendola a soqquadro: patrioti a rovescio. La politica non ha bisogno di patrioti e di eroi, ma di uomini coraggiosi, che sappiano affrontare i problemi senza scassare tutto.

La generalizzata sfiducia nella politica offre il brodo di cottura ai rivoluzionari da operetta, fino al momento in cui la minestra scuoce e diventa immangiabile. C’è un termine del dialetto parmigiano che rende bene l’idea dello spaccone, del millantatore, del soggetto che vuole rompere tutto, che vuole lacerare i rapporti, stracciare i documenti e i patti: “zbragaverzi” (zbragar ‘l verzi, cioè non concludere un cavolo). Vale per   Puigdemont, per Salvini, per Grillo. Il più grande “zbragaverzi” del mondo è però…Donald Trump. Se non erro i Piacentini usano un termine analogo, ancor più colorito: “balanud”. Puigdemont in Belgio, dove è scappato, sta ballando nudo, con le mani in tasca.

 

Nostalgia democristiana

Nel demenziale lessico televisivo, quello che si sprigiona dai dibattiti politici sconfinanti sistematicamente nella rissa circense, l’aggettivo “democristiano” viene ormai usato per offendere l’interlocutore, per sottolinearne l’anacronismo, per deriderlo, per metterlo culturalmente ai margini. Fra le tante insopportabili mode mediatiche ci sta anche questa: si tratta di un’inaccettabile semplificazione storica, di una snobistica lettura politica, di un’ignorante e falsa rappresentazione della realtà passata.

Dietro tale provocatoria aggettivazione si cela l’intento di identificare lo stile democristiano con il compromesso a tutti i costi, con il fariseismo della politica politicante, con il moderatume clericale e via discorrendo: si vuole far coincidere la portata storica di un movimento politico con la sua caricatura.

La democrazia cristiana, con i suoi esponenti più illuminati   e preparati, ha contribuito in modo determinante all’elaborazione ed all’approvazione della Costituzione italiana. Non dimentichiamolo, non lo dimentichino coloro che fanno della Costituzione un alibi conservatore o un libro dei sogni da mettere nel cassetto.

La democrazia cristiana ha imbroccato le scelte fondamentali della politica estera italiana: l’Occidente, la Nato, l’Europa, il dialogo con i Paesi arabi, etc. L’euroscetticismo, il razzismo, il nazionalismo, il separatismo non erano nel dna democristiano.

La democrazia cristiana non si è mai arroccata sulle proprie posizioni, ma ha sempre puntato a collaborare a livello governativo con le forze politiche più vicine, ha dialogato con tutti i partiti democratici ed ha saputo favorire l’ingresso nell’area governativa dei partiti di sinistra. Le coalizioni non servivano a raccattare voti a destra e manca, come avviene nel panorama politico attuale.

La democrazia cristiana ha onorato la sua ispirazione cattolica salvaguardando la sua visione laica della politica e delle istituzioni. Tutt’altro atteggiamento rispetto al corteggiamento tattico in cui si esercitano i partiti moderni (?) verso la Chiesa-Istituzione.

La democrazia cristiana ha fatto dell’interclassismo il presupposto sociale della sua politica puntando alla sintesi degli interessi mediati in senso progressista. Niente da spartire con la ricerca degli inciuci sociali e politici della politica di oggi. Un popolarismo che non aveva niente di populismo.

La democrazia cristiana ha tenuto ben distinto il discorso della moderazione da quello della conservazione, ha tenuto una posizione centrale nell’arco partitico distinguendola dal puro e comodo centrismo. Siamo ben lontani dall’incolore moderatume dei giorni nostri.

La democrazia cristiana ha trovato il modo di mantenere la propria unità pur ammettendo al proprio interno un franco e vivace dibattito, sopportando le correnti in quanto aggregazioni con basi culturali capaci di alimentare il confronto delle idee. Niente a che vedere con le vuote e strumentali schermaglie odierne.

La democrazia cristiana ha espresso leader politici di caratura internazionale: da De Gasperi a Fanfani, da Moro a Zaccagnini. Senza bisogno di scomodare i big, anche mettendo a confronto le seconde, terze e quarte file democristiane avremmo tutto da guadagnare rispetto agli esponenti odierni di primo piano.

