I mangiatori di telegiornali

“Chi vespa mangia le mele, chi non vespa…”: era lo spot pubblicitario, dal vago (?) sapore erotico, messo in pista dalla Piaggio per promuovere l’ultima generazione del suo storico prodotto.

Vespa, oltre che essere il nome di un gran bel mezzo di trasporto è il nome di un noto giornalista, il Bruno nazionale. Nel periodo in cui dirigeva il principale telegiornale della televisione di stato, fecero scalpore alcune sue dichiarazioni pubbliche in cui affermava di considerare il partito della Democrazia Cristiana il suo “editore di riferimento”; venne di conseguenza accusato di non considerare l’informazione un servizio pubblico e di produrre un’informazione subordinata agli interessi della partitocrazia. Vespa disse in realtà che, essendo il Parlamento l’editore della Rai, un accordo fra i partiti aveva assegnato alla DC l’influenza sul primo canale, al PSI quella sul secondo e al PCI quella sul terzo, come fu riconosciuto poi da tutti.

Nonostante tutto considero la Rai erogatrice di un servizio pubblico e quindi a livello di informazione seguo testardamente i suoi telegiornali: una vera e propria inflattiva sarabanda, che sembra orientata a confondere e frastornare lo spettatore. Non c’è verso di mettervi ordine e razionalità: inutili e ripetitivi incarichi, assurdi sprechi, superficialità e impreparazione, presenze invadenti e invasive.

Da questo turbinio di giornalisti emerge un apparente assalto dietro cui si cela un sostanziale chiacchiericcio di comodo: se i giornalisti della Rai (e non solo…) un tempo erano scopertamente di parte, oggi stanno nascostamente e subdolamente dalla parte dello status quo nonostante le intemperanze di facciata. Nel momento in cui appaiono si sa già cosa (non) diranno e cosa chiederanno al politico di turno; si rifugeranno nella superficiale polemica, che in realtà non dà fastidio a nessuno.

Quando vigeva il regime della spartizione istituzionale, gli editori di riferimento almeno cercavano di coprire le loro caselle con giornalisti di notevole professionalità, i quali riuscivano paradossalmente a coniugare parzialità di giudizio e professionalità di metodo. Oggi scarseggiano le professionalità e restano le faziosità. Se devo essere sincero mi disturba più la mancanza di professionalità della faziosità, anche perché la prima direttamente o indirettamente dovrebbe calmierare la seconda, anche perché meglio combattere contro i capaci di tutto che contro i buoni a nulla. Quando la professionalità non fa più da filtro, emerge, anche se in modo coperto ma ancor più fastidioso, la parzialità (sarebbe forse opportuno chiamarla “polemica continua”).

Andava meglio quando andava peggio. Dall’informazione asservita alla politica siamo passati all’informazione scialba padrona della politica a cui tenta addirittura di dettare tempi e modi. In poche parole la Rai risponde a se stessa in una sorta di istituzione parallela di cui il salotto di Bruno Vespa è l’emblema, la terza Camera.

La par condicio esiste per la gestione degli spazi televisivi. Fra chi? Fra i garzoni di bottega che si dividono il video e non sanno nemmeno di cosa stanno parlando. Frotte di ragazzini o ragazzoni sguinzagliati in giro per il mondo o collocati a latere dei palazzi del potere per ripetere le solite menate o per lanciarsi in analisi sbrigative e gratuite. Nessun approfondimento critico, nessuna voglia di scavare, interviste all’acqua di rose, “gossiparizzazione” a tutto spiano : bla-bla o tifo.

Spegnere la televisione? A volte lo faccio! Ripiegare sistematicamente sulle televisioni private? Mi rifiuto di farlo! Mi rifugio nella nostalgia per le tribune politiche di un tempo, per i telegiornali di parte che tuttavia dicevano qualcosa, per un’informazione meno quantitativa e più qualitativa.

“Chi Vespa mangia la politica, chi non Vespa vomita la disinformazione”.

 

 

 

 

La “barizzazione” della politica

Quando si affronta un problema complesso e difficile si è spontaneamente ed irrazionalmente portati ad esaminarne gli aspetti più evidenti, ad occuparsi del particolare a scapito del generale, a rifugiarsi nel banale per evitare la fatica dell’approfondimento. Il discorso vale anche per la politica e per coloro che la spiegano.

Il problema di fondo della politica italiana è il disinteresse e la sfiducia dei cittadini riguardo ai partiti, che rappresentano o dovrebbero rappresentare, volenti o nolenti, il collegamento tra la realtà del Paese e le sue istituzioni. La questione infatti non sta tanto nella perdita di appeal dei partiti, ma nella conseguente debolezza delle istituzioni democratiche.

Cerco di essere concreto. Esistono tre evidenti questioni politiche sul tavolo: quella del tormentone nell’area di centro-sinistra insidiata dalle divisioni, quella del movimento cinque stelle lanciato spericolatamente e dilettantescamente nella contestazione globale e quella del centro-destra che non trova di meglio che avvinghiarsi al suo padre-padrone.

