La dieta della sinistra a base di Grasso

Alla mia veneranda età, non tanto e non solo anagrafica ma soprattutto politica, nei giudizi tende a prevalere il disincanto al limite dello scetticismo, il coraggio di scartare vince sulla prudenza di aspettare. Di fronte al discorso di investitura di Pietro Grasso a leader del nuovo (?) partito-movimento-lista, che raggruppa MDP, SI, Possibile e altri, in parole povere che raccoglie tutti gli scontenti e gli avversari del PD a sinistra del PD (i duri e puri…), ho provato grande pena e malinconia, un senso di ripulsa (lo devo ammettere) verso un’operazione politica di dubbia sincerità ed autenticità (non vado per il sottile).

La generica dissertazione tuttologica, che ho potuto ascoltare integralmente in diretta sulla Rai (strana questa disponibilità di spazio per una televisione pubblica ritenuta asservita al potere renziano), mi ha riempito di tristezza: si vorrebbe ripartire dall’anno zero, dall’abc della sinistra storica, dal recupero dell’identità, dal collegamento con le forze sane del Paese, come se fino ad oggi la sinistra non fosse mai esistita e tutto il male, che non vien per nuocere, fosse imputabile a Matteo Renzi ed alla sua proposta politica. Ecco perché definisco falsa l’iniziativa che vuole solo aggregare gli arrabbiati, cavalcandone strumentalmente i più triti argomenti. Non ho ascoltato neanche una proposta riformatrice degna di questo nome, ma solo un elenco di ovvietà e di propositi velleitari. Volete un esempio: “i bonus ai giovani finiscono, ma i giovani restano…”. Era da tempo che non mi imbattevo in simili scemenze nel dibattito politico della sinistra.

Quando il discorso si affacciava timidamente alla sostanza dei problemi al di là delle forzature polemiche, non si notava alcuna diversità rispetto alle proposte del PD. Si è voluta camuffare l’evidente povertà della rancorosa operazione ricorrendo al carisma (?) di un non-politico, di un uomo che veniva dalla società civile e forse era meglio se ci rimaneva. La politica non si impara in quattro anni ricoprendo un alto incarico istituzionale. Il discorso è molto più complesso e difficile. Pietro Grasso non conferisce alcuna novità alla sinistra e dà solo copertura alle solite manovrine sinistrorse. Vi erano più applausi che proposizioni a dimostrazione che si voleva solo ingaggiare un uomo delle istituzioni trasformandolo in un improbabile capo-popolo.

Se dovessi fare un resoconto di questo comizio sarei in gravissime difficoltà: tutto compreso nel biglietto. Un tuffo nel passato: il recupero del cordone ombelicale con la CGIL, la rivisitazione dei luoghi comuni della burocrazia post-comunista, il riciclaggio di personaggi logori ed astiosi, la riproposizione riveduta e scorretta di categorie del sociologismo datato, il rifugio identitario nell’utopismo fragile, la voglia di fare un dispetto alla moglie PD tagliandole sadicamente i legami con il popolo. Il tutto non per prendere la rincorsa, ma per rimanere ancorati a schemi superati, per celebrare una rivalsa, per conservare un potere più di nicchia che di piazza, più di nostalgia che di futuro. Il nuovo movimento si chiamerà “liberi e uguali”: liberi di far male alla sinistra ed al suo elettorato potenziale; uguali a chi nella storia ha scelto il massimalismo a danno del riformismo, regalando il sistema alla conservazione se non alla reazione.

È inutile girarci intorno: si tratta di un fatto grave, che prelude ad una grave sconfitta, l’ennesima e forse decisiva. Non riesco a farmene una ragione, non capisco e quel che capisco mi fa quasi ribrezzo. Non ho idea di quanto consenso riuscirà a catalizzare questo nuovo partito, non so quanti voti “ruberà” al PD.   L’importante per questi signori è far perdere Renzi, costi quel che costi. Volendo parafrasare il coro finale del Macbeth verdiano, al convegno   costituente, su cui Grasso ha messo il proprio cappello, si sarebbe potuto cantare: «Renzi, Renzi ov’è?…dov’è l’usurpator…D’un soffio il fulminò il dio D’Alema. L’eroe Grasso spense il traditor».

Dal momento che mi mancano occasioni di confronto e di dibattito e non ho assolutamente voglia di cercarle col lanternino, oltre che sparare a raffica i miei giudizi al veleno, non mi resta che rifugiarmi nel patrimonio culturale ereditato da mio padre. Lui era un socialista senza socialismo ed anche questo lo si deduceva da come spesso sintetizzava la storia della sinistra in Italia, recriminando nostalgicamente sulla mancanza di un convinto ed autonomo movimento socialista, che avrebbe beneficamente influenzato e semplificato la vita politica del nostro paese. Non era anticomunista, ma era autonomo rispetto a questa ideologia ed estremamente critico verso gli aspetti più superficiali, faziosi, demagogici, anticlericali del comunismo italiano. Oggi sentirebbe puzza di bruciato, perché qualcosa di questo comunismo emerge dal massimalismo (da Massimo D’Alema) del nuovo soggetto politico, capitanato frettolosamente da Pietro Grasso, che oltre tutto naturalmente si guarderà bene dal dimettersi da Presidente del Senato. Ma questo è il meno!