Accanto a questi indiscutibili pregi dobbiamo mettere anche parecchi difetti: la tentazione dorotea del potere per il potere, la sottovalutazione e la compromissione col fenomeno mafioso, il galleggiamento al di sopra dei problemi economici e sociali, una visione culturale piuttosto limitata e rinunciataria, la progressiva caduta nell’affarismo della politica, l’esagerato condizionamento dell’anticomunismo, il mancato controllo sulla burocrazia, la debolezza verso gli attacchi condotti contro le istituzioni.

Non ho inteso fare un’analisi storica, ho solo voluto tratteggiare sommariamente la complessità di un fenomeno politico, che non si può liquidare a suon di battute di dubbio gusto. D’altra parte, la mia partecipazione a questo partito è stata sempre caratterizzata da un atteggiamento molto critico ed è finita quando, con la segreteria di Arnaldo Forlani, i difetti di cui sopra oltrepassarono di gran lunga i pregi.

Se uno mi dà del democristiano non mi sento pertanto offeso, ma è ora di finirla con le banalizzazioni anti-storiche: la politica attuale è zeppa di partiti e personaggi inqualificabili. Magari assomigliasse alla Democrazia Cristiana…

Un rogo tira l’altro

Emergenza incendi: in Piemonte si moltiplicano i roghi anche per effetto della siccità e del forte vento. Per questi fenomeni c’è il dubbio che la causa scatenante sia la mano più o meno criminale dell’uomo. Si è aperto un circolo vizioso determinato in modo remoto o prossimo dal comportamento umano: l’inquinamento causa i cambiamenti climatici, il clima determina effetti devastanti sull’ambiente, l’intervento dell’uomo aggiunge benzina al fuoco, gli andamenti meteorologici accentuano le devastazioni.

Ci sentiamo prigionieri e reagiamo demenzialmente bruciando la cella in cui ci siamo chiusi. Qualcuno sostiene che non vi sia un collegamento tra inquinamento e cambiamento climatico: mi sembra una storia simile, anche se inversa, rispetto a quella dei vaccini. La nostra vita è tutta puntata sulla scienza, da essa ci aspettiamo i miracoli, poi, quando non arrivano i miracoli, ma gli allarmi e i rimedi faticosi, la snobbiamo con un’alzata di spalle.

La Bibbia la dice lunga: all’uomo non bastò rifiutare il paradiso terrestre, ma si mise ad ammazzare il proprio fratello. Per dirla in senso religioso: se rifiutiamo Dio va tutto a catafascio. Per dirla in senso laico: se dimentichiamo di essere uomini, diventiamo peggio delle bestie.

Non ci accontentiamo di bruciare i boschi, troviamo divertente bruciare le persone: un tempo si mandavano al rogo le streghe, oggi i clochard, i personaggi scomodi e fastidiosi, quelli che compromettono il decoro delle nostre piazze. Facciamo tante polemiche sull’incenerimento dei rifiuti per poi incenerire quelli che cinicamente consideriamo “rifiuti umani”.

Rogo chiama rogo. Stupidità chiama stupidità. Delinquenza chiama delinquenza. Una spirale odiosa e perversa della quale non si vede la fine. Quando ad un’automobile si rompono i freni, non si sa dove possa andare a sbattere: può finire contro un muro, può cadere in un precipizio, può scontrarsi con un altro mezzo, può investire un gruppo di persone.

A ben pensarci c’è un filo che lega l’episodio degli ultras irridenti ad Anna Frank con quello del fuoco appiccato al clochard, nei giardini di una piazza di Torino intitolati a Madre Teresa di Calcutta. Forse non solo si vuole sfogare l’odio contro i diversi, ma si vogliono dissacrare i simboli che ci richiamano al dovere di rispettare i nostri simili. Ho sentito che qualcuno considera questi comportamenti come vere e proprie bestemmie moderne, come ribellione ai valori condivisibili, come provocatorio ritorno agli orribili fantasmi della storia.   Oltretutto quando alla cattiveria aggiungiamo una punta (?) di stupidità arriviamo all’apice del male da cui diventa ancor più difficile difendersi.

