L’umanità vince soprattutto quando si perde

I due personaggi simbolo della recente fase della nazionale di calcio, culminata nella eliminazione dai campionati del mondo che si giocheranno in Russia tra alcuni mesi, erano Gian Luigi Buffon e Gian Piero Ventura, rispettivamente capitano e commissario tecnico.

Non mi erano simpatici. Per il primo ero condizionato dal ricordo di alcune narcisistiche dichiarazioni di parecchi anni or sono, che mi sono bastate per ritenerlo un personaggio molto gasato in proprio e per conto terzi. Per il secondo vale quanto si sa da tempo ossia che l’Italia è un paese in cui tutti si sentono in pectore commissari della nazionale di calcio e quindi vedono il selezionatore come una sorta di usurpatore: probabilmente anch’io, almeno a livello di subconscio, sono caduto in questa trappola ed ho considerato Ventura un tecnico inadeguato all’incarico affidatogli.

In quest’ultimo periodo oltre tutto sono stati sovra-esposti a livello mediatico, come del resto tutta la vicenda dei preliminari, culminati nei play-off, per accedere al campionato mondiale. È arrivata l’eliminazione ed è naturalmente iniziata l’assurda lamentazione pallonara: si sono cominciate a spendere espressioni catastrofiche, un’apocalisse, un disastro, un dramma, etc. È fuori discussione che coloro i quali vivono di pallone sentano franare la terra sotto i piedi: il sistema calcio scricchiola e allora via con le analisi critiche e le proposte innovative. Un copione vuoto e scontato.

Non sono un appassionato di calcio (forse lo sono stato e i peccati di gioventù si pagano in vecchiaia…) in quanto di questo sport ammiro sì la bellezza, deturpata però da un professionismo speculativo, da una gestione affaristica e scorretta, dalle scommesse clandestine, dal fanatismo dei tifosi, dalla mensa mediatica. Un tempo tutto aveva una dimensione umana ben lontana dall’anonimo, industriale, artificioso, violento divismo calcistico di oggi.

Mi è comunque dispiaciuto che la nazionale di calcio abbia subito questa sconfitta, su cui peraltro non c’è niente da drammatizzare: non muore nessuno, il fenomeno del calcio continuerà imperterrito e pieno di paradossali contraddizioni.

Qualcuno si è affrettato ad affermare che dalle sconfitte può nascere un roseo futuro all’insegna del rinnovamento: discorsi che lasciano il tempo che trovano, fatti “utilitaristicamente” da chi non intende mollare l’osso.

Personalmente invece ho vissuto la sconfitta come una positiva umanizzazione dei personaggi e in tal senso ritorno ai due big che ho citato all’inizio. Buffon ha saputo piangere e non è poco. Ventura ha saputo chiedere scusa per gli scarsi risultati pur confermando di essersi impegnato con la massima serietà e convinzione: non è poco. Sono un perdente di vocazione, nelle sconfitte trovo una forte auto-gratificazione sul piano umano e quindi, come per miracolo, questi signori che mi stavano antipatici sono diventati miei amici. Evidentemente non erano quegli “stronzi” che immaginavo…Bisogna sempre andare adagio a giudicare la gente.

Quando ho sentito che Ventura è stato coperto di fischi e insulti dal pubblico di San Siro, mi sono ricordato di un certo Canforini, tecnico che dalle formazioni giovanili del Parma era approdato alla prima squadra. Le cose obiettivamente non andavano bene, la squadra era indiscutibilmente in crisi e, succedeva purtroppo anche allora, scattò la contestazione dei tifosi. Ognuno è ovviamente libero di esprimere le proprie critiche, più che mai in un ambiente come lo stadio, ma a tutto c’è un limite. Al termine dell’incontro, finito molto male per il Parma, l’allenatore Canforini fu accolto all’uscita degli spogliatoi da una pioggia di sputi. Mio padre lo imparò il giorno successivo dalle cronache del giornale, ne rimase seriamente turbato dal punto di vista umano e reagì, alla sua maniera, dicendomi: «“E vót che mi, parchè al Pärma l’ à pèrs, spuda adòs a un òmm, a l’alenadór? Mo lu ‘l fa al so mestér cme mi fagh al mèj. Sarìss cme dir che se mi a m’ ven mäl ‘na camra al padrón ‘d ca’ al me dovrìss spudär adòs! Al m’la farà rifär, al me tgnirà zò un po’ ‘d sòld, mo basta acsì».

Mio padre esercitava il mestiere di imbianchino e quegli sputi se li era sentiti addosso. Non poteva concepire un’offesa del genere, soprattutto in conseguenza di un fatto normalissimo anche se spiacevole: perdere una partita di calcio. Peccato che allo sfortunato Canforini non bastò ad evitare l’esonero ma fu sufficiente,   senza saperlo, ad avere la solidarietà di un uomo che lavorava e sbagliava né più né meno come lui. Il discorso vale anche nel caso di Ventura per il quale l’antipatia, in cuor mio, si è trasformata in solidarietà: tutto merito di papà.