Una bandiera per “giocare” al nazi-fascismo

Una bandiera utilizzata dai neonazisti è apparsa in una camerata della caserma dei carabinieri Toscana. A mostrarla è un video sul web. Nelle immagini, per un attimo, accanto alla bandiera, definita “la bandiera di guerra del secondo Reich”, appare anche un poster, forse un fotomontaggio, con l’immagine di Salvini. Dall’Arma si rende noto che il comandante del battaglione sta “valutando provvedimenti disciplinari” ed eventuali conseguenze penali del gesto. La caserma si trova non lontano dal centro storico di Firenze. Accertamenti sono condotti dai carabinieri del comando provinciale per raccogliere gli elementi utili a fare luce sull’episodio.

Il ministro della difesa Pinotti ha chiesto al comandante dei Carabinieri, generale Del Sette, “chiarimenti rapidi e provvedimenti rigorosi” sull’esposizione della bandiera neonazi. L’Italia e la sua Costituzione “si fondano sui valori della Resistenza” scrive Pinotti. “Chiunque giura di essere militare lo fa dichiarando fedeltà alla Repubblica, alle leggi, alla Costituzione. Chi espone una bandiera del Reich non è degno di far parte delle Forze Armate avendo violato quel giuramento. I carabinieri sono un simbolo. Per questo è ancor più grave l’esposizione della bandiera neonazista”.

Fin qui la scarna e burocratica cronaca del fatto, letteralmente scaricata da Televideo. Mi sono augurato che si trattasse di una falsa notizia, di quelle che gironzolano subdolamente sui social e in internet e di cui si fa un gran parlare, temendo che possano seriamente (?) influenzare la pubblica opinione anche in vista della prossima consultazione elettorale. Mi sto convincendo che il castello informatico in cui viviamo sia fatto di carte piuttosto false, che però purtroppo non crollano al primo soffio di verità, ma si autoriproducono all’infinito e rischiano di portarci fuori dalla mentalità democratica.

Ammettendo quindi che la notizia sia vera, confesso che un brivido mi corre nella schiena: non credo che i carabinieri di quella caserma si giustificheranno dicendo di giocare a bandiera per distrarsi dalle tensioni accumulate nell’espletamento del loro servizio. Era un innocuo gioco che un tempo si faceva nei cortili delle scuole, a metà strada fra la (mal)educazione fisica e la sciocca competizione ludica. Probabilmente si scherza col fuoco o si infuoca lo scherzo: è inutile nascondersi che queste divagazioni culturali (?) albergano negli uomini in divisa e non solo a livello di truppa. I tristi fattacci di Genova e altri episodi piuttosto frequenti dimostrano che il richiamo della foresta nazifascista è sempre in agguato in chi deve garantire la difesa, l’ordine e la sicurezza: a ben pensarci è un dato gravissimo che grida vendetta al cospetto della storia e della Costituzione italiana (lo dice con parole un po’ troppo retoriche il ministro, come sopra riportato).

La storia purtroppo si ripete: nei giorni scorsi seguendo le belle ricostruzioni trasmesse dalla Rai (manco a farlo apposta il ciclo si intitola “Passato e presente”) mi sono rinfrescato la mente sull’omertoso, se non addirittura complice, comportamento delle forze dell’ordine verso i fasci di combattimento, prima ancora che si instaurasse il regime mussoliniano: lasciavano fare, chiudevano un occhio sulle violenze e le distruzioni verso persone e strutture riconducibili ai ceti operai e contadini, in quanto si sentivano appoggiati e protetti da questi scalmanati contro i pericoli rivoluzionari del socialismo.

Temo che nelle forze armate e in quelle di polizia permanga questo senso di psicologica subordinazione verso l’estrema destra politica e la sua strumentale e demagogica capacità di difendere sempre e comunque l’onore di chi porta una divisa. Questo è l’iceberg le cui punte sono rappresentate dagli episodi clamorosamente filo-fascisti e filo-nazisti, come quello del vessillo agitato in quel di Firenze.

Invece di baloccarsi stupidamente con vomitevoli bandiere, sarebbe opportuno che carabinieri e polizia si impegnassero e sprecassero il loro coraggio in battaglie come la lotta allo sfruttamento delle ragazze immigrate: cosa ci vuole a individuare e arrestare i protagonisti di questa vera e propria tratta? Molti diranno che è tutta colpa di una politica permissiva e remissiva verso il fenomeno migratorio e quindi si ritorna daccapo. Non è un caso che (fotomontaggio o accostamento vero e proprio) accanto alla bandiera nazi-fascista ci fosse l’immagine di Salvini: mentre i carabinieri si sentono più tranquilli sventolando questi scandalosi vessilli presi a prestito da certi ben noti gruppi estremisti, questi ultimi si sentono protetti da certi ben noti politici. E il cerchio anti-democratico si chiude.

Un’ultima notazione: un mio insegnante non poteva sopportare (giustamente) la retorica della gloriosa Marina, dei gloriosi Carabinieri etc. etc. Diceva infatti: siamo tutti gloriosi se facciamo bene il nostro dovere di cittadini e di democratici. Grazie ancora professore!