Le analisi sociologiche lasciano il tempo che trovano perché elaborano sistematicamente l’ovvio, gli scavi psicologici fanno bene a chi vende l’elisir di lunga morte, i social sono il dito dietro cui nascondiamo le nostre vergogne, i commenti mediatici durano lo spazio d’un mattino. Ed è subito sera, anzi notte fonda.

Dietro le indulgenze c’era in agguato lo Ior

A 500 anni esatti dalla pubblicazione delle tesi di Wittenberg (31 ottobre 1517) ho fatto la mia personale celebrazione di questo evento e della riforma luterana in genere per quello che di essa sono riuscito a cogliere. Alla domanda se si debba considerare Martin Lutero come un eretico e un contestatore o un profeta vero e proprio capace di rinnovare la vita cristiana alla luce della Parola di Dio, non avrei dubbi a rispondere riconoscendo la portata profetica a questo personaggio, che mi scuote, mi mette in crisi, ma in fin dei conti mi consola.

Ho letto e ascoltato dotte dissertazioni, prevalentemente portate a rivalutare, anche dalle sponde cattoliche, la sua azione fortemente provocatoria, coraggiosa ed innovativa: sul carattere provocatorio, che spesso viene considerato un limite dagli uomini di Chiesa portati a smussare gli angoli, esprimo tutta la mia ammirazione in quanto sono fermamente convinto che Gesù Cristo sia stato il più grande provocatore di tutti i tempi e quindi…

Voglio però riportare semplici notazioni personali e parto dai limitati e superficiali studi storiografici della mia modesta carriera scolastica: i manuali di storia finivano col circoscrivere la riforma luterana alla sacrosanta reazione verso l’abuso delle indulgenze da parte del Vaticano. Pur capendo l’assurdità dell’affarismo legato ad un perdono somministrato tariffario alla mano, pur comprendendo la gravissima violazione religiosa contenuta in questa prassi simoniaca, non riuscivo a comprendere come, da entrambe le parti, su una simile questione si potesse arrivare ad uno scisma vero e proprio. C’era ben altro, prima e dopo, sopra e sotto le indulgenze. Si pensi allo Ior…

Passo ad una storia parentale: una cugina di mia madre, sostanzialmente ripudiata e rinnegata per essere andata sposa ad un protestante e quindi costretta ad abiurare per poter celebrare il suo matrimonio. Oggi questi matrimoni si celebrano in carrozza, senza alcun problema, sono addirittura la punta di diamante dell’incontro fra cattolici e protestanti.

Quando osservo l’inflazione di statue che adornano le chiese cattoliche e il devozionismo deviante ad esse collegato e sconfinante in un vero e proprio pietismo che fa rima con magismo, quando osservo certe ridondanti e debordanti liturgie, quando vedo i Santi e Maria Vergine messi in pol position davanti a Gesù Cristo, mi viene nostalgia dell’austero ed essenziale culto protestante. La centralità di Cristo, a livello teologico e liturgico, come punto cardine per la salvezza di ogni credente non è ormai patrimonio cristiano comune?

Ricordo quando venivano a bussare alla porta di casa mia i propagandisti protestanti che offrivano la Bibbia a noi recalcitranti cattolici, timorosi di leggere la Parola di Dio senza la mediazione clericale. Non siamo arrivati tutti a riconoscere il primato della Parola di Dio nella vita ordinaria dei credenti?

Quando prendo atto della flessibilità luterana in materia di morale sessuale, mi chiedo se i protestanti non abbiano fatto e continuino a fare da battistrada sulla via della deregulation per affermare che, ad esempio, nel matrimonio quello che conta è l’amore degli sposi e poi c’è la procreazione. Ricordo sempre un mio simpatico amico che mi confidò come andandosi a confessare si sentì chiedere quante volte avesse violato la regola ferrea dell’atto sessuale legato alla procreazione. Mi disse: «Se ha poco senso considerare peccato un atto d’amore a prescindere dalla procreazione, è decisamente demenziale contare il numero degli sgarri: infatti una coppia, se vuole evitare la sorpresa, deve adottare stabilmente certe precauzioni…».

La riforma conciliare, per certi versi ancora inattuata, non recuperava forse tante intuizioni luterane, considerate eretiche e causa di separazione tra le Chiese cristiane? Sul celibato sacerdotale e sulla posizione della donna nella Chiesa i protestanti non sono più avanti dei cattolici?