Sarebbe necessario approfondire le cause-effetto di queste anomalie, invece ci si rifugia sugli aspetti di facile presa mediatica, sui più beceri personalismi: il riciclo del fegatoso scetticismo di Tommaso D’Alema, la testarda risurrezione di Lazzaro Berlusconi,   il protagonismo di risulta di Barabba Grillo. Anziché tentare di capire e smascherare le manovre, ci si accontenta di coltivarne gli aspetti più futili e personali.

Per quanto riguarda il centro-sinistra si concede attenzione e credito ai pruriti identitari degli ex-comunisti correndo dietro alle minchiate di D’Alema e Bersani, lasciando in cantina il nodo della coniugazione tra salvaguardia del patrimonio ideale e sua adattabilità ai mutamenti della società.

Relativamente al centro-destra si prende la scorciatoia berlusconiana con le sue asperità divorziste e le sue magagne etico-giudiziarie, senza puntare al nodo del drammatico scontro tra conservazione e reazione, tra europeismo e nazionalismo, tra moderazione e populismo.

In campo pentastellare   si rincorrono gli squallidi personaggi di fila (Raggi, Di Battista, Di Maio etc) per evitare di affrontare il fallimento dell’operazione grillina, vale a dire la incapacità di interpretare lo scontento trasferendolo dalle pance alle urne, dalle piazze alle Camere, dal web ai palazzi del potere.

Un colossale e globale “striscia la notizia” avvolge la politica, satirizzandola, banalizzandola, svuotandola e marginalizzandola. Un tempo di politica si discuteva nelle sezioni di partito, oggi il dibattito si è trasferito nei bar, non quelli veri (il che sarebbe già qualcosa di serio), ma quelli immaginari e mediatici.

Continuiamo pure a interessarci delle due sentenze riguardanti Berlusconi: quella che sembra dargli ragione nei rapporti economici con la ex moglie Veronica Lario e quella europea, che non si sa se gli negherà definitivamente o meno l’ingresso nelle istituzioni. Lui comunque continuerà ad incarnare l’equivoco di una destra impresentabile.

Divertiamoci a intervistare i sinistrorsi di maniera ed a ospitarne i finti pruriti ideologici. Loro proseguiranno nel portare fuori strada la sinistra riducendola ad una conventicola di nostalgici.

Perdiamo il tempo dietro i grillini che giocano a fare politica. Loro giocano e forse si divertono anche, gli italiani rischiano invece di giocare in modo pessimo i residui jolly che hanno in mano.

Nel frattempo i votanti alle elezioni calano e si collocano a mera difesa del territorio, proprio come fanno i gatti e nella notte della democrazia tutti i gatti rischiano di essere bigi.

 

Il duello con le bacchette magiche

Le pensioni sono un tema che attira l’attenzione: di chi già le percepisce per il timore di vedersele messe in discussione o decurtate, di chi si avvicina all’età pensionabile per lamentarsi dello spostamento in avanti del relativo diritto, di chi è lontano dall’anzianità e teme di non raggiungere mai questo traguardo. Va quindi sul velluto chi cavalca l’argomento, come ad esempio la CGIL che vuole scendere in piazza per difendere tutti e rischia di finire col difendere (succede da parecchio tempo) solo i pensionati che la pensione ce l’hanno in tasca, Silvio Berlusconi che, in base al suo solito e irrinunciabile vezzo di promettere l’impossibile, preannuncia di alzare il trattamento minimo pensionistico a 1000 €, la sinistra, che più sinistra non si può, la quale strizza l’occhio alla CGIL e lascia intendere di essere in grado di invertire la tendenza rigorista, la destra, che più populista non si può, la quale continua a sparare contro la riforma Fornero, senza pensare che tale riforma si rese necessaria proprio a causa di una deriva politico-economica di cui era non l’unico, ma certamente un decisivo protagonista il sempre più sconclusionato e incredibile centro-destra.

Il governo Gentiloni ha timidamente e ragionevolmente provato a proporre una mitigazione dell’innalzamento dell’età pensionistica per alcune categorie di lavori usuranti e una prospettica e partecipata gestione del diritto alla pensione in base al rialzo delle aspettative di vita. La CGIL ha risposto con un no, annunciando una mobilitazione, facendo ricorso cioè, come si diceva un tempo, alla lotta di massa. Non so fino a qual punto questo importante sindacato riuscirà a portare in piazza pensionati e lavoratori, giovani ed anziani: fatto sta che questo rigido atteggiamento sembra dettato più da ragioni politiche (appoggio alle sinistre in rottura col PD) e dal recupero di consenso da parte dell’establishment sindacale (sempre più scollegato dalle istanze della gente che cerca un lavoro, che lavora e che ha finito di lavorare) che non da motivazioni di carattere socio-economico.