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Pil dei poveri

Il Censis nel suo rapporto annuale scatta una impietosa fotografia sociale dell’Italia: «Non si è distribuito il dividendo sociale della ripresa economica, il blocco della mobilità sociale crea rancore e la paura del declassamento è il nuovo fantasma sociale». Il Censis aggiunge che l’87% degli appartenenti al ceto popolare ritiene difficile salire la scala sociale, l’84% degli italiani non ha fiducia nei partiti, il 64% è convinto che il cittadino non conti nulla. In questo quadro l’immigrazione evoca sentimenti negativi nel 59% degli italiani, con valori più alti nei ceti più bassi.

Non è certo una immagine incoraggiante anche se evidenzia dati abbastanza scontati. Che la ripresa economica fatichi non tanto a consolidarsi ma a spalmarsi sull’occupazione è cosa nota, che getta secchiate gelide sulle speranze, peraltro avvalorate da convergenti dati sulla ripresa economica provenienti da varie istituzioni e da diversi settori. Non capisco chi nega ostinatamente che l’economia italiana si stia riprendendo, sostenendo che i dati sul Pil non sarebbero attendibili e artatamente gonfiati. Su questi dati, quando hanno davanti il segno negativo, si costruiscono analisi e giudizi catastrofici; quando il segno diventa positivo non ci si crede. Mi si perdonerà, al fine di rendere l’idea, una divagazione di carattere calcistico.

Nel corso di un campionato di serie B di molti anni fa assistemmo all’incontro tra il Parma, la nostra squadra che militava nei bassifondi della classifica, e il Cagliari, compagine di altissima classifica. Mio padre temeva molto questo scontro e pensava, come la gran parte del pubblico, che il Parma avrebbe subito una pesante sconfitta. Invece – il bello della imprevedibilità del calcio – il Parma vinse con un largo punteggio, un cinque a uno clamoroso. Uscimmo con pochi minuti di anticipo, visto il punteggio: «In faran miga quàtor gol in du minud» diceva mio padre mentre abbandonavamo con una certa soddisfazione lo stadio. Appena fuori, sullo stradone, incontrammo un distinto signore che ci chiese educatamente il risultato della partita. Risposi con orgoglio: «Il Parma ha vinto cinque a uno». Ci guardò con uno strano sorriso e proseguì per la sua strada. Mio padre mi disse: «Al ne gh’à miga cardù. Adésa al la dmandarà a ‘d j ätor…Al nostor Parma…s’al pèrda i criticon, s’al vensa i ne gh crèddon miga…».

Il discorso occupazionale fatica purtroppo a trovare una definitiva e significativa inversione di tendenza, anche se qualche risultato positivo può essere registrato, ma vale sempre il discorso di cui sopra.

Sarò un patito della politica, ma quelli che mi preoccupano maggiormente sono i dati sulla sfiducia dei cittadini nel sistema politico e la chiusura egoistica da parte dei ceti più bassi: una specie di sconfortante illusione di risolvere i problemi chiudendosi a riccio nella propria particolare pessimistica povertà, che così facendo da economica diventa intellettuale e morale.

John Kavanaugh, sacerdote gesuita, filosofo e osservatore critico della nostra società consumista, scrive: «Gli uomini e le donne hanno un valore inestimabile non perché possono servire come strumenti per generare un prodotto interno lordo o per costruire la terra, né perché sono capaci di produzione o di potere e di dominio, ma perché nell’abbraccio compassionevole della loro stessa verità, nella povertà del loro essere spaventosamente incompleti, si scoprono sì vulnerabili, ma radicalmente aperti in libertà alla pienezza dell’amore e della conoscenza personale. Essi incarnano il loro stesso Dio».

Mi sembra la migliore risposta possibile agli aridi dati del rapporto Censis, pur nella consapevolezza che la povertà molto spesso rimpicciolisce il cuore, ragion per cui, come diceva papa Giovanni, le persone, prima di essere coinvolte in discorsi di apertura spirituale e sociale, dovrebbero essere soddisfatte nei loro bisogni impellenti.

Giancarlo Bossi, eroico padre missionario nelle Filippine, in riferimento alla sua diretta esperienza scrive: «Ho capito che dovevo camminare con i piccoli, i poveri. Loro sono sempre più avanti di me, perché hanno valori innati che sono già cristiani…». Cosa direbbe

del fatto che, come sostiene il Censis, l’immigrazione evoca sentimenti negativi nel 59% degli italiani, con valori più alti nei ceti più bassi? Se non erro, infatti, ciò significherebbe che più si è poveri più si tende a osteggiare i poveri, nel caso gli immigrati. Che questa brutale constatazione non serva a mettere a posto la coscienza dei ricchi!

Trump e naziskin insieme appassionatamente

Negli Usa ha sollevato polemiche il verdetto assolutorio di un immigrato messicano accusato della morte di una donna uccisa da un proiettile mentre camminava su un molo di San Francisco nel luglio del 2015. La giuria ha ritenuto l’uomo colpevole non dell’assalto, ma solo del possesso dell’arma con cui ha sostenuto di aver sparato per errore.

Il presidente Trump, dopo aver cavalcato il caso in campagna elettorale per sostenere la linea dura anti immigrati, ha così   twittato, commentando la suddetta sentenza: «Un verdetto scandaloso: nessuno stupore se la gente del nostro Paese è così arrabbiata per l’immigrazione illegale».