Per fortuna il dialogo ha fatto passi avanti, ma quante difficoltà, quante incertezze, quante paure! Non voglio dire che Martin Lutero avesse tutte le ragioni, ma ne aveva molte e su parecchie il tempo gli ha dato ragione. Mi consolo pensando alla mia vis trasgressiva, alla mia vocazione eretica, alla mia tendenza a far prevalere la coscienza rispetto alle fredde regole morali. Da cattolico forse a volte esagero, forse faccio scelte di comodo… Che Martin Lutero preghi per me!

La torta istituzionale non viene dalla cucina renziana

Fanno sorridere quanti sostengono che Matteo Renzi voglia impossessarsi delle Istituzioni occupandole con uomini a lui particolarmente vicini: infatti, in capo al segretario del Pd, eletto quasi plebiscitariamente con vere elezioni primarie, si sta creando una situazione quasi paradossale, vale a dire un certo isolamento rispetto a coloro che presiedono le istituzioni.

Paolo Gentiloni, capo del governo, mantiene nei confronti di Renzi un’autonomia al limite del separatismo: ciò si è dimostrato in parecchi casi, ultima la conferma del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, verso cui il Pd aveva, seppure indirettamente, manifestato qualche perplessità. Di conseguenza anche la Banca d’Italia non avrà un feeling particolare col segretario del Pd.

La presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini, di provenienza Sel, ha aderito espressamente a Campo Progressista, la recente formazione politica capeggiata da Giuliano Pisapia e quindi non è certo in rapporti idilliaci con Renzi e lo si capisce spesso.

Il presidente del Senato Pietro Grasso si è chiamato fuori dal Pd senza mezzi termini, segnando un netto disaccordo di merito e di metodo con la segreteria Renzi e con il gruppo senatoriale del partito (la legge elettorale è stata solo l’occasione per ufficializzare la rottura).

Il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano da tempo strizza l’occhio alla minoranza interna al Pd ed ha preso ultimamente e distanze in ordine alla legge elettorale per come è stata approvata, ma anche per il suo contenuto. Non parliamo degli altri ex (Prodi, Monti, Letta, etc) a cui ho già dedicato un acido commentino (non mi ripeto e rimando lettori ad un precedete pezzo).

Se questo vuol dire invadenza renziana… Proviamo a immaginare cosa farebbero e cosa fanno altri leader politici italiani. Il relativo isolamento renziano non può certo essere ascritto ad ostilità preconcetta nei suoi confronti: c’è anche quella, ma pure lui ha le sue responsabilità politiche e caratteriali. Da qui ad essere accusato di collezionismo poltronaro ed invadenza istituzionale ce ne passa.

Pensiamo se Berlusconi avesse un forzista a capo del governo. Tenderebbe a manovrarlo come una marionetta, non si farebbe tanti scrupoli istituzionali. E che dire di Beppe Grillo? Non consentirebbe certo a Luigi Di Maio di nominare un governatore della Banca d’Italia in contrasto col parere suo e della maggioranza del movimento cinque stelle (certi sindaci, consiglieri e deputati grillini sono stati emarginati o espulsi per molto meno).

La forza di Matteo Renzi sta diminuendo non tanto per un calo nei consensi statisticamente pesati, ma per il suo progressivo isolamento istituzionale che non è conseguenza ma causa di debolezza politica.   L’unica istituzione che mantiene una sacrosanta neutralità è la Presidenza della Repubblica: Sergio Mattarella è capace di tenersi fuori dalla mischia e, se interviene, lo fa con stile impeccabile e discrezione invidiabile.

Persino Massimo D’Alema si è accorto che la torta intorno a Renzi si sta facendo smaccata: ha invitato tutti a non tirare per la giacca Pietro Grasso, anche perché probabilmente gliel’hanno già tirata e rischierebbe di rimanere in maniche di camicia.

Troppi salvatori per una patria

Nel nostro Paese assistiamo ad una continua passerella di personaggi politici che si accreditano come salvatori della patria dopo aver avuto la possibilità negli anni passati non dico di salvarla , ma almeno di migliorarla un po’, e non esserci riusciti.