Sociologia tra ovvietà e mistificazione

Come ho più volte confessato, nutro poca stima nei confronti di tre categorie di esperti, studiosi (no scienziati): psicologi, sociologi ed economisti. Spero di non offendere o irritare nessuno perché di paradossi si tratta. Gli psicologi hanno sempre ragione in quanto, per il dritto o per il rovescio, in un modo o nell’altro, in un senso o nel suo contrario, trovano sempre una spiegazione, piuttosto campata in aria, e nessuno è in grado di confutarla. I sociologi, come detto più autorevolmente da altri, si dedicano abilmente alla elaborazione sistematica dell’ovvio, fanno cioè una fotografia, più o meno nitida, della situazione. Gli economisti elaborano teorie che si rivelano sempre e sistematicamente sbagliate: in parole povere non ci pigliano mai.

Lasciamo perdere l’economia al cui studio mi sono dedicato ed al cui servizio ho lavorato: ciò non mi esime dal riconoscere i limiti di una disciplina assai precaria ed improbabile. Non voglio infierire sugli psicologi, comodamente assisi negli studi televisivi a spiegare come Gesù Cristo sia morto per il freddo nei piedi.   Punto dritto sui sociologi anche perché, nonostante la fragilità scientifica, sono sempre stato affascinato dallo stretto collegamento che questa disciplina dovrebbe avere con la realtà, evitando fughe culturali fra le nuvole del pensiero teorico: basti dire che sono andato ad una spanna dal frequentare la facoltà universitaria di sociologia a Trento, negli anni sessanta. Forse ne sarei uscito brigatista rosso: a volte basta poco per cambiare radicalmente la vita di un individuo.

Questa lunga e sconclusionata premessa mi porta ad una questione: mi sembra che la sociologia, nei confronti della realtà, stia abbandonando l’intento meramente descrittivo per approdare alla mistificazione. Se la realtà è ovvia, vediamo di renderla più interessante ed appetibile falsificandola, adulterandola,cambiandola, distorcendola.

In questi giorni ho ascoltato, con un certo stupore, un autorevole sociologo, Luca Ricolfi, dividere la realtà sociale italiana in tre fasce: i protetti (gli imboscati), i soggetti a rischio economico (quelli che si battono sul mercato), gli esclusi (gli sfigati). Ognuna di questa categorie avrebbe peraltro il suo protettore politico di riferimento: per i protetti ci sarebbe la sinistra; chi si fa su le maniche si affiderebbe alla destra; chi è fuori gioco sbatterebbe la testa contro i grillini. Quanto a queste elaborazioni, probabilmente estratte dal suo ultimo libro, che mi guarderò bene dal leggere, non siamo nell’ordine di una paradossale semplificazione socio-politica, siamo alle prese con un inganno bello e buono (in buona fede, si intende).

Innanzitutto le tre categorie suddette, se mai esistessero, si intersecano e si scambiano continuamente: un lavoratore dipendente da un momento all’altro può perdere il posto di lavoro e ricade automaticamente nel campo degli esclusi; ad un pensionato di piccolo calibro basta poco per finire sul lastrico; un piccolo imprenditore confina spesso, al limite del suicidio, con i poveri diavoli; il povero diavolo vive di frequente alle spalle dei suoi familiari cosiddetti protetti e sindacalizzati. Potremmo continuare a far saltare i birilli di un giochino innocuo.

Che poi le categorie politiche combacino con questi bacini elettorali fa sinceramente sorridere: ci sono professionisti affermati che votano Beppe Grillo per puro sfizio, esistono dipendenti pubblici che corporativamente si rivolgono alle destre populiste, ci sono poveri diavoli che continuano imperterriti a votare a sinistra. Potremmo continuare a buttare all’aria queste equazioni dove le incognite sono troppe e mutevoli.

La morale della favola sulla sociologia, che vuole insegnare ai politici il da farsi, lascio che la tiri mio padre: «I pàron coi che all’ostaria con un pcon ad gess in sima la tavla i metton a post tutt; po set ve a vedor a ca’ sova i n’en gnan bon ed far un o con un bicer…».

 

Spada di Damocle sulla gente senza speranza

Un tempo i comunisti, quasi con fastidio, lo chiamavano sottoproletariato, oggi le chiamiamo periferie degli esclusi, ma il concetto è sempre lo stesso: gente emarginata da tutti i punti di vista, che non riesce purtroppo a individuare una qualsiasi forma positiva di riscatto e quindi si affida a ricette di stampo neofascista e di carattere mafioso. Si illudono di trovare nella sgangherata nostalgia di un passato nefasto una risposta forte e violenta alla loro miseria e di ottenere dal (dis)ordine mafioso un minimo di protezione per sopravvivere.