Il governo si è visto chiudere la porta in faccia: sinceramente credo non lo meritasse, così come non credo che il ricorso a scioperi e manifestazioni di piazza possa aumentare miracolosamente le risorse limitate con cui si devono fare i conti. Infatti ecco puntualmente arrivare l’avvertimento della Ue per la quale il persistere dell’alto debito pubblico, la bassa produttività, la disoccupazione giovanile preoccupano e rendono impraticabile una retromarcia sulla riforma delle pensioni nella manovra 2018, che deve essere attuata in modo rigido e senza sconti. Si dirà: il solito ritornello europeo! In parte è sicuramente vero, ma solo in parte, perché il debito lo abbiamo sul serio ed è riconducibile in gran parte al sistema pensionistico squilibrato.

Quindi da una parte Susanna Camuso, che fa la schizzinosa e dimentica che anche il sindacato in materia pensionistica ha non pochi scheletri nell’armadio, e dall’altra la Ue, che non perde occasione per fare la faccia dura: duellanti a distanza che brandiscono bacchette magiche.

Non invidio Gentiloni e Padoan. Non è il momento di indebolire il governo italiano sperando di sostituirlo a breve con chissà quale nuova compagine. Non è il momento di chinare pedissequamente il capo a Bruxelles. La situazione è difficile. Vogliamo provare tutti ad essere seri?

«I gh’ la fan» diceva mio padre fra sé, seduto davanti al video, ma in seconda fila, come era solito fare, per dare libero sfogo ai suoi commenti al vetriolo senza disturbare eccessivamente. Stavano trasmettendo notizie sulle battaglie sindacali a tappeto. Mi voltai incuriosito, anche perché, forse volutamente, la battuta, al primo sentire piuttosto ermetica, si prestava a contrastanti interpretazioni. «Co’ vot dir? A fär co’?» chiesi, deciso ad approfondire un discorso così provocatorio e intrigante. «A ruvinär l’Italia!» rispose papà in chiave liberatoria, sputando il rospo. Badate bene, mio padre era un antifascista convinto, di mentalità aperta e progressista, un tantino anarchico individualista: tuttavia amava ragionare con la propria testa e si accorgeva, fin dagli anni settanta, che la strategia sindacale stava esagerando in nome del “tutto e subito”.

 

Il gioiello milanese non interessa la Ue

Non sono un detrattore del processo di integrazione europea, anzi ne sono un estimatore, oserei dire un tifoso, quindi a maggior ragione considero la farsa del sorteggio per l’assegnazione della sede all’agenzia del farmaco (e di quella bancaria) una vera e propria dimostrazione di assoluta incapacità decisionale che dà fiato allo scetticismo europeo. Non è possibile: una confederazione di Stati che ambisce a diventare federazione scivola su simili bucce di banana.

Anche volendo prescindere dalla innegabile sostanza   della candidatura di Milano, pur se si fosse trattato, con tutto il rispetto, di Canicattì, la questione sarebbe stata comunque da censurare sul piano politico e istituzionale. Questo succede per volere a tutti i costi dare in pasto ai rappresentanti degli Stati-membro simili scelte, che dovrebbero spettare alla Commissione o al Parlamento europei.

Si è trattato di una vicenda penosa nel merito, ma soprattutto nel metodo. Se si pensa di far progredire l’idea di Europa unita con queste pagliacciate… Non è un fatto campanilistico, però per ingoiare il rospo della bocciatura di Milano occorrevano convincenti motivazioni alternative, mentre è prevalsa una logica meramente spartitoria culminata nella beffa di un sorteggio, consegnando il futuro europeo alla dea bendata. Roba da matti!

Se da un lato ne esce malissimo la Ue, dall’altro emerge un insegnamento anche per l’Italia e per Milano. Occorre più modestia e più pazienza per ottenere certi risultati. Noi pensiamo che Milano sia in pectore la capitale economica d’Europa e forse lo è nei fatti, ma come avviene in tribunale, per vincere una causa non basta avere ragione, ma occorre trovare un giudice che te la riconosca. Le ragioni di carattere economico, scientifico, organizzativo, deponevano tutte a favore di Milano, ma non è bastato.

Il leader della Lega, Salvini, dopo l’assegnazione della nuova sede dell’Ema ad Amsterdam, attraverso il sorteggio con Milano, non ha perso l’occasione per attaccare la Ue: «Pazzesco che una scelta che riguarda migliaia di posti di lavoro e due miliardi di indotto economico venga presa in Europa con il lancio di una monetina, ennesima dimostrazione della follia con cui è governata la Ue. Prioritario per il prossimo governo sarà ridiscutere i 17 miliardi l’anno che gli italiani versano a Bruxelles». Saro sincero fino in fondo: non riesco a dargli torto.