Il centro-destra ha governato dal 1994 al 1996, dal 2001 al 2006, dal 2008 al 2011 per un totale di 12 anni, non certo un periodo breve, pur se non continuativo: Berlusconi con la sua Forza ha portato l’Italia sull’orlo del baratro in collaborazione coi leghisti e con la destra (entrambi cavallerescamente sdoganati), variamente assortiti ma pur sempre alleati nella maggioranza e nel governo.

Il centro-sinistra guidato da Prodi, D’Alema, Amato, Letta, Renzi e Gentiloni ha governato dal 1996 al 2001, dal 2006 al 2008, dal 2013 fino ai giorni nostri, per un totale di quasi 13 anni: ha ottenuto risultati migliori rispetto alla deriva berlusconiana, ma ha sicuramente sprecato parecchie chance.

Mentre il centro-destra punta testardamente ancora su Berlusconi, pur tentando disperatamente e “peggiorativamente” di condizionarlo, il centro-sinistra, come al solito, si lacera al proprio interno e scarica tutte le colpe possibili e immaginabili sugli ultimi presidenti del consiglio, soprattutto su Matteo Renzi reo di avere snaturato la sinistra portandola al fallimento identitario. In questa assurda gara si distinguono Bersani e D’Alema, il primo è stato ministro di primissimo piano e segretario del Pd, il secondo è stato presidente del consiglio e ministro degli Esteri. D’Alema era appoggiato dagli “straccioni” seguaci di Francesco Cossiga e quindi non può certo dare a Renzi e Gentiloni lezioni di purismo parlamentare; presiedette un governo che partecipò alla guerra del Kosovo, non certo una scelta idealista, ma pragmatica, e quindi le sue rimostranze identitarie e valoriali fanno alquanto sorridere. Sono portato a pensare che influisca sulle sue scelte polemiche soprattutto la mancata designazione a ministro degli esteri europeo (che sarebbe comunque stata auspicabile e utile all’Italia ed all’Europa).

Non scherzano nemmeno Romano Prodi ed Enrico Letta. Prodi non riesce a togliersi di bocca il dente avvelenato della perfida bocciatura subita nella corsa alla Presidenza della Repubblica, il secondo non ha ancora ingoiato il rospo della subdola defenestrazione dalla Presidenza del Consiglio.

Se è vero che si vive anche di ricordi, non si può vivere di astio e di rimpianti. Prodi è stato anche a capo della Commissione Europea per diversi anni e non ha lasciato segni importanti del suo operato, tali da consentirgli di fare, in giro per il mondo, il primo della classe degli europeisti, somministrando lezioni a destra e manca.

Purtroppo a questo strano gioco del salvatore della patria è arrivato persino Giorgio Napolitano, presidente emerito della Repubblica: lui che è sempre stato l’autorevole e profetico interprete della linea politica di sinistra in chiave riformista, europeista e pragmatista, si sta riscoprendo, quale padre nobile della sinistra stessa, come garante ante litteram della purezza istituzionale. Mi riferisco alle sue censure di metodo e di merito verso la nuova legge elettorale finalmente approvata dal Parlamento. Non gli sono andati giù i numerosi ricorsi alle questioni di fiducia posti dal governo sulla legge stessa in modo da renderne spedito l’iter parlamentare al prezzo di contenere il dibattito altrimenti fuorviato da lungaggini ed ostruzionismi vari.

Ritengo la scelta governativa accettabile se vista nella logica di raggiungere l’imprescindibile risultato di arrivare all’approvazione delle regole elettorali senza intralciare i lavori camerali fino al termine della legislatura (legge finanziaria ed altri provvedimenti in dirittura d’arrivo). Ma la mia sorpresa è stata quella di trovare Napolitano schierato sul fronte del vuoto garantismo istituzionale: proprio lui che, peraltro giustamente ed opportunamente, non si fece scrupolo di assumere ruoli politici, a livello interno ed internazionale, per chiudere la triste parentesi del governo Berlusconi e riportare il Paese nella normalità dei suoi gravi ed urgenti problemi. Senza parlare degli, altrettanto giusti ed opportuni, interventi riguardanti i rapporti con la Magistratura. Ero dalla sua parte e mi sembrarono pretestuosi e inaccettabili gli attacchi ai suoi presunti sgarbi istituzionali, così come mi sembrano esagerate e grilloparlantesche le sue censure all’operato del governo Gentiloni in occasione della vicenda parlamentare sulla riforma elettorale.