La combinazione tra estremismo fascista e mafia non sorprende anche se preoccupa soprattutto per l’ampio consenso che la criminale miscela ottiene dalla gente senza speranza: bisogna proprio essere disperati per buttarsi su Casa Pound, ma certe persone lo sono e si buttano.

Questi fenomeni di devianza socio-politica si combattono con l’azione delle istituzioni e con il recupero della politica. Bisogna cioè dare a tali soggetti, che si crogiolano nell’emarginazione, un segnale di attenzione positiva. La criminalizzazione deve essere fatta su chi strumentalizza queste fasce di popolazione e non su chi viene strumentalizzato.

Anche la descrizione del fenomeno non deve assolutamente assumere il tono della pedante squalifica, perché, così facendo, si ottiene l’effetto contrario, vittimizzando coloro che mestano nel torbido e molestando chi si sente fuori dai giochi. L’attuale vizio della stampa e dei media consiste proprio nella petulante azione di denuncia fine a se stessa, talmente sbrigativa da innervosire tutti e da creare un clima di rissa totale.

La violenta reazione del mafio-fascista di Ostia nei confronti di operatori mediatici si inquadra in questo brutto contesto. Dico la verità: anziché scandalizzarmi, piangere sul naso rotto, strapparmi le vesti, di fronte alla testata inferta al giornalista Rai ho riflettuto. La cosa è gravissima sul piano politico, suscita pessimi ricordi, dimostra a quale punto di insulsa violenza siamo arrivati nell’imbarbarimento dei rapporti sociali.   Ma la gente del quartiere stava e sta dalla parte di Roberto Spada e della sua testa di legno (o di…): è questo che deve far pensare e non bastano le solite tiritere quale risposta seria ad una situazione drammatica.

Ricordo quando da presidente del consiglio di quartiere andai a incontrare gli abitanti del cosiddetto “palazzone del Negus”: un ghetto vero e proprio. Non mi accolsero con rose e fiori, mi coprirono con i loro coloriti racconti di vita grama, ci volle solo il paziente e coraggioso carisma di Mario Tommasini a calmarli, a farli ragionare, a “politicizzarli” in senso positivo. Una giovane donna, esasperata dall’andazzo della vita in quel lugubre palazzone, non si stancava di ripetere che dalle finestre piovevano boccali di escrementi umani: a suo modo rendeva perfettamente l’idea.

La strada è questa, tutta in salita. Anche allora la sinistra faceva fatica ad entrare in quei ghetti, molto più difficili da affrontare rispetto alle fabbriche. Mario Tommasini riusciva a fare il capolavoro. Da lui ho imparato molto. Io, modestamente, rappresentavo una Istituzione: il quartiere che voleva dialogare con questa gente emarginata. Tommasini impersonificava la politica, che, fuori dagli schemi, tentava qualche risposta ai loro problemi. Virginia Raggi, se vuole tradurre il grillismo in una lingua concreta e positiva, non deve protestare (contro se stessa?), ma deve dialogare e fare qualcosa in quel di Roma. Ciò vale anche per gli altri. Per tutti. Il neofascismo e la mafia si combattono così.

 

Se c’ero, dormivo

A volte, per segnare marcatamente il distacco con cui seguiva i programmi TV, mio padre si alzava di soppiatto dalla poltrona e, quatto, quatto, se ne andava. Mia madre allora gli chiedeva: “Vät a lét?”. Lui con aria assonnata rispondeva quasi polemicamente: “No vagh a lét”. Era un modo per ricordare la gustosa chiacchierata tra i due sordi. Uno dice appunto all’altro: “Vät a lét?” ; l’altro risponde: ” No vagh a lét”. E l’altro ribatte: “Ah, a m’ cardäva ch’a t’andiss a lét”.

La gag dei sordi si attaglia abbastanza bene al dialogo-confronto-scontro fra Consob e Bankitalia in materia di crisi delle banche: in Commissione d’inchiesta Parlamentare sono volate accuse reciproche di inadempienza a livello di vigilanza e controllo sulle banche venete (Veneto Banca e Popolare Vicenza).

Non entro nel merito della questione, mi limito a prendere atto dell’atteggiamento delle due Autorità. Secondo Consob, Banca d’Italia non segnalò adeguatamente i “problemi” esistenti; secondo Banca d’Italia le informazioni e gli elementi forniti alla Commissione che vigila sui mercati e la Borsa erano più che sufficienti a far scattare un allarme. Le testimonianze rese dai rappresentanti dei due Istituti consacrano un palleggiamento di responsabilità, che non fa onore al sistema e che irrita oltremodo coloro i quali hanno avuto danni notevoli dagli anomali comportamenti delle banche in questione.