Come non vedere una prevalenza del Nord-Europa sull’Europa mediterranea incapace di fare massa critica, con la Francia a fare il pesce in barile. Tra le poche cose interessanti e acute ascoltate in una conferenza dibattito di Romano Prodi, già recentemente commentata, c’è sicuramente quella di ipotizzare quanto discredito ricadrebbe sull’Italia se uscisse dalle prossime elezioni con una pantomima simile a quella che sta offrendo la Germania: dopo mesi non riesce a formare un governo e si parla di ricorso a nuove elezioni politiche alla faccia della stabilità quale bene essenziale per una seria partecipazione alla Ue. Mentre alla Germania tutto è concesso, l’Italia deve sputare il sangue per rendersi credibile. Nemmeno esporre in vetrina il proprio gioiello milanese è stato sufficiente.

Se il nostro Paese accoglie i migranti, nessuno è disposto a dargli una mano; se tratta con i Paesi africani per regolamentare i traffici degli scafisti, non va bene; se deve fare i conti con devastanti terremoti, può sforare nei propri conti, ma fino ad un certo punto; se ha le banche in difficoltà non può sostenerle, mentre altri Stati in passato lo hanno fatto eccome; se chiede una politica di sviluppo, prima deve mettere in sicurezza il proprio bilancio; se propone passi avanti nell’integrazione, pensano che lo faccia solo per convenienza e così via. Due pesi e due misure: prima o poi bisognerà pur dire all’Ue di darci un taglio. Perché, come diceva il nostro presidente della Repubblica Sandro Pertini l’Italia non è prima, ma nemmeno seconda a nessuno. Non siamo i parenti poveri, men che meno quando ci presentiamo con un gioiello al collo. Milano e poi più, di Milano ce n’è uno solo: così recitano (la traduzione in italiano toglie immediatezza e incisività) certe meneghine espressioni vanagloriose: ce le hanno buttate in gola. Senza voler fare i Calimero di turno, possiamo dire: è un’ingiustizia però!

I zgagnabalón

Carlo Tavecchio si è dimesso. L’Italia del pallone è salva. L’Italia, quella vera e propria, è più rincoglionita di prima. Il calcio è sempre stato un ottimo anestetico per i mali della società: quando si vince si esulta e si dimenticano i problemi, quando si perde si gioca a trovare i capri espiatori per tutti i mali.

A proposito, per scoprire gli altaroni calcistici e per sgombrare il campo dalle acrobazie socio-pallonare, voglio fare tre discorsi diversi, ma collegati ed intrecciati.

Il primo riguarda la responsabilità per l’eliminazione della nazionale di calcio dai mondiali di Russia. Tutta colpa del c.t. Ventura? Tutta colpa del presidente della Figc Tavecchio? A giudicare dai commenti della stampa e dei media in genere sembrerebbe di sì. Ho sentito solo un autorevole giornalista sportivo, Mario Sconcerti, andare contro corrente per buttare, giustamente, la croce anche addosso ai giocatori, ai coccodrilloni superpagati, che da anni non ne imbroccano una a livello di nazionale: in fin dei conti in campo ci vanno loro e sono loro a giocare per ben due volte con i piedi. Ma guai a parlar male dei pedatori, sono belli, bravi e simpatici; è troppo rischioso e complicato metterli sul banco degli imputati, meglio puntare su facili e comodi bersagli.

Il secondo discorso riguarda il mondo del calcio. Tutti si sono improvvisamente accorti che il sistema è bacato anche se lo è da lungo tempo: società calcistiche malate e poco trasparenti, evasioni fiscali e contributive, scommesse clandestine, corruzione dilagante, affarismi vari, rapporti e comportamenti omertosi, bilanci truccati, strane combutte con gli ultras delle tifoserie, mercato dei giocatori controllato da squallidi personaggi, clamorosi fallimenti, situazioni debitorie insostenibili e via discorrendo. Per non parlare della tollerata violenza negli stadi. Se la nazionale si fosse qualificata, nessuno avrebbe aperto bocca. Dal momento che si è intravisto un traballamento, tutti a chiedere riforme, rinnovamento, pulizia, investimenti etc. E chi chiede di voltare pagina? Coloro che fino ad oggi hanno mangiato alla greppia calcistica e che vantano quindi una credibilità tendente a zero. Ventura è diventato un imbecille, Tavecchio è diventato un nano malefico. Comodo dare la spallata a chi è sull’orlo del baratro.

Il terzo discorso riguarda proprio l’autentico sciacallaggio mediatico operato nel post play off: tutti a gufare contro Tavecchio, a sfogliare la margherita sulle sue eventuali dimissioni, a processarlo calcisticamente e non solo, a ridicolizzarlo come personaggio. Il ministro dello sport, fino a ieri sputtanato a vanvera, è diventato un profeta nel momento in cui ha chiesto l’azzeramento della situazione federale. Il presidente del Coni Malagò passa come il salvatore della patria sportiva, perché si è schierato per il generico cambiamento. Un circo con un’autentica sfilata di pagliacci a cominciare dai giornalisti sportivi, una razza autoreferenziale di mangia pane a tradimento. Tutti coloro che non possono permettersi di sputare nel piatto dove mangiano, finiscono con lo sfogarsi sputando addosso ai cuochi.