A Como un gruppo di naziskin entra con un blitz in un circolo Pd di sostegno agli immigrati e vomita deliranti accuse contro l’immigrazione. Giorgia Meloni, leader (?) di Fratelli d’Italia, si affretta a declassare l’accaduto da atto di violenza bello e buono a semplice atto intimidatorio, recuperando il discorso degli opposti estremismi: la vera violenza sarebbe infatti quella dei compagni dei centri sociali, i quali distruggono i beni degli italiani senza che nessuno faccia appelli per le loro condanne. Matteo Salvini, leader (?) della Lega, è intervenuto dicendo: «Il problema dell’Italia è solo Renzi, non i presunti fascisti», respingendo l’appello di Renzi a combattere le provocazioni di segno fascistoide, appello peraltro ritenuto addirittura ridicolo dalla Meloni.

Come volevasi dimostrare. I Paesi cosiddetti democratici ci stanno a sdoganare metodi e contenuti del fascismo passato e   presente pur di cavalcare le paure della gente ed incassarne il relativo dividendo elettorale. Se lo fa Trump, lo possono fare tranquillamente anche Meloni e Salvini. L’intolleranza verso gli immigrati rende scandaloso il corso della giustizia e tollera manifestazioni di chiaro stampo fascista.

Quando ho visto in televisione le immagini del blitz dei naziskin a Como, ho apprezzato il sangue freddo ed il senso civico dei presenti alla scena: non hanno mosso nemmeno un dito. Cosa sarebbe successo se avessero reagito in qualche modo alla triste intromissione di questi prepotenti, che volevano impartire lezioni socio-politiche in materia di rapporti con gli immigarti? Non cado nel giochino della distinzione tra intimidazione e violenza: l’una è l’anticamera dell’altra. Non mi presto alla resurrezione degli opposti estremismi facendo un parallelo tra naziskin e appartenenti ai centri sociali: la violenza è inaccettabile in ogni caso e mentre quarant’anni fa sbagliava certa sinistra ad esprimere comprensione verso i contestatori di sinistra, oggi sbaglia certa destra a non voler prendere nettamente le distanze dai naziskin e da Casa Pound che addirittura ha la sfrontatezza di presentare proprie liste elettorali.

Tutto sommato però ritengo molto più grave l’atteggiamento di Donald Trump rispetto alle penose e vergognose sceneggiate destrorse italiane. A parte il diverso peso politico, a parte la rilevanza del pulpito da cui viene la predica, a parte la storia che ci ha consegnato una distorta immagine democratica degli Usa, è veramente preoccupante che il presidente degli Stati Uniti abbia un concetto di giustizia asservita alla politica e un’idea razzista di colpevolezza a prescindere. Siamo su una brutta china. In fin dei conti il pericolo è che Trump fornisca un perfetto assist internazionale e populista ai movimenti estremisti di destra: una sorta di “neofascisti di tutto il mondo unitevi”.

Gli immigrati non fanno altro che mettere a nudo gli equivoci e le contraddizioni della nostra democrazia e danno una ulteriore e postuma dimostrazione della nostra propensione al fascismo, al nazismo ed al razzismo in genere. Malattie assai dure a morire e per le quali non esistono purtroppo vaccini e antibiotici: bisogna solo prevenirle e combatterle con la democrazia, quella vera.

Piove, cittadino ladro

Non sono certo tenero con la corruzione ed il malaffare annidati in politica e quindi sono portato a considerare il   qualunquismo più come un effetto che come una concausa del deterioramento etico della classe dirigente politica e non solo politica.

Però, se la gente ha il diritto di puntare l’indice contro chi la malgoverna, ha anche il dovere di autopuntare l’indice contro se stessa. Mi riferisco alle troppe persone che non fanno il loro dovere, vale a dire che non lavorano, lavorano male o, peggio ancora, commettono veri e propri atti delinquenziali nello svolgimento della loro professione.

Non voglio considerare i comportamenti che vanno contro le casse dello Stato (evasione fiscale) o contro le pubbliche istituzioni (bustarelle, raccomandazioni, etc. etc.), altrimenti la lavagna dei cattivi si farebbe veramente zeppa e tale da sminuire e riscattare quella degli amministratori balordi.

Mi limito a chi col proprio lavoro danneggia direttamente altre persone: gli operatori sociali che maltrattano gli anziani nelle case di riposo, le maestre d’asilo che picchiano i bambini, gli infermieri che se ne fregano dei malati, i medici che non ascoltano e non curano i loro pazienti, i poliziotti che torturano i soggetti indagati, i giornalisti che raccontano balle, i giudici che decidono le cause senza leggere gli atti del processo, etc. etc. C’è persino chi, anziché darsi da fare per tempo, ride sulle disgrazie comuni con un cinismo più unico che raro. Si dirà che non si deve generalizzare. Certo, ma la generalizzazione non deve essere fatta anche per i politici e gli amministratori pubblici.