Ricordo come al tribunale di Parma ci fosse un magistrato che respingeva sistematicamente le richieste di confronti diretti fra imputati e/o testimoni: non serve a niente, sosteneva, perché ognuno rimane sulle sue posizioni e chi deve giudicare è ancor più in difficoltà. In Commissione Parlamentare è saltato il confronto, le due parti si sono scambiate accuse a livello di testimonianza sulla crisi delle due banche venete. Chi doveva controllare? Perché non ha funzionato lo scambio di informazioni? C’è qualcosa che non va nel sistema di controllo oppure ci sono state manchevolezze, incomprensioni, errori ed omissioni?

Il discorso si sposta su livelli di alta acrobazia istituzionale e burocratica: la Commissione non ci salterà fuori e probabilmente non riuscirà a determinare colpe e responsabilità. Angelo Apponi di Consob dice: «Non ci indicarono problemi». Carmelo Barbagallo di Bankitalia risponde: «Erano dati sufficienti per allarme». Non sono questioni semplici e facili, ma impantanare i discorsi in questo modo lascia molto perplessi.

Questi due importantissimi istituti evidentemente non dialogano fra di loro, si limitano a scambiarsi fredde comunicazioni ufficiali senza preoccuparsi dell’interlocutore. Nella trasmissione radiofonica di “Tutto il calcio minuto per minuto” i cronisti, quando si scambiano la linea dopo essersi interrotti per eventi importanti, si rifugiano in un comodo “linea al collega che stava parlando”. Della serie “va’ avanti ti ca’m scapa da riddor”.

Siamo solo agli inizi dei lavori della Commissione Parlamentare d’inchiesta. Alla fine succederà come quando non si riesce a trovare l’arma del delitto di un omicidio. Mio padre diceva: «As veda che quälcdón a ga pregä un colp…». Nel caso delle banche: «As veda che quälcdón al ga fat un pislén…».

E poi chi ha osato mettere in discussione l’operato di Bankitalia si è sentito rinfacciare di non avere il senso delle istituzioni e della loro autonomia. Qualcuno, a pochi giorni dalla conferma del governatore Visco, chiede già le sue dimissioni di fronte al quadro desolante che emerge. Forse era meglio pensarci prima, altrimenti cadiamo in un pericoloso gioco al massacro. A scuola, ai vecchi tempi, quando non usciva il colpevole di una marachella, si veniva tutti colpiti dal provvedimento disciplinare del caso. Qui succederà l’esatto contrario. Non sono un giustizialista, ma neanche un allocco…

La sincerità educativa

Le disinibite parole riservate da un sacerdote bolognese ad una ragazza, che ha denunciato di esser stata vittima di stupro, fanno un certo scalpore, vengono strumentalmente considerate come lo sfogo bigotto di chi vuole colpevolizzare le donne a tutti i costi e vissute con un certo imbarazzo dagli ambienti cattolici e non.

Il prete in questione, al di là dei toni piuttosto brutali (anche le espressioni usate hanno un loro peso…), a parte una inaccettabile “puntatina” razzista, ha fatto un ragionamento molto semplice nella sua provocatorietà: attenzione, perché anche la più accorta delle farfalle, volando vicino al fuoco, rischia di bruciarsi le ali. Vecchia saggezza popolare, che non fa una grinza. Se una ragazza frequenta certi ambienti, si accompagna a certi soggetti, cade nella tentazione dello sballo, si ubriaca e sniffa, corre grossi pericoli. Non si tratta di indossare o meno una minigonna, di relegare le donne in casa a fare la calza, ma solo di invitarle ad   adottare qualche utile e sana precauzione di carattere umano e non moralistico.

Probabilmente il sacerdote in questione ha avuto il coraggio di dire apertamente quel che in molti pensano e tacciono per non passare da retrogradi. Poteva esprimersi in termini più delicati, poteva dialogare invece di sparare a raffica, ma la sostanza rimane la stessa. Credo non avesse alcuna intenzione di assolvere, scusare o dare attenuanti agli squallidi e criminali stupratori, voleva mettere in guardia dai pericoli che si corrono andandosi a ficcare in certe situazioni, trasgressive al punto da diventare propedeutiche al fattaccio.

Fin dove l’educatore deve cercare di vietare seccamente certi comportamenti e fin dove invece può puntare sul senso di responsabilità da costruire in capo alla giovane donna? Il sacerdote di Bologna ha inteso trovare l’equilibrio con un’uscita per la verità poco equilibrata, ma puntata, in buona fede, a scuotere i soggetti a rischio anche tramite la denuncia di certi atteggiamenti e comportamenti o quanto meno a rendere, fuori dai denti, l’idea dei rischi che si corrono agendo in un certo modo. Un tempo si diceva “uomo avvisato mezzo salvato”. A maggior ragione può valere per le ragazze che si buttano nel marasma sociale giovanile.