Mia madre, nella sua acuta ingenuità, quando osservava tutto l’ambaradan del mondo calcistico, se ne usciva con una simpatica e provocatoria domanda: «Sa neg fiss miga al balón, cme vivrissla tutta cla génta lì?». Paradossalmente nella domanda di mia madre   sta la risposta ai discorsi di cui sopra.

 

Il bostik del centro-sinistra

Nell’area politica di centro-sinistra, dopo essersi esercitati nella storica arte del dividersi, si stanno convertendo a quella dell’unirsi o meglio dell’incollare i vari cocci risultanti dalle rotture irresponsabilmente provocate.

Pensano infatti che rimettendo insieme i vari pezzi possa risultare una creatura politica credibile e trascinante per l’elettorato: ho parecchi e seri dubbi che il problema della sinistra stia nel ricreare sic et simpliciter l’unità. Temo che al potenziale elettore interessi poco che ci siano o non ci siano Bersani, D’Alema, Pisapia, Grasso, Boldrini, Prodi, Letta, Civati, Speranza, Fratoianni, Scotto etc. La ricerca degli equilibri lascia del tutto indifferente il popolo della sinistra, forse addirittura lo infastidisce e lo irrita ulteriormente: la gente è interessata assai più ai problemi concreti che alla lucidatura delle identità storiche, vuole valutare proposte e programmi e non il pedigree dei vari personaggi recitanti sulla scena politica.

I nodi e le questioni fondamentali del centro-sinistra riguardano da una parte la coniugazione di legalità e solidarietà e dall’altra la combinazione fra socialità e modernità. In questa fase storica in cui dominano le paure, i cittadini, anche appartenenti ai ceti popolari, hanno l’ansia di difendersi dalla delinquenza e “dall’assalto” dei migranti: la scommessa della sinistra è quella di garantire un tasso accettabile di legalità pur tenendo aperto il discorso verso gli immigrati e gli emarginati in genere. Trattasi di una vera e propria sfida che va ben oltre i pruriti ideologici, i sociologismi datati e gli utopismi fragili.

Il discorso vale anche per rendere compatibili le spinte all’uguaglianza con quelle verso la modernità: l’uguaglianza non può essere ancorata alla pedissequa difesa dei diritti, ma deve essere proiettata in un contesto socio-economico in evoluzione, dove i diritti si difendono con lo sviluppo dell’economia, con l’europeizzazione delle soluzioni e con la mobilità sociale.

Checché se ne dica, la riforma del mercato del lavoro varata in questi anni non è un tradimento degli schemi di carattere pansindacale, ma è un tentativo di aprire le possibilità di lavoro per tutti con il coraggio della flessibilità e della gradualità. Se il ritrovamento dell’unità deve essere la cancellazione delle riforme portate avanti in questi anni, una sorta di “mortus”, non porterà da alcuna parte e creerà solo ulteriori e demagogici equivoci. Se si avrà in tutto o in parte la rivincita dell’impostazione politica tradizionale sui tentativi di svecchiamento, se, in poche parole, ritornerà in auge il sistema superato dell’egualitarismo sociale e del sinistrismo piazzaiolo, la convergenza di facciata farà pagare un prezzo alle possibilità future e inchioderà la sinistra ad un ruolo minoritario di testimonianza con lo sterile consenso dei “duri e puri”.

I padri più o meno nobili della sinistra stanno ritrovando un loro spazio, ma ciò non significa che recuperino consenso sul piano politico e garantiscano spazio di manovra in senso programmatico. È un passaggio molto delicato: mentre a destra è sufficiente trovare un simulacro di unità per recuperare l’elettorato, mentre ai grillini basta alzare i toni della loro presenza per incanalare la protesta, alla sinistra serve un progetto di governo credibile e moderno anche a costo di perdere certi gruppi e certi personaggi anacronistici.

Se si va alla spasmodica e tardiva ricerca dell’unità burocratica e schematica si finirà col riempire le piazze e soprattutto le liste, ma col vuotare le urne.

Il tiro delle vestaglie da Camera

È vero che per i presidenti delle due Camere non è costituzionalmente previsto un profilo apartitico, ma è opportuno che essi si buttino nell’agone politico assumendo ruoli importanti e puntando magari a future candidature nell’ambito di iniziative di partito?

La domanda mi sembra retorica anche se per i diretti interessati evidentemente non lo è. Pietro Grasso e Laura Boldrini si stanno lanciando in un’operazione politica, che da una parte sconvolge gli equilibri su cui erano stati eletti a inizio legislatura e dall’altra parte compromette le loro garanzie di equidistanza procedurale. Laura Boldrini, dopo la standing ovation ricevuta al convegno dei cercatori della nuova sinistra, può ancora assicurare alla Camera dei Deputati di essere super partes? Penso di no.