E allora? Questi illustri signori (e signore) sputtanano tutti e accreditano il corpo sociale come una massa di opportunisti, scansafatiche e privi di valori. Valga al riguardo un episodio, raccontato da mio padre, che la dice lunga sull’etica del lavoro. In un cantiere edile egli assistette alle continue, reiterate, pesanti rimostranze di due operai nei confronti del loro datore di lavoro, assente dalla scena ma non per questo meno osteggiato. Tra un improperio e l’altro i due lavoratori cercavano di preparare una tavola di legno da utilizzare non so come. Dopo un paio d’ore si accorsero di avere sbagliato tutto e che la tavola era inutilizzabile. Mio padre, che aveva una linguaccia irrequieta e importuna, li rimproverò di brutto dicendo: “Al vostor padrón al sarà gram, mo sarà dificcil ch’al s’ faga di gran sòld cól vostor lavór”. Questa, a casa mia, si chiama onestà intellettuale. Era solito dire:“Primma äd tutt fa bén al to’ lavor e po’ a t’ pól fär tutti il batalj sindacäli ch’a t’ vól”.

Vale anche nei rapporti fra cittadini e governanti. Come può una maestra, che alza sistematicamente mani e voce sui bambini affidati a lei, protestare contro la ministra della pubblica istruzione rea di non alzare lo stipendio agli insegnanti. Come può un inserviente che lascia i malati in letti invasi da sporcizia e insetti chiedere che il ministro della salute migliori le strutture ospedaliere. Potrei andare avanti con questo ritornello etico. Mi limito ad aggiungere una frecciata ai sindacati: come possono chiedere un sistema pensionistico migliore, quando hanno favorito assurdi prepensionamenti privilegiati e difeso a tutti i costi chi non lavorava.

Il discorso molto delicato e provocatorio porta ad una domanda conclusiva: meritiamo una classe politica migliore o abbiamo quella che ci meritiamo (forse chi governa è addirittura, in media, migliore di chi è governato)? Domanda da cui non si esce vivi, se non dandosi una regolata. O ricuperiamo un minimo di etica o, come disse Gesù rispondendo ad una pretestuosa domanda sulle vittime dei cataclismi, periremo tutti.

 

Uomo informato, mezzo rovinato

Mio padre mi raccontava come, ai tempi del fascismo, esistesse un popolano del quartiere (più provocatore che matto) che era solito entrare nei locali ed urlare una propaganda contro corrente del tipo: “E’ morto il fascismo! La morte del Duce! Basta con le balle!”. Quel popolano dell’oltretorrente, oltre che avere un coraggio da leone, usava molto bene l’arte della polemica e della satira.   Ci voleva del fegato ad esprimersi in quel modo, in un mondo dove, mi diceva mio padre, non potevi fidarti di nessuno, perché i muri avevano le orecchie. Ricordo che, per sintetizzarmi in poche parole l’aria che tirava durante il fascismo, per delineare con estrema semplicità, ma con altrettanta incisività, il quadro che regnava a livello informativo, mi diceva: se si accendeva la radio “Benito Mussolini ha detto che….”, se si andava al cinema con i filmati luce “il capo del governo ha inaugurato….”, se si leggeva il giornale “il Duce ha dichiarato che…”. Tutto più o meno così.

Ebbene la politica e la democrazia possono morire asfissiate dalla mancanza di informazioni, ma possono soffrire per l’eccesso di notizie, soprattutto se parecchie di esse sono false e sbdolamente divulgate. Il mondo moderno è caratterizzato proprio dalla velocità e dalla quantità di notizie che circolano sul web e sui social media: abbiamo la sensazione di sapere o poter sapere tutto di tutti e quindi di essere in grado di operare scelte di ogni tipo a ragion veduta. Si tratta di una pia illusione, perché dai consumi alla politica c’è chi riesce a pilotare questo circo mediatico. Non voglio fare il retrogrado a tutti i costi, ma non so se fossimo più e meglio informati ai tempi in cui esisteva un solo e pubblico canale televisivo rispetto all’odierna marea che ci investe senza tregua.

Gli stimoli culturali non mancano ed è un gran bene, ma, senza prendere in considerazione i fenomeni patologici dell’informazione, la banalizzazione e la falsificazione sono dietro l’angolo. Non vi è alcun dubbio che la mentalità corrente risenta di questa promiscuità e si formi nella confusione creata ad arte per influenzare l’opinione pubblica.

Le scelte politiche rischiano effettivamente di essere orientate dall’esterno, da una sorta di realtà parallela costruita sul web. Capire chi giochi sporco credo sia come cercare l’ago nel pagliaio, anche se è giusto lanciare l’allarme. Si diceva un tempo: “uomo avvisato, mezzo salvato”. Oggi non saprei sinceramente come modificare questo detto, forse si potrebbe dire: “uomo informato, mezzo rovinato”.

Tutti si sentono e si dichiarano al di sopra di ogni sospetto, le galline cantano e non si capisce quali di esse facciano l’uovo. Auspicare meccanismi di controllo e pensare così di difendersi dalle false notizie è pia illusione. A volte si vedono immagini quasi grottesche di zone alluvionate dove le persone, immerse nell’acqua fino alla cintola, si riparano dalla pioggia con l’ombrello. Il paragone ci può stare. Bisogna imparare a convivere con l’acqua alta delle notizie, come fanno i Veneziani; è necessario imparare a convivere con i venti impetuosi del web come fanno i Triestini con la Bora.