È chiaro che se un giovane rincasa alle sei del mattino, dopo aver ballato e bevuto tutta la notte, rischia l’incidente stradale. Farglielo, magari brutalmente, presente, non penso sia sbagliato. Forse è venuto il momento di dire certe verità scomode da parte dei genitori, degli educatori, degli operatori sociali, andando a toccare nel vivo dell’intero sistema permissivo che abbiamo costruito. Chi sfodera questo coraggio rischia di essere compatito o squalificato come retrogrado. Non mi sembra un buon motivo per tacere.

Amici, parenti e conoscenti mi fanno spesso notare il pericolo che si può correre adottando schemi piuttosto repressivi: l’isolamento del figlio o della figlia rispetto all’andazzo corrente, il contrasto con la mentalità permissiva prevalente. Ammetto che il mestiere di educatore sia il più difficile del mondo, ciò non toglie che ci si debba impegnare con rigore, entusiasmo e disponibilità.

Il dialogo coi giovani mi pare invece un buonista scambio fra sordi e muti, poi quando succede il disastro si scarica la colpa sulla società, che indubbiamente di colpe ne ha tante, ma che è fatta anche di adulti che declinano le loro responsabilità verso i giovani.

 

Del senno di Prodi son piene le fosse

Ho partecipato, per la verità solo parzialmente, ad un convegno organizzato dal Circolo culturale “Il borgo”, dal tema piuttosto improbo, “Quale Europa”, dalla location accademicamente austera, l’aula magna dell’Università di Parma, dal relatore di livello, Romano Prodi, imbeccato da fior di docenti universitari tra i quali spiccava il neo-rettore magnifico dell’ateneo parmense. Pubblico folto e attento, massiccia partecipazione studentesca, con tanto di ovvia presenza mediatica.

Le premesse c’erano tutte, gli ingredienti pure, se non che il cuoco ha lasciato alquanto a desiderare. Romano Prodi ci ha ormai abituati a queste scorribande, affrontate con un taglio polivalente: troppo generico e superficiale per essere in stile scientifico, troppo dimesso e improvvisato per essere di tipo accademico, troppo immediato per avere uno spessore storico, troppo confuso per avere una valenza politica.

Se uno fosse entrato timidamente nella grande sala che mette soggezione (più adatta alla contemplazione che all’ascolto) con lo scopo di trovare qualche spunto di prospettica riflessione, ne sarebbe uscito stordito da un bagno di pragmatismo europeistico da far paura: una quasi cinica descrizione dello stallo europeistico ed internazionale, una scontata analisi delle lacune italiane, una lettura “anagrafica” del fenomeno migratorio, una stucchevole fotografia dei rapporti fra gli stati europei, una precipitosa ed incauta apertura di credito verso la Cina, un discutibile sdoganamento della Russia, una sottovalutazione del ruolo americano, una paralizzante visione istituzionale e progettuale dell’Unione Europea.

Basti dire che gli unici spiragli timidamente emergenti erano costituiti dalla prospettiva di un esercito comune, dal “macronismo” ancora tutto da scoprire e dal rassicurante ruolo della Bce guidata da Mario Draghi. Per il resto buio fitto: ragionata rassegnazione e conseguente pessimismo sparso a piene mani.

Gli autorevoli interlocutori si sono opportunamente sforzati di individuare alcune piste innovative per il futuro della Ue (si capiva che avrebbero avuto più argomenti e più frecce al loro arco di quante non ne avesse Prodi): un approccio più solidale al discorso migratorio, un rilancio di alcune novità istituzionale, l’adozioni di nuovi strumenti di carattere economico-finanziario. Su queste sollecitazioni sono scese autentiche docce gelate, mitigate soltanto da qualche minuscolo e colorito aneddoto relativo ai protagonisti del processo di integrazione europea.

Se questa è la corroborante iniezione di fiducia proveniente da un personaggio di primissimo piano nella recente storia europea e di rilievo nello spazio politico della sinistra, non c’è da stare allegri: nessuna capacità di “sognare”, di buttare il cuore oltre l’ostacolo, di credere in un futuro fatto di ideali oltre che di bilanci economici, di scambi commerciali e di equilibrismi politici.

In questi giorni si fa un gran parlare della necessità per la sinistra italiana di ritrovare un approccio largo e coinvolgente verso il suo popolo. Le difficoltà in tal senso vengono fatte risalire alle divisioni, ai personalismi, ai contrasti di vertice a cui farebbe riscontro lo smarrimento di una base a cui vengono a mancare i riferimenti ideali e le soluzioni concrete. Non credo che lo scarto ideale possa essere frettolosamente e tatticamente sanato da un rassemblement tra Renzi, Bersani e D’Alema sotto l’alto patrocino del presidente del Senato e con la regia di Giuliano Pisapia. Non penso che le carenze programmatiche possano essere colmate da un ritorno all’ortodossia di una sinistra di lotta e di piazza.