Mentre Bersani e D’Alema escono dalla maggioranza sputando veleno, Napolitano fa il fine dicitore costituzionale, finendo per andare nella stessa sostanziale direzione: quella di delegittimare il governo e attaccare il Pd. A risentirci alla prossima puntata!

 

 

Grasso che cola

La legge elettorale è decisamente un cimento arduo per la politica italiana: tumulti nelle aule parlamentari, si grida la golpe, un partito lascia la maggioranza e scende in piazza così come un movimento di opposizione, il Presidente emerito della Repubblica prende le distanze, il Presidente del Senato si dimette dal gruppo parlamentare di appartenenza, si intravede una lunga coda di polemiche con eventuali ricorsi alla Corte Costituzionale.

Tutto ciò nonostante la legge sia stata approvata con larga maggioranza, sotto la spinta insistente anche se discreta del Quirinale e dopo un lungo e travagliato dibattito sfociato in un accordo che ha coinvolto importanti forze di opposizione.

Qualsiasi meccanismo elettorale è criticabile, la legge perfetta non esiste, era certamente meglio approvarla in un momento politico più tranquillo (quando?), era preferibile, come indica la Ue, parlarne a notevole distanza temporale rispetto alle scadenze elettorali (si sarebbe dovuto rinunciare alla legge per andare al voto con un sistema di regole raffazzonato e irrazionale), era più corretto consentire un dibattito parlamentare di largo respiro (ma la politica ha sempre tempi stretti). La situazione confusa e contraddittoria venutasi a creare sul piano legislativo imponeva comunque di arrivare ad una conclusione.

Credo che la riforma elettorale funzioni da sfogatoio per tutte le frustrazioni istituzionali e politiche (di maggioranza e di opposizione). Se devo essere sincero, penso che a nessuno di coloro che si strappano le vesti interessi più di tanto la rappresentatività, la governabilità, la funzionalità dei meccanismi elettorali: ognuno pensa alla strenua difesa del proprio consenso, cerca di trovare la migliore collocazione possibile in vista dell’imminente consultazione e sonda il terreno per mettere le mani avanti rispetto ad eventuali flop.

Tutto rientra, più o meno, nel gioco politico che rischia di turbare il gioco democratico. Mi metto nei panni dell’elettore medio: un simile casino non lo invoglierà certamente a votare, tutti faranno a gara per confondergli le idee portandolo ben oltre la già inevitabile incertezza dovuta ai meccanismi farraginosi.

La cosa che non mi aspettavo riguarda invece la presa ufficiale di distanza dal gruppo parlamentare Pd operata dal Presidente del Senato Pietro Grasso per dissensi di metodo e di merito sulla legge elettorale: era cioè contrario all’uso dei voti di fiducia per sveltire la manovra e non condivideva i contenuti fondamentali della legge stessa (così almeno si dice).

Non mi permetto di giudicare le idee del Presidente del Senato: è libero di cambiare gruppo, anche se ormai in Parlamento si cambia partito con la stessa facilità con cui si cambia la camicia; come esponente politico è libero di dissentire dalle linee adottate dal suo gruppo di riferimento; come magistrato si sarà fatto un concetto critico del dettato normativo ritenendolo magari incostituzionale e/o in contrasto con i principi di una democrazia parlamentare; avrà visto comportamenti politicamente censurabili da parte del governo e considererà la legge troppo calata dall’alto dei partiti senza lo spazio necessario per il dibattito parlamentare.