Vengono prima le notizie o la capacità critica di leggerle? Informati o disinformati? Questo è il problema. A volte mia madre, sconfortata dalle notizie di cronaca nera, ammetteva paradossalmente come si vivesse meglio quando certi fatti non si sapevano, magari si immaginavano, ma, come noto, “i ‘d aviz ien cmè j insònni”. Ora invece le certezze diventano sogni e si è costretti ad immaginare la realtà, quella vera non quella delle false notizie.

 

Gli acuti, le mezze-voci e i falsettoni

In una storica e   simpatica trasmissione televisiva su Telereggio, che si occupa di opera lirica, ho sentito riportare, seppure prendendone le distanze, un giudizio colorito e dissacrante sul famoso tenore Mario Del Monaco: un “zbrajalòn”, vale a dire un urlatore. Ci può stare a livello provocatorio, anche se un tantino di cautela non guasterebbe.

Nel salotto di Gianni, così è definito questo settimanale appuntamento di melomani, per difendere la memoria di Del Monaco si è voluto aggiungere un improbabile parallelo col tenore Franco Corelli, il quale in tutta la sua inimitabile e inarrivabile carriera ha rappresentato proprio l’esatto contrario del puro sparatore di acuti alla viva il parroco, tramite una quasi maniacale coniugazione della prestanza vocale con la modulazione dei suoni, la ricerca dello stile e la partecipazione interpretativa.

Ci sono in sostanza due modi diversi di esibire i muscoli vocali: sedersi sugli allori dei do di petto oppure fare della prestanza vocale un trampolino di lancio per cantare come si deve.

La politica italiana, in questa interminabile e insopportabile fase, è caratterizzata dai “zbrajón” (versione parmigiana del succitato zbrajalòn reggiano), vale a dire da chi urla o grida in modo da disturbare l’avversario senza preoccupazioni di stile, equilibrio, rispetto e soprattutto di contenuto. Ce ne sono in tutto l’arco dello schieramento.

L’urlatore principale è indubbiamente Beppe Grillo, seguito a ruota da Matteo Salvini. Nel gruppo entra anche la pattuglia dei sinistrorsi a tutti i costi. Mentre i pentastellati tendono a sbraitare per loro conto, gli altri pretenderebbero di far parte di un coro. Salvini crea grossi grattacapi al maestro (?) Berlusconi, che vorrebbe zittirlo, ma non può: il loggione di destra gradisce infatti più gli acuti sgangherati delle sfumature vocali. I coristi piazzaioli della sinistra stanno alquanto sulle palle a Renzi, che non può permettersi il lusso di mandarli a cantare all’osteria e quindi tenta disperatamente di recuperare almeno le voci più morbide e malleabili.

Da una parte il redivivo cavaliere dell’apocalisse, sempre più carnevalesca maschera di se stesso, tenta di rifare, oltre al proprio viso, l’operazione del 1994: c’è una bella differenza tra il Bossi di allora e il Salvini di oggi, tra il Fini di Alleanza nazionale e la Meloni di Fratelli d’Italia, tra i casiniani centristi di allora e i casinisti moderati di oggi.

Dall’altra parte il guizzante rottamatore, sempre più testarda imitazione di se stesso, tenta di ricominciare il lavoro da dove lo aveva interrotto, vale a dire dalla sconfitta nel referendum costituzionale: c’è una bella differenza tra il PD proiettato nel futuro e quello dilaniato dalle correnti interne ed esterne e ripiegato sulla propria identità.

A Berlusconi propongono persino di stipulare un patto davanti al notaio per la paura che l’indomani delle elezioni possa scantonare verso le larghe intese; stesso pretestuoso timore verso Renzi nutrono i puristi della sinistra. In molti hanno una fifa matta della tardiva caricatura del compromesso storico: quel coro di moderato buon senso che potrebbe strozzare le ugole dei “zbrajalòn” o dei “zbrajón” come dir si voglia. Agli acuti sparati alla viva il parroco si sostituirebbero le mezze-voci, se non addirittura i falsettoni. Per cantar bene però ci vorrebbero uno o più Franco Corelli della politica: questo prestigioso cantante lirico, appena si accorse di non essere più all’altezza della situazione, non esitò a ritirarsi dalle scene. Pensate se facessero così anche i politici italiani…

Aggiungi un posto al cimitero

Quando scoppiò la prima tangentopoli, verso la fine degli anni ottanta in quel di Milano, ricordo come avesse fatto grande scalpore il fatto che la corruzione avesse coinvolto anche il mercanteggiamento dei loculi cimiteriali: si pagavano tangenti per licenze edilizie, per pubblici appalti, per posti di lavoro, per favori di ogni tipo, persino per avere un posto al cimitero. Era tutto dire. Le monetine lanciate a Bettino Craxi risentivano di questo clima di esasperazione: in lui, reo di avere istituzionalizzato il sistema tagentizio, si attaccava il malcostume diffuso, salvo concedere successivamente e frettolosamente fiducia a chi ne era stato complice o a chi era comunque peggio di lui (non c’è bisogno di chiarire a chi mi riferisco). Basti dire che quanti esibivano il cappio in Parlamento finirono per allearsi con chi aveva fatto affari d’oro con Craxi e c.