In Italia l’istituto meno frequentato è quello delle dimissioni. Ci stupiamo perché Gian Piero Ventura ha preferito farsi esonerare piuttosto che dimettersi spontaneamente: i maligni dicono che lo abbia fatto per ragioni di convenienza economia, legittime anche se non troppo eleganti. Non sopportiamo il fatto che Carlo Tavecchio, presidente della Federazione Italiana Gioco Calcio (Figc), rimanga in carica dopo la debacle azzurra: a detta dei più se ne dovrebbe andare per favorire il rinnovamento del sistema.

Le dimissioni non hanno quel potere taumaturgico che molti pensano, ma segnano un benefico distacco dalla “poltrona”, sottolineano la caratteristica di servizio per la carica ricoperta, contribuiscono a ripristinare e semplificare le situazioni: il discorso vale per tutti gli ambienti e per tutti i livelli, vale quindi a maggior ragione anche per le più alte cariche dello Stato.

Si criticano tanto i politici, ma le dimissioni non sono nemmeno nel Dna del mondo sportivo e non sono evidentemente nella mentalità di due personaggi istituzionali eletti alle loro cariche proprio in quanto espressione della società civile più che dei partiti.

Se devo essere sincero non mi ha stupito Ventura: oltre il non cedere giustamente all’insopportabile vezzo di colpevolizzare gli allenatori di calcio, questo signore ha un contratto di lavoro e quindi ha, seppur un po’ troppo sindacalmente, agito di conseguenza in base alla clausola che ne prevedeva il licenziamento.

Non mi ha stupito Tavecchio che presiede un sistema malato e che non ci sta a farne il capro espiatorio: il pianeta calcio italiano soffre di ben altre malattie rispetto all’eliminazione dai campionati mondiali. Se Belotti avesse mandato in porta quel pallone colpito di testa all’inizio della prima gare dei play off con la Svezia , probabilmente l’Italia andrebbe in Russia e nessuno si sognerebbe di chiedere l’azzeramento di una situazione comunque “marcia patocca”.

Mi stupiscono invece Grasso e Boldrini: si sono messi a giocare a fare i probabili (?) leader di partito e non capiscono che non possono più fare gli arbitri con la necessaria credibilità: un tempo si diceva “non si può portare la croce e cantare la messa”. Non so se i due personaggi in questione porteranno o stiano già portando la croce, sicuramente non sono in grado di cantar messa con la dovuta intonazione.

La situazione è delicata. Forse solo il Presidente della Repubblica potrebbe dipanarla con la sua moral suasion. Bersani e c., tanto scandalizzati per il voto parlamentare critico verso la Banca d’Italia ed il suo governatore, non si fanno scrupolo di invischiare nel loro gioco politico i presidenti delle due Camere. Bersani ha dichiarato di non voler tirare per la giacca Pietro Grasso: molto peggio, probabilmente gli sta sfilando i pantaloni. Per Laura Boldrini non adottiamo questa similitudine al fine di evitare gaffe di stampo grillesco.

Sergio Mattarella avrebbe il carisma e l’autorevolezza per rimettere a posto le cose. Non lo pretendo, lo auspico. Auguri!

 

 

Il Papa del buon senso

A mio giudizio papa Francesco non ha detto e scritto nulla di sconvolgente sulla problematica del cosiddetto “fine vita”. In estrema sintesi ha affermato che rispettare la vita non vuol dire spadroneggiarla o tiranneggiarla. In fin dei conti ha solo usato il buon senso, che nei documenti ufficiali vaticani viene chiamato “discernimento”: superare cioè le regole codificate per affrontare i singoli casi con la giusta attenzione e soprattutto col cuore aperto alle persone ed ai loro problemi.

Se questo cambiamento di prospettiva è considerato una rivoluzione vuol proprio dire che esisteva una cristallizzazione dogmatica tale da inchiodare la Chiesa ad un passato assai lontano. Il diniego dei funerali religiosi a Pier Giorgio Welby ne è una sintomatica dimostrazione.

Il volere a tutti i costi confondere il rifiuto dell’accanimento terapeutico con l’eutanasia, il volere confondere l’eutanasia o il suicidio assistito con il suicidio tout court, il volere scomunicare necessariamente chi decide di suicidarsi anziché sforzarsi di rispettarne e capirne le drammatiche motivazioni continua comunque a imperversare. Non so se basterà il buon senso del Papa, spero di sì.

Probabilmente sto forzando l’indirizzo teologico-pastorale di papa Francesco: se discernimento deve esserci, ci sia in ogni caso e, se questo discernimento non saprà o vorrà farlo la Chiesa con i suoi ministri, lo farà comunque il Padre Eterno, che la sa molto più lunga del papa, dei cardinali, dei vescovi, dei preti, dei frati, delle suore e di tutti i credenti.