Ascoltando Romano Prodi mi è venuto spontaneo far risalire la crisi della sinistra italiana più al passato che al presente: le tante, troppe, occasioni sprecate a livello governativo ed a livello europeo, di cui Prodi non è l’unico, ma certamente nemmeno l’ultimo dei protagonisti. Un passato da cui peraltro è molto difficile prendere la rincorsa: le scialbe dissertazioni prodiane stanno a dimostrarlo. Se i padri nobili della sinistra sono come lui e i traghettatori odierni sono come Pietro Grasso, ho la netta impressione che il fantomatico popolo della sinistra diventerà sempre più fantomatico e sempre meno consistente. Che non valga la pena, come si suol dire, stare nei primi danni renziani.

 

Mettete dei fiori nei cannoni delle suocere

Si diceva che un mio illustre collega piuttosto combattivo, quando doveva affrontare riunioni tese e calde, facesse preventivamente il pieno di vis polemica andando a far visita alla suocera, la quale non mancava di fornirgli l’occasione per un efficace pre-riscaldamento: in poche parole si recava a casa della suocera, sapendo che non sarebbe mancata la tensione sufficiente a prepararsi al clima della immediatamente successiva riunione di lavoro.

Le suocere, categoria tanto bistrattata e vilipesa, oltre che a custodire e financo a mantenere i nipoti, servono ad allenare le nuore e i generi in vista delle loro performance professionali più impegnative sul piano dialettico. Teniamone conto.

Fin qui, tra il serio e il faceto, ci si può arrivare, ma che i litigi con la suocera potessero essere propedeutici alle stragi, come sembra sia successo per il killer del Texas, non l’avrei mai e poi mai pensato. Ventisei persone massacrate in una chiesa battista ad opera di un pazzo, che si sarebbe così vendicato delle contumelie della suocera, che frequentava la chiesa teatro della orrenda strage.

Quando ho letto questa notizia non volevo crederci, poi ho minimamente approfondito la questione, che sembra avere un fondamento di verità. Quindi tutta colpa della suocera scontrosa e bizzosa, se questo signore si è impossessato di armi letali e le ha scaricate contro i partecipanti ad un rito religioso.

Non c’entra quindi la facile disponibilità di armi, perché questo strano soggetto non aveva il permesso per detenerle, non c’entra l’odio religioso che dilaga nel mondo, non c’entra il terrorismo di qualsiasi natura, tutta colpa della suocera che ha fatto esplodere la furia omicida del genero pazzo da legare: siamo cioè al più classico e banale dei problemi familiari.

Faccio fatica a crederlo. Non sarà per caso una delle tante fake news, volta ad assolvere un assurdo sistema di commercializzazione delle armi e a coprire una sempre più deflagrante tensione sociale? Questa suocera, tutto sommato, fa tirare un respiro di sollievo a tutti: Trump può tranquillizzare la lobby delle armi, gli americani possono esorcizzare il terrorismo di matrice islamica, i credenti delle varie religioni possono professare la loro fede senza eccessivo timore, gli Stati Uniti sono e resteranno una potenza che non scherza con i dittatori sparsi nel mondo, che sa difendersi dalle minacce interne ed internazionali.

Ognuno però ha il suo punto debole: forse gli Usa hanno nelle suocere la loro spina nel fianco. Sono sicuro che Trump saprà far fronte a questa emergenza: basterà un decreto che neutralizzi le bizze delle suocere, obbligando i generi e le nuore ad omaggiarle con i fiori. Così alle tante lobby che condizionano la vita politica americana si aggiungerà quella dei fiori. Sempre meglio di quelle del petrolio e delle armi.

I paradisiaci gabinetti del capitalismo

Centinaia di autorevoli testate giornalistiche si sono riunite in un’associazione temporanea d’imprese mediatiche per sputtanare i poteri forti del sistema capitalistico, invischiati in manovre di evasione fiscale nei cosiddetti paradisi: emergono nomi altisonanti delle istituzioni, della politica, della finanza, dello spettacolo.

“Fate come dico e non come faccio” si diceva un tempo per ridicolizzare la categoria sacerdotale colpevole di gravi incoerenze. “Pagate le tasse, noi troviamo la maniera di non pagarle”, così si potrebbe sintetizzare il messaggio proveniente dalla frequentazione dei paradisi fiscali.

Sono stanco di scandali: è inutile che mi si ripeta continuamente che viviamo in una “società di merda”, lo so da tempo e ne soffro. Tuttavia, siccome anche la denuncia è “sporca di merda” perché non viene dalle schiere angeliche dell’anticapitalismo, mi sento assediato dalla merda ed è inutile e pericoloso mescolarla, “sbadilarla”, buttarla in faccia a tutti col gusto di imbrattare il sistema, per poi dover ammettere che non ne esiste uno migliore.