A distanza di trent’anni la storia si ripete. A Potenza una inchiesta della Polizia ha portato all’arresto di tre persone, due ai domiciliari e una in carcere, per la vendita di loculi nel cimitero monumentale della città. Il Gip, che ha emesso i provvedimenti restrittivi nei confronti degli indagati, ipotizza una serie di reati: falsità materiale commessa da pubblico ufficiale, peculato, induzione indebita a dare o promettere denaro, corruzione e violazione dei sistemi informatici.

Non so come andrà a finire questa inchiesta, molte volte il tutto si sgonfia e resta solo un’eco amara, che contribuisce tuttavia a creare sfiducia e discredito; a volte purtroppo emergono paradossali realtà come punta di un iceberg che non accenna ad essere smaltito. Faccio una certa fatica a immaginare cosa possa essere concretamente successo, fatto sta che l’affarismo deteriore ci accompagna dalla culla alla bara.

Diventa quindi molto difficile ripulire dal qualunquismo l’atteggiamento dei cittadini verso l’amministrazione della cosa pubblica. Il qualunquismo si basa sulla convinzione che tutti rubino e che quindi non ci possa essere via di scampo sul piano etico e politico. Di qui sfiducia, astensionismo, proteste verso tutto e tutti in una generalizzazione che non lascia scampo. Quando emergono questi fatti emblematici di un vero e proprio sistema illegale, la tentazione è di rifugiarsi nel così fan tutti e di eliminare la politica dal proprio orizzonte culturale. Oltre al danno erariale che ne consegue, oltre alle ingiustizie che vengono perpetrate, il fatto più rilevante è il danno d’immagine per l’intera classe politica e per le istituzioni. Il qualunquismo trova terreno fertile e diventa sempre più arduo combatterlo.

Resto sempre impressionato quando la Corte dei Conti sostiene che l’importo totale dell’ammanco dovuto al fenomeno della corruzione sarebbe sufficiente a coprire il disavanzo dei conti pubblici. Mio padre era solito affermare che, se tutti pagassero regolarmente le tasse e nessuno rubasse il denaro pubblico, “ag saris da där al polàstor ai gat”. E giustamente lui metteva insieme chi non porta il dovuto e chi toglie il non dovuto dalle casse dello Stato. Il malcostume a livello politico infatti finisce col giustificare l’evasione fiscale: ma perché io devo pagare le tasse? Perché poi chi governa se le metta nelle proprie tasche? E giù valanghe di qualunquismo a buon mercato.

Ricordo come un giorno un mio acuto e disincantato conoscente mi abbia posto una domanda sibillina di questo tipo: è più qualunquista chi ruba il denaro pubblico a man salva o chi generalizza la propria indignazione fino a farne uno stile di attacco alla classe politica ed ai pubblici amministratori? Non ricordo di preciso, ma penso di avere risposto che chi si fa o si lascia corrompere presuppone comunque la presenza attiva di chi vuole lucrare illegalmente favori e vantaggi.

La storia politica è piena di luminosi esempi di comportamenti corretti e leali, che purtroppo rischiano di essere oscurati dal malaffare emergente e dilagante. I media ci giocano sopra promuovendo spesso lo scandalismo facile. La magistratura interviene spesso sporadicamente e tardivamente, a volte anche strumentalmente. I populisti soffiano sul fuoco sperando di incassare un grottesco dividendo, senza capire che da simili derive tutti hanno tutto da perdere.

Resta comunque una tremenda realtà che grida vendetta. Vai a far capire alla gente che la miglior vendetta non è astenersi dal voto e disinteressarsi di politica, ma scegliere con testardo impegno e partecipare con scrupolosa attenzione. La lunga campagna elettorale che si sta profilando avrà fra i suoi motivi predominanti il fango della pubblica corruzione? Ci sono non poche avvisaglie in tal senso!

 

 

Putost che nient (Grillo) è mej putost (Berlusconi)

Da qualche tempo mi frullava nella mente un’ipotesi paradossale: se malauguratamente si presentasse l’alternativa politica, complice la sciocca automarginalizzazione della sinistra, tra il centro-destra più o meno riberlusconizzato e il movimento cinque stelle più o meno dimaiozzato, cosa si dovrebbe fare senza rifugiarsi in un pericoloso e snobistico pilatismo.

Ed ecco puntualmente materializzarsi questo sondaggio in capo a Eugenio Scalfari. Da lui in prima battuta mi sarei aspettata una risposta ironica del tipo “me ne andrei in Svizzera”, idea peraltro ironicamente già espressa qualche tempo fa in concomitanza con le scorribande di Daniela Santanché.

Ebbene Scalfari ha risposto in modo tutto sommato condivisibile, con una schiettezza che ha scandalizzato: se ho capito bene, in poche parole tra l’avventuristico vuoto pneumatico antisistema dei pentastellati   e il conformistico rigurgito berlusconiano ha scelto, turandosi il naso, il male minore e dalla torre ha buttato giù Di Maio e compagnia recitando.

C’è un modo di dire dialettale che rende assai bene l’idea delle scelte minimalistiche: “putost che nient è mej putost”. Penso che Eugenio Scalfari abbia ragionato così e tutti a dargli addosso dipingendolo quale subdolo voltagabbana rispetto al viscerale antiberlusconismo del passato.