Ho vissuto di riflesso un caso di suicidio avvenuto nell’ambito della mia famiglia allargata: una meravigliosa e generosa zia, che decise di farla finita sfiancata e terrorizzata da sofferenze indicibili. Ricordo, come potrei dimenticare, il dramma dei familiari nell’immaginare quello vissuto da questa donna coraggiosa: si trattava, a mio avviso, di accanimento terapeutico anche in quel caso. Forse, quando una persona arriva sull’orlo del suicido, in qualche modo c’è sempre un po’ di accanimento: terapeutico, umano, sociale, esistenziale.

Ho sempre rifiutato categoricamente il bigotto giudizio moralistico di chi afferma che ci voglia più coraggio a vivere che a togliersi la vita. Qualcuno arriva a considerare conseguentemente il suicidio come un atto di viltà verso se stesso e verso gli altri. Ma fatemi il piacere!

Finalmente la Chiesa ha trovato un papa che rifugge da queste assurde categorie di ragionamento e di comportamento: una boccata di aria fresca da respirare a pieni polmoni, senza illudersi che possa bastare a disinquinare la Chiesa da errori secolari. I ritardi storici esistono. Il cardinal Martini lo aveva “spregiudicatamente” ammesso. La religione cattolica non è una religione di libro, si basa sulla rivelazione operata dalla persona di Gesù Cristo, il quale non ha scritto nessuna regola, per non farsi ingabbiare nelle disquisizioni teologiche e morali che non valgono niente.

Lo squallido Pinkerton, in uno sprazzo di umanità, dice alla sua giovane sposa Butterfly, piangente in quanto rinnegata dai suoi per motivi religiosi: «Bimba, bimba non pianger per gracchiar di ranocchi…tutta la tua tribù e i Bonzi tutti del Giappone non valgono il pianto di quegli occhi cari e belli». Il discorso valeva per il rinnegamento, ma possiamo farlo valere anche per il suicidio disperato di madama Butterfly, caduta suo malgrado dalla padella dei Bonzi nella brace degli imperialisti cattolici americani.

 

 

Il fantasma dell’Onu

L’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani, dopo aver investigato il contenuto e l’applicazione delle intese, definite disumane, tra Ue e governo Libico in materia di regolazione dei flussi migratori e di lotta agli scafisti, afferma in sintesi: «Non possiamo essere testimoni silenti della schiavitù moderna, di stupri e altre violenze e di uccisioni fuorilegge nel nome della gestione   dell’immigrazione».

Non ci vuol molto a immaginare cosa potrà succedere nei centri di detenzione in cui vengono ammassati i migranti bloccati nel Mediterraneo: sono veri e propri campi di concentramento dove si scateneranno violenze di ogni tipo, vendite all’asta di migranti, mercati degli schiavi, etc. Gli ispettori dell’Onu dicono di essere rimasti scioccati e di avere visto «migliaia di uomini, donne e bambini emaciati e traumatizzati, ammucchiati gli uni sugli altri, imprigionati in hangar senza accesso ai beni di prima necessità più basilari e privati della loro dignità umana». Ue e Italia, ricorda l’Alto commissario per i diritti umani, stanno fornendo assistenza alla guardia costiera libica, nonostante il timore che questa pratica «condanni più migranti a una detenzione arbitraria e illimitata, esponendoli a tortura, stupro, lavori forzati, sfruttamento ed estorsione».

Non so cosa possa fare l’Onu concretamente, ma ho l’impressione che si stia lavando la coscienza buttando la croce addosso all’Unione Europea e quindi anche all’Italia. La Farnesina risponde: «Sono mesi che chiediamo a tutti i governi coinvolti di moltiplicare l’impegno e gli sforzi in Nord Africa per assicurare condizioni accettabili e dignitose».

Il concetto di gestire l’immigrazione tramite accordi e collaborazione con i Paesi Africani, Libia in primis, è teoricamente giusto, ma non trova positivi riscontri in un Paese sostanzialmente senza governo, frazionato in tribù, privo di strutture adeguate e quindi facile terreno di profittatori e sfruttatori. Se manca l’interlocutore diventa impossibile collaborare, aggiungiamoci che i Paesi europei si limitano ad elogiare l’Italia per il suo gran daffare sulla coste libiche e poi se ne fregano bellamente. L’Onu pontifica, parla bene ma razzola male; se arriva, lo fa con enormi ritardi; spesso non arriva affatto ed è più che mai il caso di dire che si limita a predicare nel deserto.

E l’Italia, come al solito, prende botte da tutte le parti, anche perché in situazioni così gravi e complesse chi tenta di fare qualcosa finisce sempre con lo sbagliare. Vale per gli Stati, per le Ong, per gli operatori sociali, per la Chiesa (accusata di perbenismo evangelico associato a concreto menefreghismo: quante volte abbiamo ascoltato i baluba nostrani chiedere al Papa di smetterla con le prediche e di ospitare gli immigrati in Vaticano).