Mi permetto però di osservare come Pietro Grasso sia stato eletto alla seconda carica dello Stato per iniziativa di un gruppo politico da cui adesso egli prende nettamente le distanze. Non sarebbe il caso di dimettersi anche da Presidente del Senato, visto il venir meno del rapporto di fiducia con chi lo ha eletto? Sul piano istituzionale le dimissioni non sono dovute, ma dal punto di vista politico… Anche perché non vorrei che questa sua scelta finisse involontariamente per portare acqua al mulino dei dissidenti interni ed esterni al Pd e magari trovarmi Pietro Grasso candidato alle prossime elezioni in qualche lista di partito, candidatura preparata dall’alto scranno di Palazzo Madama ottenuto cinque anni prima grazie all’iniziativa essenziale di un altro partito. In parole povere, senza voler mancare di rispetto, non vorrei che Grasso si fosse ingrassato con i voti del Pd per poi mettersi a tavola con qualcun altro contrario al Pd.

Razzismo: se lo conosci, lo puoi sconfiggere

Bene ha fatto il quotidiano Avvenire a inserire nella stessa pagina del giornale tre fatti, che, pur nella loro diversità, la dicono lunga sul volto odierno del razzismo: lo sfregio ad Anna Frank da parte degli ultrà laziali; le minacce a monsignor Giacomo Martino, direttore di Migrantes a Genova; l’accanimento indagatorio della procura di Trapani verso l’ong “Save the Children”.

Non mi avventuro nel tentare una graduatoria della gravità di questi fatti: hanno portata, significato e conseguenze molto diversi, tuttavia li trovo collegabili a dimostrazione di un clima sostanzialmente razzista, che sta montando a dispetto di tutte le puntute ma stucchevoli condanne di rito.

I vaneggiamenti antisemitici dei tifosi altro non sono che la punta vomitevole dell’iceberg; le proteste anti-immigrati costituiscono la manifestazione esteriore della viscerale paura dello straniero esistente nel clima di intolleranza e di egoismo sociali; le insistenti ed esagerate inchieste sulle ong impegnate nel soccorso ai profughi forniscono la sponda giudiziaria al processo di criminalizzazione generale dell’immigrazione.

Tutti hanno le loro motivazioni da mettere in campo. I fanatici del pallone dicono di voler solo scherzare ed ironizzare sui tifosi avversari, sfogando goliardicamente la loro macabra vis polemica. Coloro che protestano molto vivacemente nelle piazze, a volte con metodi violenti, mettendo nel mirino persino la Caritas, temono che l’accoglienza agli immigrati possa compromettere l’assistenza agli italiani bisognosi. Una certa magistratura inquirente va alla scoperta dei legami tra soccorritori ed affaristi, ipotizzando che dietro le azioni umanitarie si possano celare, direttamente o indirettamente, veri e propri traffici di migranti.

Mi sembrano motivazioni piuttosto deboli e pretestuose. La cloaca calcistica può contenere questo ed altro, ma la goliardia non c’entra proprio niente con gli sfoghi razzisti: durante una partita di cartello un allenatore che va per la maggiore non ha protestato con l’arbitro per le solite questioni di regolarità del gioco, ma per i cori razzisti che si levavano impunemente da una curva. È tutto dire…

È dimostrato che gli immigrati non rubano il lavoro a nessuno, ma coprono spazi occupazionali lasciati liberi dalle scelte di comodo degli italiani; spesso vengono sfruttati, sottopagati, maltrattati dalle imprese che lucrano sulla loro pelle; complessivamente danno al nostro Paese (in tasse e contributi) più di quanto ricevono (in termini di assistenza e servizi vari). Le cifre non hanno nulla di clamorose e i sacrifici chiesti alle comunità locali paiono del tutto sostenibili. Tuttavia la paura fa novanta e si dice un no pregiudiziale.

È altrettanto dimostrato che gli immigrati non delinquono più degli italiani, ma le loro malefatte fanno notizia e creano scandalo e quindi meglio tenerli alla larga. Se poi addirittura c’è chi specula sul loro salvataggio in mare e sulla loro accoglienza…

Inchieste, intimidazioni, ricatti, molotov, attentati: c’è poco da dire, chi è impegnato a favore degli immigrati è sotto attacco.

Un residente di Multedo, quartiere periferico del capoluogo genovese, si è rivolto al sacerdote reo di avere portato dieci migranti nei locali di un ex-asilo della diocesi con queste parole: «Con lei ce l’ho a morte, ma dopo aver visto questi ragazzi in faccia, non verrò più ad urlare sotto l’asilo». Ciò a dimostrazione che il razzismo è irrazionale, mentre l’accoglienza è ragionevole.