Cosa voglio dire? Se la regina Elisabetta porta i suoi soldi in un paradiso fiscale, non mi fa certo piacere, ma non mi stupisce più di tanto. Forse lei non lo sa nemmeno… Il problema sta nel fatto che esistono i paradisi fiscali: forse gli inglesi dovrebbero indire un referendum per uscirne (loro che vogliono fare tutto in casa).

Una nota barzelletta racconta di un soggetto che sbaglia buco: anziché nel cesso, caga nel condizionatore. La scena si sposta e un’altra persona cui arrivano gli schizzi di merda, cerca di ripulirsi alla meglio, chiedendosi: «Mi am piasris saver chi a caghé in-t-al ventilatòr!!!».

La situazione è questa: serve sapere chi porta i quattrini in campo neutro, chi fa affari col nemico, chi ricicla il denaro sporco? Sì e no. Non illudiamoci di risolvere i problemi parlando di ingiustizie. Siamo in grado di cambiare il sistema che consente tutto ciò? Ho seri dubbi al riguardo. Lo scandalismo può essere pertanto fine a se stesso e può creare una sorta di panico da ingiustizia, che sprona tutti a fare altrettanto in una spirale perversa e inarrestabile. Il mondo pensa di salvarsi buttando addosso agli altri le schifezze comuni. Donald Trump ce lo sta insegnando in modo impeccabile e disastroso. Mors tua, vita mea. Meglio correggere il tiro: merda tua, merda di tutti. Ci vorrebbero più gabinetti, ma soprattutto l’onestà intellettuale di usarli.

Si dice che il frutto più velenosamente aggiornato del sistema capitalistico sia la finanziarizzazione dell’economia. Non vale da dove arrivano i soldi, ma valgono i soldi per loro stessi e un modo per farli è senz’altro non pagare le tasse. L’uomo è fuggito dal paradiso terrestre per rifugiarsi nei paradisi fiscali. È la religione del capitalismo che ha i secoli contati. Chiedo scusa delle trivialità.

 

 

 

Il buio siciliano

Tutti sono soliti commentare i risultati elettorali a babbo morto, sciorinando affrettate proiezioni e conclusioni. Provo ad andare contro-corrente e a dire la mia a prescindere dai dati, che tutti aspettavano come un redde rationem dell’attuale politica italiana. Il commentino quindi non è assolutamente una riflessione sui dati emergenti dalle urne: ce ne saranno in giro anche troppe… Provo a rifiutare il senno di poi, optando per quello di prima.

Chi ha vinto dice che si trattava di un test di validità nazionale capace di fotografare una tendenza in atto; chi ha perso ridimensiona il risultato nella cornice regionale e nella specificità del quadro siciliano. Gli uni considerano le lezioni siciliane come l’antipasto di quelle politiche ormai prossime; gli altri fanno una netta distinzione tra voto amministrativo e politico, fra Sicilia e Italia tutta.

Due dati emergono comunque dalla campagna elettorale: innanzitutto dei problemi siciliani non è fregato niente a nessuno e gli isolani l’hanno capito astenendosi in massa (ha votato solo circa il 47% degli aventi diritto). Forse sarò stato distratto, ma non ho captato alcuna analisi seria dei gravissimi problemi dell’isola, nemmeno una valutazione obiettiva dell’uscente governo regionale, solo scaramucce polemiche fra candidati vecchi e nuovi, solo accuse reciproche di impresentabilità etica, di continuismo politico e, peggio ancora, di contiguità col fenomeno mafioso. I (pochi) Siciliani hanno esercitato il loro diritto al buio, scegliendo fra Renzi e i suoi detrattori, tra un centro-destra redivivo e un centro-sinistra diviso, tra Grillo e il resto del mondo.

La seconda riflessione riguarda la pochezza culturale e politica delle candidature: scarsa rappresentatività, carente preparazione e laddove esisteva una certa consistenza civica e professionale si respirava comunque una deleteria aria di improvvisazione, che ha caratterizzato questa consultazione, peraltro istituzionalmente importante anche per il fatto che la Sicilia è una regione a statuto speciale.

La politica è stata schiacciata tra le vuote polemiche partitiche e l’inadeguatezza dei suoi protagonisti: questi difetti dovrebbero quanto meno alleggerirsi con l’avvicinamento alla realtà periferica, invece, paradossalmente, più ci si accosta ai problemi concreti dei cittadini e più la risposta politica si fa evanescente e pretestuosa.

Sono preparato ad una coda polemica infinita e inconcludente. Non ho idea come (non) abbiano vissuto questo appuntamento i Siciliani e come vivranno il dopo-elezioni. Speriamo che la politica cattiva non scacci ulteriormente quella buona.