Sono doppiamente indignato: da una parte si stanno permettendo vere e proprie deportazioni di massa e probabilmente, anche giocando di fantasia, non si riesce ad immaginare nemmeno lontanamente la disumanità della situazione; dall’altra parte assistiamo al solito scaricabarile a tutti i livelli, personale, locale, regionale, nazionale, europeo ed internazionale.

Se l’intervento dell’Onu voleva smuovere le acque, può andar bene anche se assomiglia molto al senno di poi. Se la strigliata finisce agli atti e innesca una polemica sull’attribuzione di colpe, ritardi, errori ed omissioni, i migranti non ne avranno alcun beneficio, anzi ne avranno danno e beffe. Speriamo che il pronunciamento ufficiale dell’Alto commissario serva almeno ad aumentare nelle popolazioni europee la consapevolezza della gravità del problema, distogliendole dall’egoistica tentazione dei muri, dei respingimenti facili, delle chiusure nei propri recinti, delle assurde paure e dei facili rifugi nel razzismo riveduto e scorretto.

La Ue ripesca la Pesco

Allora è proprio vero quanto sosteneva mio padre, vale a dire che quando si tratta di mettersi d’accordo per fare una guerra ci si riesce molto velocemente, mentre per fare una politica di pace…

In sede Ue l’unica significativa intesa possibile è attualmente quella relativa alla difesa comune: 23 Stati membri si sono messi d’accordo su investimenti per la difesa, sullo sviluppo di nuove capacità e sulla disponibilità a partecipare a operazioni militari congiunte, con tanto di aumento delle spese militari nazionali.

Per la verità la cooperazione strutturata permanente (Pesco) è stata introdotta dal Trattato di Lisbona, in vigore dal 2009. Quindi siamo in presenza di una concretizzazione in materia di sviluppo delle capacità militari dell’Ue. Non si tratta di un esercito comune, ma comunque sono stati presi impegni vincolanti a differenza di altri accordi da cui ogni Stato può facilmente smarcarsi.

Viene spontaneo pensare al discorso della gestione del fenomeno migratorio per il quale non si riesce a trovare una fattiva collaborazione, all’impossibilità di fare passi avanti in materia di strumenti economico-finanziari comuni, allo scetticismo riguardo alle pur   necessarie riforme istituzionali comunitarie e a diversi altri ambiti in cui la Ue segno il passo.

Non c’è verso di trovare maggiore integrazione sul piano economico-sociale, ci si riesce dal punto di vista militare: è sconfortante e paradossale. Le risorse aggiuntive per gli armamenti si trovano, quelle per accogliere gli immigrati mancano, per non parlare della rigidità con cui si trattano gli Stati membri più deboli.

Questo non è europeismo, ma una caricatura dell’Europa, è un tradimento bello e buono dello spirito dei pionieri che hanno pensato e progettato una forte integrazione fra i Paesi del nostro continente. Uno degli scopi, forse quello principale, era quello di creare i presupposti politici, economici e sociali per evitare guerre dopo le catastrofiche esperienze del passato. Ebbene, il percorso è stato letteralmente ribaltato: anziché partire dai problemi che stanno a monte di possibili conflitti, si parte dai discorsi militari il linea con il famoso e storico postulato “se vuoi la pace, prepara la guerra”.

Fa letteralmente sorridere la contestuale reprimenda all’Italia. La vera comunanza europeistica è probabilmente la follia. Da una parte ci sono Stati e forze politiche che vagheggiano l’indebolimento o addirittura lo smembramento dell’Ue; dall’altra c’è chi fa finta di volere l’Europa, ma ce ne offre una versione talmente pragmatica e spregiudicata da disamorare quei poco o tanti che ancora ci credono.

Si critica tanto la politica italiana in sede Ue: mancherebbe di un progetto. Tutto sommato, forse e da sempre, pur con tutti i limiti e i difetti che ci ritroviamo, siamo i più europeisti di tutti, checché ne pensi Jyrki Katainen, vice-presidente della Commissione Ue, rigorista dei miei stivali. Tanto per stare in tema di schizofrenia europea, da una parte abbiamo Junker che vuole assegnarci il premio Nobel per la pace alla luce del nostro coraggioso comportamento verso i migranti e non perde occasione per garantirci l’appoggio a livello finanziario, mentre il suo vice ci bacchetta pesantemente sul progetto di bilancio per il 2018.

In conclusione qual è la politica europea? La pace la promuoviamo investendo nelle armi, lo sviluppo lo favoriamo ingessando i bilanci e tagliando drasticamente le spese. Evviva l’Europa!!! Poi non chiediamoci perché qualcuno, peraltro ingiustamente, follemente e per motivi di egoismo nazionale, vuole uscire dalla Ue.