Innanzitutto bisogna considerare che il tempo rende più disincantati i giudizi: Berlusconi a distanza di tempo resta una sciagurata opzione italiana, ma siccome alle disgrazie non c’è mai limite, anzi una tira l’altra, a volte è meglio stare, come si suol dire, nei primi danni.

Questo ragionamento paradossale, ma pragmatico, segna peraltro il fallimento della mission politica del grillismo: tanto hanno contestato e contestano a vanvera da trasformare gli italiani più avveduti negli ultimi giapponesi del sistema. Non c’è che dire, bel risultato davvero: sono riusciti a sdoganare Berlusconi. La vera riabilitazione del cavaliere probabilmente non verrà dalla Corte europea, ma è già arrivata dal velleitarismo inconcludente e pernicioso dei cinque stelle.

Non mi sono curato di seguire la coda polemica alle dichiarazioni di buon senso di Scalfari, ho la presunzione di averne colto il significato provocatoriamente allusivo e intrigante. Se da una parte, come detto, l’ipotesi di una sorta di ballottaggio fra Berlusconi e Grillo segna la clamorosa sconfitta del secondo, dall’altra comporta la constatazione della drammatica debolezza politica della sinistra.

Qualcuno prevede che le elezioni politiche si terranno in marzo del 2018 in modo da avere il tempo per ripeterle immediatamente, ovviando all’ingovernabilità e proponendo con ogni probabilità la scelta uscita per ora dal laboratorio chiacchierone della politica.

In Francia la scelta del male minore si è già verificata in un passato non troppo lontano: Chirac fece argine all’ondata della destra fascista. Alle ultime elezioni francesi ci ha pensato Macron a dribblare queste strane ipotesi minimaliste. Matteo Renzi sarà in grado di prospettare agli italiani una benefica mossa del cavallo? E se tra i due litiganti, Berlusconi e Grillo, godesse il terzo? Ma il terzo ha purtroppo la lite in casa e quindi…

Le bambole violentabili

Siamo alle solite: il sistema attacca se stesso come un soggetto che si guarda allo specchio e si scandalizza delle proprie vergogne. Cosa ha prodotto il nostro sistema in capo alla donna? Un cliché spaventosamente alienante e consumista. Se la donna è considerata una bambola, è consequenziale usarla come un corpo senza vita e senz’anima, per poi buttarla in un angolo o addirittura farla a pezzi. Una sorta di bambola gonfiabile o sgonfiabile a piacimento del sistema e, siccome il sistema è maschilista, la bambola fa una brutta fine. Se non si parte da questa triste realtà, le battaglie a difesa della donna rischiano di essere velleitarie e di facciata.

È perfettamente inutile ed irritante che il mondo televisivo si metta a posto la coscienza dedicando spazio alle storie di donne violentate, abusate, molestate, uccise, quando dai video pubblici e privati esce un’immagine femminile alienante e perfettamente funzionale   ad un certo andazzo di sistema.

Vale lo stesso discorso per il mondo del cinema e dello spettacolo: cosa propongono in materia? Sesso associato a violenza. Uomini e donne assetati di piacere, disposti a tutto pur di placare questa sete.

E la politica? Arriva in ritardo di secoli e pensa di recuperare con i soliti discorsi. Siamo tutti contro la violenza alle donne e allora chi le violenta? Si punta a criminalizzare gli immigrati, poi si scopre che la stragrande maggioranza degli episodi contro le donne è racchiusa in famiglie perbene.

La celebrazione della giornata contro la violenza alle donne lascia purtroppo il tempo che trova. Meglio di niente, siamo d’accordo. Parlarne può essere sempre utile. Ma bisogna affondare il bisturi, altrimenti il male, molto profondo e radicato, non viene estirpato.

Ripropongo un piccolo episodio alquanto emblematico, che ho già citato in parecchie occasioni. Ricordo che, molti anni fa, monsignor Riboldi, battagliero vescovo di Acerra, durante una conferenza all’aula dei filosofi dell’Università di Parma, raccontò come avesse scandalizzato le suore della sua diocesi esprimendo loro una preferenza verso la stampa pornografica rispetto a certe proposte televisive perbeniste nella forma e subdolamente “sporche” nella sostanza. In fin dei conti, voleva dire, la pornografia pura si sa cos’è e la si prende per quello che è, mentre è molto più pericoloso il messaggio nascosto, che colpisce quando non te l’aspetti. In definitiva meglio la pornografia conclamata di quella subdola, meglio gli sporcaccioni e le sporcaccione in prima persona, nudi come mamma li fece, piuttosto degli sporcaccioni e delle sporcaccione in giacca e cravatta o in tailleur rosso sgargiante.

Il discorso vale per la pornografia, ma vale per tutta la cultura maschilista, sessista, antifemminista. I maltrattamenti, le sevizie, le mutilazioni, le uccisioni e gli stupri sono l’ultimo atto di una tragedia lunga in cui molti hanno una parte. Pensiamoci seriamente. Le bambole gonfiabili sono un grottesco diversivo in risposta alla patologia sessuale. Le bambole violentabili sono una colpevole responsabilità di un sistema malato, che non si cura coi pannicelli caldi delle giornate, delle partite, delle manifestazioni, delle cerimonie, dei convegni. Tutto serve, ma tutto ha un limite.