I leader nazionali si sono fatti vedere, combattuti fra la voglia di (s)qualificare la consultazione e il timore di rimanere sotto le macerie. La preoccupazione principale è che, sputtana le elezioni oggi, sputtanale domani, la democrazia si riduca sempre più ai minimi termini. Ricordo con quanto entusiasmo vennero vissute le prime elezioni regionali del 1970: è passato molto tempo, le regioni hanno istituzionalmente deluso al di là delle sparate autonomiste, i partiti si sono allontanati dalla gente, la politica vivacchia. Come detto la Sicilia è una regione a statuto speciale, ma di speciale ha ben poco da offrire: in questa occasione ha messo a disposizione il suo territorio per un duello di altro genere. Una sorta di pre-elezioni politiche, combattute in campo neutro, con tanto di padrini, di armi varie, di colpi bassi: qualcuno ha addirittura minacciato roghi per gli avversari. Può darsi che tutto passi alla storia come la Cavalleria Rusticana di Beppe Grillo, dove non si capisce chi fa la parte di compar Alfio e di Turiddu, mentre Santuzza (l’Italia) piange disperata.

 

 

Molestie sessuali: perverse regole del sistema

Di fronte al dilagante scandalo delle molestie sulle donne, che sembra non risparmiare alcun ambiente, alcuna zona geografica ed alcuna forza politica, è necessario porsi domande molto serie, tali da mettere in discussione le basi culturali del nostro vivere civile.

Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Austria sono invasi da denunce di donne, che sostengono di essere state violentate, stuprate e, nella migliore delle ipotesi, molestate da uomini di potere. Sì, perché il comune denominatore di queste vicende starebbe nel fatto che i protagonisti attivi sarebbero persone che hanno approfittato della loro posizione dominante per ottenere, con violenza o con ricatto, i favori di donne, a loro più o meno vicine, in cambio, probabilmente, della promessa, diretta o indiretta, di altri favori: un perverso e sommerso “do ut des” che sta venendo a galla.

Tutto ciò francamente non mi sorprende: il marciume della nostra società si basa molto sul sesso e ruota intorno ad esso. Non è un caso se le prostitute di professione hanno da sempre sostenute che il mercato sessuale va ben oltre le loro “canoniche” prestazioni per coinvolgere ambienti altolocati e “perbene”; è ridicolo prendersela con i modesti utilizzatori finali della prostituzione stradaiola, quando fior di personaggi dell’alta società, sotto copertura, attingono ad un mercato ben più vasto e delinquenziale da loro stessi impostato su “perfide e subdole marchette” ricattatorie; è limitativo circoscrivere lo sfruttamento della prostituzione ai “classici magnaccia”, peraltro protagonisti anche della tratta delle immigrate, per chiudere gli occhi sui “magnaccia di alto bordo”, che sfruttano segretarie, giornaliste, attricette e via discorrendo.

È però vero che anche sul fronte femminile c’è qualcosa che non va. Faccio una certa fatica a classificare certi comportamenti. Se la libera scelta di prostituirsi alla luce del sole è a mio giudizio rispettabile, se la costrizione violenta a prostituirsi delle ragazze immigrate risulta evidente e rappresenta un fenomeno di vera e propria schiavizzazione, nelle molestie del bel mondo faccio molta fatica a capire fin dove le donne subiscono ricatti e violenze e magari tacciono per vari motivi e dove invece si prestano, seppure da posizione scomoda e subalterna, ad alimentare un sistema che le coinvolge e le intontisce. Le clamorosamente tardive denunce non mi convincono: c’è senz’altro la storica difficoltà ad esporsi, c’è sicuramente il timore di pagare un secondo prezzo ancor più salato del primo, c’è il condizionamento di una situazione ambientale troppo forte per essere attaccata. Tuttavia il discorso è simile a quello mafioso: se nessuno ha il coraggio di reagire nei modi e tempi giusti, il dopo rischia di diventare una pura rivalsa, che non risolve il problema né a livello personale né a livello sociale. Viene sollevato un gran polverone (pur sempre meglio del tenere tutto sotto traccia) dove non si capisce niente e il mondo continua ad andare per la sua strada storta.

Credo che la forza di cambiamento di cui è portatrice il mondo femminile possa riguardare anche questo fenomeno: se va combattuta da parte delle donne l’emarginazione derivante dal sottosviluppo e dalle religioni, se va combattuto lo schiavismo che si annida nei gangli dell’immigrazione clandestina, se va perseguito il discorso della parità fra i sessi ancora di là da venire, bisogna mettere in conto anche la guerra contro la subordinazione sessuale della donna   all’interno del sistema di potere delineato sostanzialmente ad uso e consumo maschile.

Quando affermo che la donna nella nostra società ha ottenuto più parità di difetti che di diritti, intendo dire che deve liberarsi dalle trappole che la imprigionano, senza che se ne renda conto fino in fondo e senza trovare la forza di reagire a livello personale e comunitario, deve cioè avere il coraggio di rifiutare un sistema che prevede, fra le sue “regole”, anche le molestie sessuali.